SINAPPSI

2018/2

Questa volta è diverso? Mercati, lavoro e istituzioni nell’economia digitalizzata


Quest’articolo fornisce un quadro analitico circa i principali effetti della digitalizzazione e dell’automazione sul funzionamento dei mercati e sul lavoro. Il primo elemento riguarda il potere di mercato che stanno acquisendo le imprese più rapide nell’adottare le nuove tecnologie (e i nuovi modelli organizzativi) e gli effetti che tale concentrazione di potere potrebbe avere sulla struttura dei mercati, il conflitto capitale-lavoro e la capacità delle istituzioni di intervenire a fini redistributivi e a tutela della concorrenza. Il secondo concerne la rinnovata capacità delle macchine di sostituire esseri umani nello svolgimento di mansioni sin ora ad esclusivo appannaggio di questi ultimi, con le relative implicazioni in termini di disoccupazione tecnologica. Una volta delineate le ‘specificità’ dell’attuale transizione tecnologica, questo lavoro riflette sul ruolo che la politica economica potrebbe giocare per favorire una massimizzazione dei benefici e una contestuale minimizzazione dei rischi sociali legati a tale transizione. Come citare questo articolo: Franzini M., Guarascio D. (2018), Questa volta è diverso? Mercati, lavoro e istituzioni nell’economia digitalizzata, Sinappsi , VIII, n.2, pp.19-34

This article analyses the main effects of digitisation and automation on the functioning of markets and on labor. First, companies that are more rapidly adopting new technologies (and new organizational models) are gaining a substantial market power. This concentration of power is affecting the structure of markets; the shaping of the capital-labour conflict; as well as the effectiveness of institutions pursuing redistribution and promoting competition. Second, the growing opportunities for automation give rise to new risks in terms of employment and income distribution. Once the ‘specificities’ of the current technological transition are outlined, this work reflects on the role that economic policy could play to maximize technology-related economic benefits minimizing, at the same time, the social risks linked to such transition.#How to cite this article:#Franzini M., Guarascio D. (2018),   Questa volta è diverso?   Mercati, lavoro e istituzioni nell’economia digitalizzata, Sinappsi,   VIII, n.2,   pp.19-34

1. Introduzione

Il cambiamento tecnologico non è neutrale. I suoi effetti si dispiegano in modo asimmetrico tra i gruppi sociali, le entità economiche e le aree geografiche. Il cambiamento tecnologico è diretta manifestazione delle relazioni di potere in essere e, d’altro canto, di tali relazioni può determinare il consolidamento, la trasformazione o perfino lo stravolgimento (Franzini e Pianta 2016; Guarascio e Sacchi 2017; Guarascio e Pianta 2018). In questa fase storica, gli effetti socio-economici del cambiamento tecnologico sono al centro dell’attenzione di studiosi e governi. In particolare, si guarda alla rapida digitalizzazione e automazione dei processi produttivi e ai cambiamenti che stanno interessando il consumo e la comunicazione. Seppur dirompenti, queste trasformazioni non costituiscono una ‘rivoluzione’ o un cambio di paradigma tecnologico. Al contrario, l’attuale processo di digitalizzazione rappresenta un approfondimento del paradigma tecnologico che domina ormai da un trentennio: l’Information and Communication Technology (ICT). In termini storici, l’attuale fase di digitalizzazione della produzione e del consumo può essere considerata un salto, un’accelerazione lungo la curva di diffusione delle tecnologie digitali la cui origine risale agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso quando venne introdotta la tecnologia su cui si fonda l’intero processo di diffusione: il micro-processore (Freeman  e Louçã 2001; Eurofound 2018). Questo salto lungo la traiettoria evolutiva dell’ICT coincide con l’integrazione delle tecnologie digitali (e delle combinazioni di queste con i prodotti, i processi e le tecnologie preesistenti), da un lato; e la (quasi) totalità dei prodotti, dei servizi e dei settori dell’economia, dall’altro. Similmente, le attuali opportunità di automazione (e di ‘robotizzazione’) dei processi produttivi – nella manifattura e nei servizi e nelle sempre più frequenti crasi dei due – costituiscono non una rivoluzione, ma un’accelerazione lungo una traiettoria evolutiva che ha visto, sin dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, le produzioni (in primo luogo manifatturiere) tendere verso l’automazione.

Pur non rappresentando una rivoluzione tecnologica in senso stretto, l’avvento di digitalizzazione e automazione coincide con il consolidarsi di un nuovo modello di business che ha significativi effetti sul funzionamento dei mercati e delle istituzioni ad essi connesse. Il modello di business che si va consolidando ha: i) nella cattura e nel monopolio dei dati la principale fonte di potere di mercato; ii) nella partecipazione di una massa crescente di soggetti al processo produttivo e, quindi, nella possibilità di accedere a quantità sempre maggiori di dati personali, il meccanismo che consente di accrescere e consolidare tale potere; iii) nella società polarizzata e diseguale il suo contesto (sociale, istituzionale e culturale) d’elezione. È possibile identificare tre tratti salienti di questo modello.

In primis, l’uso di tecnologie digitali basate sull’archiviazione e l’elaborazione continua di grandi masse di dati – spesso estremamente dettagliati circa l’oggetto cui si riferiscono e che includono informazioni chiave quale la georeferenziazione dello stesso – contribuisce ad abbattere le barriere spazio-temporali nelle relazioni sociali ed economiche. Ciò avviene in modo significativamente più intenso rispetto alla prima fase di diffusione dell’ICT, durante la quale un ampio numero di attività economiche venne riorganizzato mediante l’esternalizzazione e la delocalizzazione (sia a livello nazionale sia a livello internazionale) di segmenti del processo produttivo. Una conseguenza di tale abbattimento consiste nella concentrazione del potere economico, la cui intensità è correlata positivamente al grado di asimmetria delle relazioni socio-economiche oggetto del processo di digitalizzazione – si pensi, ad esempio, alla relazione tra capitale e lavoro o ai rapporti competitivi tra le imprese (Braverman 1974).

Il secondo tratto saliente riguarda la peculiare forma organizzativa che caratterizza le imprese digitali, cioè imprese che hanno tra le loro attività-chiave proprio l’accumulazione e l’elaborazione di grandi masse di dati e l’uso di piattaforme digitali. Queste imprese sono frequentemente sottocapitalizzate e a bassa (o bassissima) intensità occupazionale. La sottocapitalizzazione, tuttavia, non riguarda la disponibilità di risorse finanziarie[1] quanto la (scarsa) dotazione di capitale fisico su cui questi agenti economici basano la propria attività[2]. Da questo punto di vista, lo scarso peso relativo del capitale fisico è legato a: i) la natura (parzialmente) immateriale delle reti su cui le imprese digitali si basano; ii) la capacità di coinvolgere input nel processo produttivo senza acquisirne formalmente la titolarità;  iii) la possibilità di riprodurre gli output che vengono commercializzati senza necessità di mobilitare nuovamente gli input produttivi (e dunque senza la necessità di sostenere nuovi costi) una volta che tali beni e servizi vengono collocati sulla rete.

Per avere, invece, una misura dell’intensità occupazionale relativa delle imprese digitali, è utile confrontare la posizione odierna dei principali leader del comparto – Google, Amazon e Facebook – con quella delle imprese che, nelle precedenti fasi tecnologiche, dominavano comparti quali la produzione di automobili o il commercio al dettaglio (si pensi, nel primo caso, a imprese quali Ford o General Motors e, nel secondo, a colossi dei servizi commerciali come Walmart). A fronte di quote di mercato e di valori azionari analoghi e in alcuni casi superiori, l’intensità occupazionale di Google, Amazon e Facebook è radicalmente e strutturalmente più bassa. Nel 1979, alla General Motors il numero di occupati raggiunse il massimo, pari a circa 850.000 addetti. Nel 2018 il totale degli addetti di Alphabet (la società che controlla Google) è circa 1/10, cioè 85.000.

Il terzo tratto saliente riguarda le caratteristiche e le modalità di esercizio (e consolidamento) del potere di mercato. Le imprese che si fondano sull’uso di grandi masse di dati tendono a diventare dei market gatekeepers. Esercitando una posizione dominante nel controllo e nella gestione di informazioni economicamente rilevanti, i market gatekeepers detengono, di fatto, il potere di regolare l’accesso ai mercati-reti che gestiscono estraendo rendite crescenti in virtù di tale potere. In questo quadro, l’espansione delle imprese digitali coincide con l’accumulazione e il consolidamento di quote di mercato finalizzate alla massimizzazione di ‘rendite informative’.

Quest’articolo intende fornire un quadro analitico e interpretativo circa i principali effetti della digitalizzazione e dell’automazione sul funzionamento dei mercati e sul lavoro. Nel paragrafo che segue vengono delineati gli effetti che la diffusione di tecnologie digitali e di modelli organizzativi basati sull’uso di Big Data hanno sul funzionamento dei mercati. Il terzo paragrafo si concentra sul lavoro focalizzando l’attenzione sull’impatto che le evoluzioni tecnologiche correnti potrebbero avere su quantità e qualità dell’occupazione; mentre il paragrafo successivo propone una riflessione sul legame tra digitalizzazione, automazione, mansioni e competenze. Il paragrafo conclusivo fornisce alcune riflessioni sul ruolo che la politica economica potrebbe avere per massimizzare i benefici e minimizzare i rischi sociali connessi all’attuale transizione tecnologica.

2. Digitalizzazione, automazione e dinamica dei mercati

La capacità di controllo e gestione delle informazioni di cui dispongono le imprese digitali pone in questione la tradizionale distinzione tra impresa e mercato. Invero, la distinzione tra impresa e mercato proposta dalle teorie economiche che analizzano le caratteristiche e il funzionamento dell’impresa trova il suo punto focale proprio nel ruolo delle informazioni o, più precisamente, nel ruolo dei costi di transazione che largamente dipendono dalle informazioni (Coase 1937). L’indisponibilità di informazioni complete e universalmente accessibili circa gli oggetti e le relazioni economicamente rilevanti, infatti, riduce (o elimina) lo spazio per lo scambio basato sui meccanismi di mercato, ovvero sui prezzi. In questo contesto, l’organizzazione gerarchica dell’impresa si configura come un dispositivo teso a ridurre i costi di transazione presenti in tutti i casi di informazione imperfetta e asimmetricamente distribuita – e, dunque, finalizzato a favorire la realizzazione di transazioni economiche che non si sarebbero potute realizzare mediante mere interazioni di mercato. Nell’attuale fase evolutiva del paradigma dell’ICT, l’uso combinato di Big Data e di strumenti di archiviazione e trattazione dei dati basati sull’Intelligenza Artificiale (IA) accresce sensibilmente la capacità delle imprese di esternalizzare porzioni anche infinitesimali del processo produttivo e, conseguentemente, ‘restringe il perimetro organizzativo dell’impresa’. Richiamando l’ipotesi avanzata in precedenza di imprese digitali quali market gatekeepers, dunque, il controllo di vaste reti informative sembra coincidere con il rarefarsi delle barriere che hanno sin qui distinto l’impresa dal mercato. In altri termini, le imprese digitali, in particolare i soggetti economici che controllano le reti di informazione più vaste come nel caso di Google, Facebook e Amazon, ‘si fanno mercato’.

Questa rarefazione dei confini, tuttavia, corrisponde a un’accentuazione della capacità di controllo gerarchico e di etero-direzione delle relazioni economiche da parte dei soggetti che controllano le reti informative – cioè le imprese digitali – piuttosto che a un’estensione delle logiche proprie dei mercati concorrenziali basate sull’orizzontalità, la libertà di ingresso/uscita dallo spazio economico e l’assenza di posizioni dominanti. Generando una sorta di paradosso teorico, dunque, la digitalizzazione degli spazi economici rende possibile, da un lato, la riduzione delle asimmetrie informative e dei connessi costi di transazione creando le condizioni per una sensibile riduzione delle inefficienze e per una diffusione massiccia delle opportunità economiche. Dall’altro lato, tuttavia, il monopolio privato delle reti informative consente alle imprese digitali di drenare a proprio vantaggio i benefici derivanti dai guadagni di efficienza (frutto dell’esternalizzazione) mantenendo però saldo il potere gerarchico e di etero-direzione (tipico dell’impresa).

In quanto segue, vengono brevemente illustrati gli elementi che contraddistinguono l’attività delle imprese digitali e, in particolare, i meccanismi che consentono loro di accumulare quote di mercato operando quali market gatekeepers. Il primo elemento riguarda la capacità di sfruttare i cosiddetti network effects. Questi ultimi danno la possibilità alle imprese digitali di estrarre rendite informative crescenti all’aumentare del numero dei nodi che partecipano alle reti-mercati che le stesse imprese controllano – quando si fa riferimento a reti-mercati controllati dalle imprese digitali si pensa, ad esempio, alle reti sottostanti i segmenti di mercato controllati da imprese come Amazon o Uber. Focalizzando la loro attenzione sui two-sided network effects sfruttati da Uber (piattaforma digitale la cui attività-chiave è il trasporto privato su gomma), Parker et al. (2016) definiscono i network effects in base alla seguente catena di relazioni: l’aumento dei nodi-guidatori aumenta l’offerta di corse con l’effetto di ridurre il prezzo e il tempo di attesa medio e conduce per questa via a una maggiore competitività; quest’ultima induce, a sua volta, un aumento del numero di nodi-utenti che si iscrivono alla piattaforma ampliando ulteriormente il mercato di riferimento e attirando nuovi guidatori e alimentando nuovamente la catena di relazioni. Meccanismi analoghi possono essere identificati se si pensa all’efficacia e al valore di una piattaforma come Google: l’aumento degli utenti che navigano attraverso il browser arricchisce la dotazione di informazioni della piattaforma; le accresciute informazioni su attività, relazioni e preferenze dei nodi aumenta la capacità predittiva e dunque l’efficienza dell’algoritmo di ricerca e, dunque, lo rende più competitivo e popolare; l’aumentata popolarità accresce ulteriormente la popolazione di nodi-utenti con un effetto positivo sulle performance economiche e le quote di mercato della piattaforma[3].

Il secondo elemento riguarda la capacità delle piattaforme di fornire incentivi sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta, massimizzando per questa via ricavi e quote di mercato. Un esempio immediato di tale strategia è la fornitura dei servizi Google: per l’utente tale fornitura non implica alcun costo immediato (nel caso dei servizi di base come il motore di ricerca o la mail) ma per la piattaforma la stessa fornitura implica l’apertura di un canale da cui estrarre continue informazioni su cui costruire i ‘profili’ da vendere sul mercato pubblicitario (avendo come effetto indiretto l’accresciuto valore economico della rete sottostante e dei servizi ad essa connessi). Similmente, gli sconti praticati da Amazon (piattaforma leder nel settore dei servizi commerciali) su specifici prodotti o a vantaggio di specifici segmenti di clientela sono finalizzati alla penetrazione in nuovi mercati e/o al consolidamento delle posizioni già acquisite. Anche tale strategia incentivante trae origine dall’immensa dotazione di informazioni di cui la piattaforma dispone. 

Il terzo elemento concerne la traslazione (esternalizzazione) di costi e rischi su operatori esterni al perimetro dell’impresa. Come già argomentato, il controllo di vaste reti informative moltiplica le opportunità di esternalizzazione di parti del processo produttivo riducendo l’ammontare di costi fissi e variabili che l’impresa sostiene rendendo così possibile incrementare efficienza organizzativa e competitività. Un esempio di tale processo di esternalizzazione è offerto dalle piattaforme digitali che organizzano attività poste in essere nel mondo fisico (si pensi a piattaforme quali Uber, Deliveroo o Foodora). Gestendo le attività attraverso Smartphone e App, queste imprese riescono a demandare l’espletamento di piccole e piccolissime porzioni del processo produttivo a soggetti che operano in qualità di ‘partner’ delle piattaforme senza riconoscere loro lo status di lavoratori dipendenti, con rilevanti implicazioni in termini di minori costi e maggiore flessibilità. L’effetto di tale capacità di esternalizzazione sulla struttura dei costi e organizzativa delle piattaforme digitali è ben sintetizzato da Tom Goodwin, vice presidente di Havas Media:

 

“Uber la più grande compagnia di taxi del mondo, non possiede nessun veicolo. Facebook, il proprietario di media più popolare al mondo, non crea contenuti. Alibaba il primo rivenditore al mondo non dispone di scorte. Airbnb, il più grande fornitore di alloggi al mondo, non possiede immobili”.

 

Il quarto elemento attiene alla relazione tra piattaforme digitali e lavoro e si connette parzialmente a quanto già illustrato (il tema è approfondito nel paragrafo successivo). In primo luogo, la capacità di esternalizzazione di cui dispongono le imprese digitali dà alle stesse la possibilità di usare in modo flessibile il lavoro di cui si avvalgono. Tale flessibilità coincide in molti casi con: i) uno squilibrio nel potere contrattuale a favore della piattaforma – su questo punto, si vedano i contributi di Berg (2016), De Stefano (2016) e Collier et al. (2017); ii) l’esercizio di prestazioni lavorative in perimetri non regolamentati con un elevato grado di incertezza e di rischio a carico dei lavoratori. In termini di performance, ciò consente alle imprese digitali di aumentare la produttività relativa e di ridurre in modo significativo il peso del costo del lavoro anche quando le attività svolte prevedrebbero – come nel caso di labor platforms quali Uber, Foodora o Deliveroo – un uso intenso dello stesso fattore produttivo (Guarascio e Sacchi 2018).

Infine, il dispiegarsi della digitalizzazione contribuisce a rendere sempre più labile il confine tra consumatore e produttore con ulteriori effetti sulla distribuzione del reddito e le diseguaglianze. Si tratta cioè delle attività che il consumatore svolge in luogo del produttore e che permettono di ridurre i costi delle imprese senza che sia chiaro se la riduzione di tali costi è maggiore o minore del beneficio che ne trae il consumatore e, dunque, se ne derivi un aumento opaco dei redditi delle imprese. Esempi tipici riguardano l’appropriazione di dati al di fuori di esplicite transazioni di mercato come nel caso dei dati che vengono forniti a compagnie come Alphabet utilizzando i suoi motori di ricerca – i.e. Google – così acquisendo il ‘diritto alla navigazione’. A ben vedere, potrebbero esservi profitti nascosti se il costo sopportato per la navigazione ‘gratuita’ fosse inferiore al profitto ottenuto disponendo dei dati così acquisiti. In aggiunta a ciò, vi sono gli effetti che la digitalizzazione delle relazioni economiche e la diffusione delle piattaforme hanno sulla concorrenza e il grado di concentrazione nei mercati. Si prenda, ad esempio, il caso delle relazioni che coinvolgono Amazon e le imprese che cominciano ad accedere alla piattaforma per incrementare i canali di diffusione dei loro beni. In molti casi, al crescere della quota di vendite operate tramite la piattaforma le imprese esterne sviluppano una forma di dipendenza dalla stessa (e dunque dalla relazione economica con Amazon) che le trasforma, di fatto, in nodi-fornitori dotati di scarso potere contrattuale nei confronti di chi controlla la rete.

Il consolidarsi di un modello di business che si fonda sul controllo di vaste reti informative digitali sembra coincidere con ciò che Marx definiva ‘accumulazione originaria’ (Marx 1867). Il controllo e l’espansione di tali reti, infatti, apre alle imprese digitali rilevanti opportunità di accumulazione – si pensi all’espansione dei mercati mobiliari e immobiliari determinato dall’avvento di Airbnb o Amazon – mediante la ‘colonizzazione’ di spazi economici sin lì estranei ai processi di produzione e riproduzione; o attraverso lo spiazzamento dei ‘vecchi operatori’ nei mercati già esistenti (è questo il caso di Uber che in molte città ha soppiantato pressoché integralmente i taxi tradizionali). È rilevante sottolineare, tuttavia, che a differenza di quanto accaduto nelle fasi tecnologiche precedenti l’attuale processo di accumulazione tende a caratterizzarsi per una prevalenza delle rendite sui profitti. La portata potenzialmente destabilizzante dei fenomeni sin qui illustrati per il funzionamento dei mercati e la capacità operativa delle istituzioni deputate a regolarli è testimoniata, ad esempio, dalle rilevanti difficoltà dei governi nazionali e delle istituzioni sovranazionali di ricondurre l’attività delle imprese digitali entro un adeguato perimetro di norme fiscali e di tutela della concorrenza.

Il ‘caso Amazon’

Il caso Amazon costituisce un emblema della trasformazione tecnologica in atto dal momento che il suo modello di business racchiude in sé tutte le caratteristiche di radicale innovatività sino ad ora menzionate: uso dei Big Data quale asset chiave per consolidare e accrescere quote di mercato; ruolo di market gatekeeper; crescita esponenziale del valore azionario a fronte di un margine di profitto persistentemente basso; esercizio di un rilevante potere contrattuale nei confronti dei lavoratori e uso di pervasive tecniche di eterodirezione e controllo. Guardando ai dati economici, emerge come nel secondo trimestre del 2018, grazie al forte aumento del fatturato rispetto al precedente anno, le azioni di Amazon abbiano superato la soglia dei 1.500 dollari. Due anni prima il loro valore era 790, tre anni prima 305 e dieci anni prima 89. Si tratta di tassi medi annui di aumento dell’ordine del 30% nell’arco del decennio. Questi dati sembrano confermare il primato del modello di business incarnato da Amazon (e analogo a quello delle altre imprese digitali quali Google e Facebook) quale modello dominante di questa fase tecnologica.

L’aumento del valore di Borsa di Amazon ha permesso ai compensi dei top manager di crescere enormemente, poiché essi dipendono quasi integralmente dalle stock option. Nel 2016 il manager più pagato è stato Andrew R. Jassy: ha incassato circa 36 milioni di dollari dei quali solo 175.000 come retribuzione in senso proprio, il resto è incasso di stock option.  D’altro canto, con l’aumento del valore di Borsa è enormemente cresciuta la ricchezza di Jeff Bezos, l’amministratore delegato di Amazon, rendendolo l’uomo più ricco del mondo. Tuttavia, mentre il fatturato e le azioni (nonché le retribuzioni dei manager) crescono vertiginosamente, i profitti ristagnano e appaiono del tutto sproporzionati rispetto a quelle due grandezze. Nel primo trimestre del 2018, a fronte di un fatturato pari a 51 miliardi di dollari, i profitti di Amazon sono stati di 1 miliardo e 630 milioni di dollari[4]. E non si tratta di una novità: quasi mai essi hanno superato questa soglia in passato. Per effetto di questi dati, il rapporto tra prezzo delle azioni e profitti operativi (il cosiddetto price/earnings ratio) ha raggiunto valori stratosferici: 240 contro un valore considerato ‘normale’ di meno di 25 (Franzini 2017).

Il valore di Borsa di Amazon, dunque, cresce senza che i profitti sembrino in grado di giustificarlo e questa situazione perdura da troppo tempo per pensare che sia l’attesa dei profitti che verranno a giustificare i guadagni in conto capitale che sono già stati realizzati. La tabella 1 riporta la dinamica dei ricavi e dei profitti di Amazon registrati nel periodo 2004-2017. Emerge in modo netto il disallineamento tra la crescita incessante dei ricavi e la stagnazione dei profitti. Ciò sembra confermare l’ipotesi di una strategia di espansione che mira in modo pressoché esclusivo al consolidamento delle quote di mercato piuttosto che all’accumulazione di profitti e alla distribuzione di dividendi. Ciò non pare, tuttavia, ridurre la propensione degli investitori a investire nell’azienda (si vedano i valori di Borsa mostrati in precedenza).

La spiegazione di quel che accade va forse ricercata nel concorso di tre elementi: a) il forte interesse del management al valore di Borsa, perché da esso dipende il proprio reddito e la propria ricchezza; b) il funzionamento della Borsa che sembra far dipendere le valutazioni più dalle dimensioni di Amazon che non dai suoi profitti; c) la possibilità – ampiamente sfruttata da Bezos – di considerare praticamente senza limiti la possibile crescita di Amazon. È evidente che questi tre elementi riflettono precisi assetti istituzionali: le modalità di retribuzione dei manager, la facilità di influenzare le valutazioni di Borsa oltre i ‘fondamentali’ rappresentati dai profitti, l’assenza di politiche di tutela della concorrenza che pongano (anche) limiti alle quote di mercato di una singola impresa. In questo contesto maturano, dunque, redditi altissimi che rendono peculiare la disuguaglianza contemporanea, non soltanto per l’altezza di questi redditi, ma anche per il modo nel quale vengono conseguiti. E tutto ciò sembra avere, tra le altre, la caratteristica di non presupporre la creazione di profitti.

Tabella 1 Amazon

3. Digitalizzazione, automazione e lavoro

Una delle ragioni principali per cui l’attuale processo di digitalizzazione e automazione sta attirando una crescente attenzione da parte di studiosi e policy maker riguarda i timori che tale processo possa esporre una moltitudine di lavoratori al rischio di sostituzione da parte di macchine e dispositivi digitali; e/o che il medesimo processo possa acuire la dinamica di polarizzazione e diseguaglianze in termini di distribuzione del reddito e opportunità occupazionali. Dopo essere stato al centro dell’attenzione di economisti classici come Ricardo e Marx, lo studio della relazione tra cambiamento tecnologico, dinamiche occupazionali e distributive torna alla ribalta con l’avvento dell’ICT e la globalizzazione dei mercati. Dalla seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso iniziano a proliferare gli studi riconducibili al filone del cosiddetto Skill biased technological change (SBTC). L’ipotesi teorica di base vede l’intreccio di cambiamento tecnologico – inteso in particolare come introduzione di infrastrutture informatiche nei luoghi di lavoro – e frammentazione internazionale della produzione quale causa primaria di disoccupazione e disuguaglianza nella distribuzione dei redditi.

Nella sua evoluzione recente, questa letteratura – il passaggio dallo Skill al Routine biased technological change (RBTC) – ha visto uno spostamento dell’attenzione dalla generica dotazione di skill dei lavoratori alle mansioni effettivamente svolte nei luoghi di lavoro, che sono il ‘vero’ oggetto della potenziale (totale o parziale) sostituzione da parte delle macchine. Per stimare correttamente l’impatto del cambiamento tecnologico sull’occupazione, dunque, occorre classificare il lavoro in base alle caratteristiche delle mansioni – ad esempio, relativamente al grado di ripetitività che le caratterizza e che approssima la relativa suscettibilità all’automazione – e al loro peso relativo – ovvero l’importanza relativa di una certa mansione per una data figura professionale. Il focus sulle mansioni costituisce un passo (analitico) in avanti importante per identificare gli effetti occupazionali dell’innovazione (sebbene rilevati dal solo lato dell’offerta). Ed è proprio adottando l’approccio del RBTC, che un crescente numero di studi sta tentando di valutare l’impatto occupazionale dell’attuale processo di digitalizzazione e automazione delle relazioni socio-economiche[5].

Le stime sin qui prodotte circa l’impatto occupazionale delle correnti trasformazioni tecnologiche alludono alla possibilità di effetti radicali. Frey e Osborne (2017) prevedono la sparizione del 40% dei posti di lavoro nei soli Stati Uniti mentre secondo Arntz et al. (2016), che adottano un approccio metodologico parzialmente diverso, ‘solo’ il 12% delle professioni sarebbe a rischio. A prescindere dalla variabilità delle stime, il grado di allarme implicito in entrambi gli scenari è evidente. Tuttavia, l’effettiva attendibilità di previsioni di questo tipo può essere posta in questione in virtù di una serie di considerazioni di carattere concettuale e metodologico. In primo luogo, tali previsioni assumono implicitamente la stabilità delle condizioni strutturali dell’economia nell’orizzonte temporale che prendono in considerazione. Si trascura cioè la cruciale interazione (endogena e ricorsiva) che nel tempo tende a stabilirsi tra cambiamento tecnologico, composizione settoriale dell’economia, rapporti di forza tra gruppi sociali, variazioni nel sistema delle preferenze e nelle caratteristiche della domanda, eterogeneità nella capacità di assorbimento delle innovazioni tra imprese, settori e aree geografiche nonché vincoli politici, culturali e normativi all’adozione delle nuove tecnologie. L’operare di questo complesso intreccio di dimensioni socio-economiche è ciò che effettivamente plasma la traiettoria lungo la quale le economie si posizionano in un processo di cambiamento. La mancata considerazione di queste dimensioni rischia di sgretolare l’attendibilità delle stime sull’impatto futuro del cambiamento.

Per ciò che concerne gli effetti occupazionali del cambiamento tecnologico, un tema rilevante è quello dell’automazione e, in particolare, dell’introduzione dei robot che minacciano il lavoro umano potendo sostituirsi ad esso in una pluralità di mansioni sia nella manifattura sia nei servizi. Secondo la International Federation of Robotics[6], tra il 2011 e il 2016 la vendita dei robot è cresciuta in media del 12% all’anno, come mai in precedenza. Se il tasso di crescita rimanesse questo, il numero di robot impiegati triplicherebbe ogni dieci anni. Tuttavia, se si guarda alla distribuzione dei robot venduti per area geografica è possibile osservare una non omogenea distribuzione delle innovazioni tra le varie aree economiche. Più del 60% delle vendite di robot si concentrano in cinque Paesi: Cina, Corea, Giappone, Stati Uniti e Germania. Ciò riflette una gerarchizzazione territoriale a sua volta riconducibile alla forza tecnologica e alla specializzazione produttiva dei diversi Paesi. Questo elemento è di particolare importanza poiché l’intensità e la distribuzione degli effetti occupazionali del cambiamento tecnologico possono essere significativamente influenzate dal posizionamento gerarchico e dall’intensità tecnologica relativa dell’area che si considera (Celi et al. 2017).

Acemoglu e Restrepo (2018) hanno misurato l’impatto occupazionale dell’introduzione di robot nella manifattura USA. Nel periodo 1990-2007, per ogni robot introdotto (per 1000 occupati), hanno perso il lavoro fino a 6,2 lavoratori e i salari sono caduti dello 0,7%, con una riduzione complessiva di 670.000 posti di lavoro. Gli effetti a livello aggregato sono minori perché, grazie alla diminuzione del prezzo dei beni prodotti con i robot, si è creata occupazione altrove: si sono persi nel complesso 3 lavoratori e i salari sono diminuiti dello 0,25% per ogni robot introdotto per mille lavoratori. Queste evidenze mettono in luce due elementi. Il primo riguarda l’operare di ‘meccanismi compensativi’ (si veda la discussione che segue) la cui portata non è però, perlomeno nel caso preso in esame da Acemoglu e Restrepo (2018), in grado di compensare totalmente la distruzione di posti di lavoro riconducibile al materializzarsi dei robot. In secondo luogo, si conferma l’importanza dell’eterogeneità geografica degli effetti con distruzione e creazione di posti di lavoro distribuiti asimmetricamente tra le diverse aree. Un’altra fonte di eterogeneità concerne la diffusione delle nuove tecnologie e la distribuzione dei loro effetti a livello settoriale. Nel settore manifatturiero la produttività sembra essere cresciuta ben più che nel resto dell’economia americana – la crescita stimata da Acemoglu e Restrepo (2018) per il manifatturiero è pari al 4,7% annuo tra il 2000 e il 2007 contro il 2,6% del complesso dell’economia con esclusione dell’agricoltura – smentendo o, comunque, ridimensionando la tesi che i robot non abbiano effetti di rilievo sulla produttività.

Sebbene le previsioni circa gli effetti occupazionali attesi del cambiamento tecnologico soffrano di limiti metodologici che pongono in questione la loro complessiva attendibilità, la loro tendenziale convergenza verso scenari a elevata disoccupazione tecnologica rende lecito porsi il problema dell’adeguamento delle istituzioni di fronte a tali rischi. Inoltre, a prescindere dall’accuratezza delle stime circa i lavori che si potrebbero perdere, è verosimile prevedere la crescita di lavori organizzati tramite le piattaforme digitali. Questi ultimi, in ragione della significativa capacità delle imprese digitali di esternalizzare mansioni e rischi fuori dal perimetro organizzativo dell’impresa (si veda il paragrafo precedente), tendono a caratterizzarsi per la presenza di scarse (o nulle) protezioni rispetto ai rischi sociali e per retribuzioni mediamente inferiori a quelle riferibili a lavori organizzati in modo tradizionale (De Stefano 2016).

Dunque, il potenziale impatto occupazionale del­l’attuale transizione tecnologica va valutato in termini sia di numero di lavori persi sia di sostituzione di occupazione esistente con lavori a bassa remunerazione e scarsamente tutelati. Da questo punto di vista, una simultanea riduzione dell’occupazione tradizionalmente oggetto di tutele – quali, ad esempio, le occupazioni manifatturiere che più di altre sono esposte al rischio di sostituzione da parte delle macchine – e crescita dell’occupazione ‘ibrida’ e poco tutelata quale quella tipica delle piattaforme potrebbe tradursi in un generalizzato allargamento dimensionale dei segmenti più fragili del mercato del lavoro. Un’evoluzione di questo tipo potrebbe avere chiare implicazioni sia sul piano micro – acuendo la fragilità e l’esposizione all’incertezza occupazionale ed economica per un numero crescente di lavoratori – che su quello macroeconomico – impattando negativamente sulle remunerazioni e sulla propensione al consumo delle fasce di reddito più basse incidendo altrettanto negativamente sulla domanda aggregata – e ciò fornisce motivazioni ulteriori agli sforzi analitici tesi a disegnare le istituzioni e le politiche più adeguate per  contenere tali dinamiche.

Un ulteriore elemento di preoccupazione riguarda la reale possibilità che i meccanismi compensativi descritti, tra gli altri, da Autor (2015)[7] si verifichino effettivamente e che lo facciano con una misura capace di neutralizzare i rischi di disoccupazione tecnologica. Il grado di fiducia sull’efficacia di tali meccanismi è in parte riconducibile allo schema teorico preso a riferimento. In particolare, la presenza di potenziali ‘colli di bottiglia’ dal lato della domanda – quali quelli descritti nei modelli di ispirazione keynesiana – potrebbe far sì che i guadagni di produttività legati all’innovazione non si traducano in un aumento della quantità prodotta, ma solo in un aumento dei margini a quantità invariate (con occupazione a sua volta o invariante o addirittura inferiore se l’innovazione in questione fosse di tipo labor-saving). Analogamente, l’efficacia dei meccanismi operanti attraverso il canale maggiore efficienza-maggiore domanda-maggiore occupazione può dipendere dal modo in cui il maggior valore aggiunto associato all’innovazione viene distribuito.

Se crescono i salari il valore aggiunto è distribuito prevalentemente ai lavoratori e ne beneficerà la domanda di consumo; se crescono i profitti, esso è distribuito ai capitalisti e dovrebbe crescere soprattutto la domanda di investimento; se, infine, cadono i prezzi il vantaggio è dei consumatori e il loro potere d’acquisto aumenterà con conseguenze potenzialmente positive per la domanda di consumo. Tuttavia, le propensioni al consumo e all’investimento sono altamente eterogenee tra loro e al loro interno – cioè tra diverse categorie di lavoratori e capitalisti – e, d’altro canto, l’entità degli effetti finali dipenderà da molte condizioni di contesto. Ad esempio, in presenza di un assetto distributivo sfavorevole al lavoro – ad esempio, nel caso di significativa debolezza dei sindacati e dunque di relativa incapacità dei lavoratori di appropriarsi di quote rilevanti del valore aggiunto prodotto – è verosimile che la crescita dei consumi sia troppo debole perché la compensazione abbia luogo in modo adeguato.

Cercando di sintetizzare i risultati di un’ampia letteratura si può dire che, con riferimento al passato, le verifiche empiriche non danno grandi certezze circa l’efficacia di questi meccanismi. Il compito più difficile è stimare gli effetti del cambiamento tecnologico sull’occupazione a livello del complessivo sistema economico e, d’altro canto, non è privo di conseguenze il modo nel quale l’innovazione viene misurata, se, ad esempio, come spesa in Ricerca e Sviluppo o come investimento in macchine che incorporano le innovazioni. Appare, comunque, sufficientemente provato che l’innovazione di prodotto tenda a dare risultati migliori dell’innovazione di processo e che gli effetti a livello di impresa o di settore siano, in generale, più positivi di quelli riscontrabili a livello aggregato. Al di là di questi pur rilevanti problemi si può osservare che i diversi meccanismi rimandano, in fondo, agli assetti istituzionali e, dunque, richiamano la nostra attenzione sul rapporto tra istituzioni (e politiche), da un lato, e disoccupazione tecnologica, dall’altro: la caduta dei prezzi dipenderà dal grado di concorrenza prevalente nei mercati; la possibilità di avere salari crescenti è collegata alla forza del sindacato; l’incentivo che i profitti possono dare agli investimenti dipende da molti altri fattori istituzionali che vanno dalle condizioni dei mercati finanziari alla facilità di realizzare innovazioni complementari in ambito organizzativo, dalla disponibilità di forza lavoro con adeguate competenze al regime dei diritti di proprietà intellettuale (Calvino e Virgillito 2017).

I rischi di disoccupazione e le controversie teoriche circa l’efficacia/inefficacia dei meccanismi compensativi rimandano al tema dell’asimmetrica distribuzione dei benefici e dei costi derivanti dal cambiamento tecnologico. Se l’attuale fase di digitalizzazione delle produzioni e del consumo coincide con uno sbilanciamento strutturale delle relazioni di potere – si pensi, come già asserito, a come l’avvento dell’ICT consenta di flessibilizzare in termini spazio-temporali le attività produttive o di controllare capillarmente le azioni dei lavoratori – tra chi dispone e controlla l’innovazione stessa e chi interagisce con essa senza poter intervenire sulle sue modalità operative, questo ha un inevitabile effetto sulla distribuzione delle risorse e delle opportunità. Da questo punto di vista, la dinamica parallela di diffusione dell’ICT nella produzione e nel consumo e l’aumento esponenziale delle diseguaglianze sembra suggerire una correlazione tra questi due fenomeni. In termini quantitativi, quanto affermato può trovare riscontro nel persistente declino della quota dei salari a favore di quella dei profitti (nei tre decenni appena trascorsi la gran parte delle economie ha sperimentato uno spostamento di 10-15 punti percentuali a favore della quota profitti – su questo punto, si veda Franzini e Pianta 2016), nella gran parte delle economie; o nell’incremento della diseguaglianza nella distribuzione delle remunerazioni tra lavoratori con dotazioni di competenze differenziate. In questo senso, la polarizzazione (occupazionale e dei redditi) che sembra caratterizzare la quasi totalità dei mercati del lavoro è descrivibile come l’esito di un processo di trasformazione tecnologica mediante il quale lavori a bassa intensità di conoscenza – cioè lavori altamente standardizzabili, rigidamente eterodiretti e caratterizzati da basse remunerazioni – possono essere coinvolti nel processo di accumulazione e messi a valore (Guarascio e Pianta 2018).

Questo processo di polarizzazione dei mercati del lavoro può avere implicazioni problematiche in termini di disallineamento di domanda e offerta di competenze, di distribuzione delle opportunità occupazionali, di efficacia delle istituzioni deputate all’istruzione e alla formazione nonché di incremento delle disparità nella distribuzione del reddito. Il modo in cui il cambiamento tecnologico si è dispiegato ha contribuito ad alimentare il problema: la creazione di nuovi prodotti e nuovi mercati ha favorito la crescita dei profitti; l’introduzione di innovazioni di processo quali la digitalizzazione e l’automazione ha ridotto il peso contrattuale del lavoro, alimentato la disoccupazione tecnologica e compresso i salari. Parallelamente a ciò, l’evoluzione delle istituzioni nel senso di una maggiore flessibilizzazione (in termini, ad esempio, di tutele nel mercato del lavoro, di regolamentazione del commercio e della finanza a livello nazionale e internazionale) compatibile con l’abbattimento delle barriere spazio-temporali determinate dall’ICT ha ulteriormente favorito l’indebolimento (e l’individualizzazione) del lavoro approfondendo polarizzazione e diseguaglianze.

Recenti analisi empiriche concentrate sulla relazione tra cambiamento tecnologico – analizzato distinguendo esplicitamente tra innovazione di prodotto e di processo –, salari e profitti delle industrie europee tra il 1994 e il 2012 (Pianta e Tancioni 2008; Guarascio e Pianta 2018) hanno messo in luce come la crescita dei profitti sia stata significativamente superiore a quella dei salari sia nei settori ad alta sia in quelli a bassa tecnologia. Inoltre, le stesse analisi hanno messo in luce l’eterogeneità del legame tra tecnologia e salari: mentre l’innovazione di prodotto si lega positivamente alla dinamica dei salari analogamente a quanto accade per i profitti, lo stesso non avviene per l’innovazione di processo (tradizionalmente tesa a ridurre il peso relativo del fattore lavoro nei processi produttivi) poiché quest’ultima può far crescere i profitti e, al tempo stesso, deprimere i salari. In termini generali, Pianta e Tancioni (2008) e Guarascio e Pianta (2018) mostrano come le trasformazioni tecnologiche che hanno interessato l’industria europea nel ventennio recente abbiano favorito i profitti ben più dei salari, a prescindere dalla pur necessaria differenziazione tra l’effetto delle innovazioni di prodotto e di processo.

Bogliacino et al. (2017) hanno approfondito questa analisi introducendo due fattori considerati rilevanti nel determinare direzioni e caratteristiche della relazione tra tecnologia e dinamica di profitti e salari: la delocalizzazione delle attività produttive – il cosiddetto offshoring – e la distinzione dei salari in base alle competenze (low, medium e high) dei diversi gruppi di lavoratori. I risultati mostrati da Bogliacino et al. (2017) qualificano ulteriormente quanto argomentato in precedenza mettendo in luce come la possibilità di delocalizzare parti del processo produttivo sia un elemento che favorisce ulteriormente i profitti e che danneggia i salari, ad eccezione di quelli corrisposti ai lavoratori ad alta competenza. Misurando poi l’effetto congiunto di innovazione e offshoring sui salari emerge come la sola categoria di lavoratori effettivamente in grado di beneficiare dell’innovazione tecnologica sia quella degli high-skilled. Bogliacino et al. (2017) evidenziano, dunque, come la relazione tra tecnologia e redditi sia mediata da significative eterogeneità in termini di caratteristiche della forza lavoro, di assetti organizzativi (localizzazione delle produzioni) e carattere tecnologico dei processi e dei prodotti.

Infine, concentrando l’attenzione sul settore dei servizi, gli effetti occupazionali delle nuove tecnologie vanno analizzati principalmente in relazione al diffondersi delle piattaforme digitali di erogazione e intermediazione di servizi (espletabili sia nel mondo fisico, ed è il caso di piattaforme come Uber, sia in quello virtuale ed è il caso di Amazon Mechanical Turk). Uno stimolo alla crescita dell’occupazione potrebbe derivare dal fatto che le piattaforme consentono (in taluni casi) di formalizzare l’erogazione di servizi prima difficilmente formalizzabili. Da questo punto di vista, le piattaforme costituiscono un potenziale motore di crescita del lavoro autonomo. Inoltre, esse consentono di aumentare in modo estremamente significativo l’offerta di lavoro relativa a servizi tradizionalmente caratterizzati da rigidità quali il trasporto privato su gomma, i servizi per la persona o i servizi intellettuali. Tuttavia, una crescita dell’occupazione trainata dalla diffusione delle piattaforme digitali potrebbe risolversi in un cambiamento di stato dell’occupazione già esistente piuttosto che nella creazione di nuova occupazione. Da un lato, la contrazione dell’occupazione nei settori tradizionali (tendenzialmente caratterizzati da lavoro dipendente) potrebbe favorire il flusso dei lavoratori in uscita da tali settori verso il lavoro autonomo/non regolamentato gestito tramite le piattaforme. Inoltre, nei casi in cui il perimetro delle piattaforme tenda a sovrapporsi a quello di mercati già esistenti – si pensi al caso del trasporto privato su gomma e di Uber (Guarascio 2017a) – il lavoro sin lì configuratosi come autonomo può trasformarsi in un ibrido caratterizzato, da un lato, dalla flessibilità (e dall’assenza di tutele nei confronti dei rischi) tipica del lavoro autonomo; dall’altro, da un grado di subordinazione e di etero-direzione delle mansioni particolarmente accentuato come tipicamente avviene nelle labour platforms digitali (su questo tema si veda De Stefano 2016 e Collier et al. 2017).

4. Gli effetti su mansioni e competenze

La digitalizzazione delle relazioni socio-economiche coincide con un approfondimento del processo di frammentazione delle relazioni lavorative già in corso da diversi decenni (Gallino 2011)[8]. La capillare programmabilità e il ‘controllo algoritmico’ dei processi di produzione rendono questi ultimi sensibilmente più flessibili rispetto a quanto consentito dai precedenti strumenti di gestione e controllo (Eurofound 2018). Questo processo incide sia sulla dimensione spaziale – con la possibilità di etero-dirigere e coordinare lo svolgimento delle mansioni lavorative a prescindere dalla localizzazione dei soggetti e degli oggetti coinvolti nel processo – sia su quella temporale – potendo mantenere vive e quindi attivabili le connessioni senza soluzione di continuità – producendo modificazioni profonde nelle caratteristiche e nelle modalità di espletamento delle relazioni lavorative. In aggiunta a ciò, la possibilità di ‘digitalizzare’ frammenti infinitesimali dei processi di lavoro consente una parcellizzazione delle mansioni che ricorda, in una certa misura, quanto è avvenuto agli albori dell’industrializzazione con il passaggio dall’homo faber all’animal laborans (Arendt 1964).

La capacità di costruire delle competenze autonome – intese come un patrimonio informativo ed esperienziale autonomo che consente all’individuo di avere consapevolezza di sé come soggetto sociale, ma anche di padroneggiare gli aspetti tecnici della propria attività lavorativa – è strettamente connessa alla dimensione spaziale e a quella temporale delle relazioni lavorative stesse nonché alla qualità delle interazioni sociali che caratterizzano il luogo-di-lavoro. La costruzione di competenze (in ambito lavorativo) capaci di garantire all’individuo “coscienza e protagonismo” richiede la possibilità di condurre una carriera: un perimetro spaziale sufficientemente circoscritto e dei tempi sufficientemente lunghi da consentire la cumulazione di esperienze, conoscenze e abilità specifiche. Questi ultimi sono gli elementi costitutivi di ciò che potremmo definire competenza. Al contrario, gli elementi costitutivi delle relazioni lavorative in contesti digitalizzati sono la frammentarietà, l’intermittenza, la logica prestazionale, l’intensità di eterodirezione e controllo e la disponibilità di “memoria elettronica” a ridurre la necessità per l’individuo di usare la propria memoria e di fondare il suo agire sulle esperienze pregresse (Braverman 1974; Guarascio 2017b).

La digitalizzazione impatta anche sull’altra faccia delle mansioni svolte all’interno del processo produttivo: le competenze – la combinazione di abilità e conoscenze che ‘in azione’ identificano il ‘saper fare di un agente relativamente al raggiungimento di un dato obiettivo produttivo’ (Le Boterf 1994) – di cui dispongono i lavoratori capaci di portare a termine efficacemente le mansioni stesse. In particolare, la parcellizzazione delle mansioni può sottrarre a chi compie quella specifica operazione la capacità di acquisire adeguata consapevolezza della finalità ultima della medesima operazione. L’agente, in questo modo, può perdere la capacità di percepire il contributo della singola operazione all’interno dell’intero processo riducendo, per questa via, anche le sue possibilità di cogliere la razionalità tecnologica e quella produttiva dell’operazione svolta. In altri termini, l’agente immerso in un ambiente produttivo digitalizzato e altamente parcellizzato sviluppa una forma di cecità circa il senso e le finalità delle proprie azioni riducendo drasticamente la propria capacità di sviluppare competenze autonome. L’accumulazione di quest’ultime, infatti, è strettamente connessa alla consapevolezza dell’agente circa le caratteristiche tecnologiche dell’ambiente in cui opera.

La frammentazione delle operazioni, la loro standardizzazione, l’utilizzazione di dispositivi di cui (spesso) i lavoratori ignorano le caratteristiche tecnologiche, la centralizzazione della conoscenza nelle mani del ‘management algoritmico’ sono tutti elementi che contribuiscono a restringere significativamente lo ‘spazio esperienziale’ entro il quale gli agenti sviluppano e accumulano competenze. Inoltre, i dispositivi digitali che rendono possibile tracciare (continuativamente) le fasi elementari componenti il processo produttivo dotano il capitale di una ‘memoria autonoma’. Questa memoria – composta dai trilioni di dati relativi allo svolgimento di operazioni all’interno dei processi produttivi (Magone e Mazali 2016) o al manifestarsi di problemi e alla loro risoluzione (Sennett 2008) – va a sostituirsi al patrimonio di conoscenze specifiche ed esperienze acquisito nel tempo dai lavoratori rendendo le stesse (in parte o del tutto) residuali o irrilevanti. Anche in questo caso, si tratta della recisione di uno dei canali chiave di costruzione delle competenze dei lavoratori: quello dell’esperienza accumulata nel lungo periodo all’interno del medesimo perimetro produttivo e della sua memorizzazione. La recisione di questo canale coincide con la dotazione dei processi produttivi di strumentazioni tecnologiche ‘impenetrabili’ dal punto di vista delle loro caratteristiche salienti e dunque immodificabili da parte degli agenti che vi si relazionano. Gli assetti produttivi precedenti l’introduzione massiva di tecnologie digitali erano, al contrario, caratterizzati da una relazione tra i lavoratori e le macchine che vedeva i primi (spesso) in grado di modificare le seconde in funzione di mutate necessità produttive o di ripararle in caso di rottura o malfunzionamento.

La ‘digitalizzazione del lavoro’ sembrerebbe dunque coincidere con un restringimento dello spazio per la costruzione e l’arricchimento delle competenze, approfondendo una dinamica già descritta da Braverman (1974) nella sua analisi dell’economia statunitense in trasformazione agli albori dell’ICT. Tale restringimento può essere ulteriormente acuito dal fatto che le piattaforme digitali continuano a diffondersi, come accade negli USA, in ambiti lavorativi caratterizzati dallo svolgimento di prestazioni complesse e ad elevato contenuto di conoscenza – si pensi, ad esempio, alle piattaforme come Upwork dove architetti o ingegneri possono svolgere frazioni di attività progettuali complesse per conto di clienti con cui potrebbero non venire mai in contatto. Infine, la frammentazione del lavoro indotta dalle piattaforme riduce sensibilmente gli spazi per l’organizzazione dei lavoratori finalizzata al miglioramento delle condizioni reddituali e lavorative. A questo contribuiscono due elementi ulteriori: i) l’ambiguità dello status giuridico, che sottrare ai lavoratori delle piattaforme la possibilità formale di adire forme di rappresentanza collettiva dei propri interessi; ii) il marketing che ammanta l’avvento di questi soggetti economici (e dei nuovi mercati che essi generano) e in virtù del quale chi offre la propria forza lavoro è da considerarsi imprenditore-di-se-stesso e non lavoratore.

La digitalizzazione dei processi produttivi e la diffusione del lavoro mediato dalle piattaforme, inoltre, tendono ad accentuare il trasferimento dell’incertezza e del rischio caratterizzante le relazioni lavorative dall’impresa al lavoratore. In questo senso, la combinazione di maggiore incertezza e frammentazione del lavoro può: i) accrescere i livelli di sfruttamento; ii) rendere difficilmente conciliabili tempi di vita e di lavoro; iii) aumentare il grado di alienazione a causa della solitudine vissuta da chi offre i propri servizi e dalla scarsa consapevolezza riguardo la finalità ultima delle azioni che vengono svolte. L’insieme di questi elementi può costituire un ostacolo ulteriore alla costruzione e all’arricchimento delle competenze.

Infine, la digitalizzazione dei processi economici solleva alcuni interrogativi circa la tutela dell’autonomia e della privacy dei lavoratori (Eurofound 2018). La diffusione di dispositivi capaci di estrarre informazioni in tempo reale relativamente a tutto ciò che avviene nel perimetro organizzativo dell’impresa può ridurre gli spazi di autonomia e di privacy del lavoratore. D’altra parte, l’accresciuta capacità di monitoraggio dei processi produttivi può favorire un’ottimizzazione degli stessi processi riducendo il rischio di incidenti sul lavoro e la necessità di svolgere compiti isolati e ripetitivi. In questo senso, la digitalizzazione dei luoghi di lavoro può aumentare l’efficacia dei controlli di qualità basati sulla verifica ripetuta degli standard dei processi e dei prodotti.

5. Conclusioni: le politiche e le istituzioni

Le istituzioni hanno un forte impatto sul funzionamento del sistema economico; in un’accezione molto diffusa, esse sono essenzialmente i vincoli e le norme (formali e non) che contribuiscono spesso in modo decisivo a orientare i nostri comportamenti, a definire le nostre convenienze e talvolta anche a plasmare i nostri valori e la nostra cultura. Le istituzioni si intrecciano in molti modi con le innovazioni. Da tempo è riconosciuto, da parte di diversi studiosi – ad esempio, Nelson (2014) – che esse possono incidere sul ritmo e sulla direzione del progresso tecnologico. Si prenda, ad esempio, il caso dell’innovazione che sta alla base del paradigma tecnologico attualmente dominante: Internet. Lo sviluppo di Internet è stato possibile grazie all’attività del Dipartimento della Difesa americano avviata negli anni ’60 del secolo scorso e finalizzata allo sviluppo di tecnologie di trasmissione e archiviazione di informazioni a fini militari.

Nella prima fase del suo sviluppo, la tecnologia che avrebbe costituito la base per lo sviluppo di Internet era sotto lo stretto controllo delle autorità pubbliche USA, anche in ragione delle finalità militari delle sue iniziali applicazioni e della sensibilità che veniva attribuita alle capacità potenziali dello strumento rispetto all’archiviazione e al trattamento delle informazioni. Il processo di ’trasferimento tecnologico’ dal perimetro pubblico a quello privato che si è verificato successivamente (su questo tema, si veda Mazzucato 2011) ha significato per il sistema delle imprese USA la possibilità di acquisire un vantaggio competitivo straordinario sui potenziali competitor in un mercato, quello della gestione delle informazioni online, che di lì a poco sarebbe sensibilmente cresciuto. Da questo punto di vista, Internet ha rappresentato uno dei più significativi successi della politica industriale americana. Tuttavia, l’assetto istituzionale e di politica economica (si pensi allo sviluppo della tecnologia in ambito pubblico, militare, mediante ingenti e continui investimenti pubblici in ricerca di base e in progetti ad elevata incertezza con successivo trasferimento tecnologico a costi molto bassi o nulli) che ha garantito l’emergere di colossi quali gli odierni Amazon, Google o Facebook non ha garantito e non garantisce che l’operare di questi soggetti economici privati si traduca nella diffusione di benefici sociali adeguati a fronte dei beni pubblici dallo straordinario valore economico di cui questi stessi soggetti han potuto beneficiare al momento della loro costituzione. Inoltre, in quanto dominus di un bene vitale quale l’informazione e come market gatekeepers o ‘custodi delle porte del mercato’, tali soggetti privati possono acquisire la capacità di condizionare il sistema economico e quello politico più profondamente di quanto siano in grado di fare oggi gli organi preposti al perseguimento di interessi collettivi.

Le istituzioni possono avere, inoltre, un impatto significativo sugli effetti delle innovazioni. In particolare, dalle istituzioni dipende l’ampiezza e l’entità degli effetti negativi che esse possono avere in vari ambiti e che, naturalmente, possono coesistere con altri loro effetti positivi. Peraltro, la compresenza di effetti di segno opposto fa sì che i benefici sociali netti dipendano anche dalla capacità delle istituzioni di contenere gli effetti negativi. Se quanto si è appena affermato sulle istituzioni è fondato, allora l’ottimismo o il pessimismo circa gli effetti socio-economici del cambiamento tecnologico dovrebbero essere il risultato del giudizio che si dà sulla capacità delle istituzioni – sia quelle in essere, sia quelle che potranno eventualmente essere introdotte – di contrastare gli effetti (socialmente) negativi delle innovazioni. Tenendo conto di questi elementi, si può affermare che le istituzioni, in particolare quelle dei diritti di proprietà ma non solo, sono rimaste immobili mentre si sviluppavano forme di produzione in cui non vi è più un luogo della produzione (la fabbrica) e il capitale prende altre forme – e talvolta è assai leggero e vi è la possibilità di accumulare redditi enormi ‘semplicemente’ connettendo. Di tutto questo soffre una discreta fetta di lavoro umano, laddove esso è ancora necessario. Dal punto di vista che qui interessa, tra le istituzioni (e le politiche) oggi in essere in molti Paesi – pur ricordando che tra di essi vi sono significative differenze – è rilevante analizzare rapidamente le seguenti criticità. La prima è la sostanziale debolezza delle forme di controllo dei monopoli e delle politiche di tutela della concorrenza nei mercati dei prodotti. Tale debolezza dipende dall’adesione all’idea che il criterio essenziale da soddisfare per non incorrere nelle sanzioni delle autorità antitrust è assicurare prezzi non crescenti per i consumatori, indipendentemente da ogni altra considerazione, in particolare dalle quote di mercato controllate da una singola impresa. Questa debolezza favorisce le tendenze della tecnologia, in particolare nel caso delle piattaforme digitali, a generare monopoli o imprese superstar con un grande potere di mercato e anche con un grande potere contrattuale nei confronti dei lavoratori.

La seconda, che può interagire sotto molti aspetti con la precedente, è la sostanziale debolezza delle rappresentanze sindacali. In altre epoche storiche la forza dei sindacati ha contribuito in vario modo ad alleviare l’impatto negativo delle tecnologie sull’occupazione e sui salari, agendo anche sul ritmo di introduzione delle nuove tecnologie. Oggi è molto improbabile che tutto questo possa accadere. La terza criticità è l’insieme di regole (a diverso livello) e di politiche che condizionano la spesa pubblica e che fissano confini piuttosto stringenti all’intervento pubblico in ambito economico. In particolare, i vincoli sul debito e il deficit previsti dalle regole fiscali europee, limitano in modo significativo la possibilità di effettuare investimenti pubblici. Infine, è rilevante – anche se in modo meno evidente che per le precedenti regole e istituzioni – la forte protezione assicurata in generale ai diritti di proprietà intellettuale. Ciò ha, tra gli altri, due effetti: impedire investimenti basati sull’utilizzazione dell’innovazione protetta da parte di chi potrebbe apportare un incremento marginale a tale innovazione – così frenando gli investimenti privati; rafforzare il potere di mercato di chi è titolare del diritto di proprietà intellettuale.

In un contesto istituzionale con queste caratteristiche è elevato il rischio che gli effetti negativi delle innovazioni siano gravi perché saranno piuttosto deboli i meccanismi che dovrebbero consentire di espandere la domanda di beni e servizi in misura sufficiente per riassorbire la disoccupazione che si crea laddove vengono introdotte le innovazioni risparmiatrici di lavoro. Il potere delle imprese e la debolezza (o assenza) dei sindacati rendono assai improbabile che i salari reali crescano e quindi che la domanda di consumo, che è sostenuta principalmente dal potere d’acquisto dei lavoratori, si espanda. Inoltre, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale e, di nuovo, il potere di mercato delle imprese limitano la possibilità che gli investimenti privati crescano generando occupazione. Quanto alla spesa pubblica si è già detto degli ostacoli che incontra la sua espansione e ciò è rilevante per l’occupazione sia quella complessiva sia quella dei lavoratori skilled – che un’ampia e ben disegnata spesa pubblica potrebbe fortemente sostenere.

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Gli autori

Maurizio Franzini

Maurizio.Franzini@uniroma1.it

Professore ordinario di Politica Economica alla Sapienza Università di Roma. è Direttore della Scuola di Dottorato in Economia della Sapienza, del Centro Interuniversitario di Ricerca “Ezio Tarantelli” (CIRET) e della rivista online Menabò di Etica e Economia. è membro del Consiglio di Amministrazione dell’Istat.

Tra le sue pubblicazioni più recenti: Explaining inequality, Routledge 2016 (con Pianta M.) (trad. italiana: Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle,  Laterza 2016);  Il mercato rende diseguali? (cura del volume con M. Raitano), Il Mulino, 2018.

 

Dario Guarascio

d.guarascio@inapp.org

Ricercatore in economia applicata e attualmente responsabile della struttura di ricerca ‘Metodologie e strumenti per le competenze e le transizioni’ presso Inapp. In precedenza è stato assegnista di ricerca presso l’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Crisis in the European Monetary Union: a core-periphery perspective (con Celi G., Ginzburg A. e Simonazzi A., Routledge 2018);  The demand-pull effect of public procurement on innovation and industrial renewal (con Crespi F., Industrial and Corporate Change 2018).


1

Amazon, una delle imprese leader dell’attuale fase tecnologica, è una delle società che ha visto crescere maggiormente il proprio valore di borsa nel recente quinquennio (Franzini 2017).

2

Si pensi a piattaforme come Flixbus o Uber che hanno acquisito posizioni rilevantissime nel mercato dei trasporti pur non possedendo nemmeno un’automobile o un autobus.

3

Le imprese digitali possono beneficiare dei cosiddetti effetti lock-in in virtù dei quali i consumatori tendono a vincolarsi alla rete-mercato digitale poiché il costo di cambiare fornitore, prodotto o servizio cresce anch’esso al crescere delle dimensioni della rete (si pensi al costo implicito che tende a sostenere chi disponendo di una vasta rete di contatti decidesse di abbandonare Facebook per accedere a un altro social network).

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Si noti che questo ammontare di profitti è significativamente più alto degli standard che hanno sin qui caratterizzato Amazon. Prima del 2018 il livello massimo raggiunto dai profitti di Amazon è stato (terzo trimestre del 2016) pari a 857 milioni a fronte di 29 miliardi di dollari di ricavi totali, mantenendo livelli significativamente più bassi nel corso della gran parte dei trimestri compresi tra il 2009 e il 2017. Va aggiunto, inoltre, che l’attuale crescita del rapporto tra profitti e ricavi è dovuto in larga misura allo sviluppo del segmento di attività connesso alla vendita dei servizi di rete e non alla gestione della piattaforma retail.

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Su questo punto si vedano Quaranta et al. (2017) e Gualtieri et al. (2018).

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I dati sono disponibili all’indirizzo https://ifr.org/.

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I meccanismi descritti, tra gli altri, da Autor (2015) si articolano nel modo seguente. A fronte della distruzione di un posto di lavoro (sostituito da un dispositivo meccanico e/o digitale) o di un settore economico che sparisce verrebbe a crearsi, in presenza dei citati meccanismi compensativi, maggiore ricchezza a parità di fattori produttivi, dunque maggiore domanda e occupazione; o nuove attività necessitanti di nuove competenze in grado di compensare in termini quantitativi quelle scomparse.

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Con la digitalizzazione le macchine acquisiscono un’intelligenza propria, accumulano memoria delle azioni (e degli errori) passati, divengono in grado di riprogrammarsi a un ritmo che potrebbe ridurre la necessità di supervisione e di intervento da parte degli umani.