1. Introduzione
Le indicazioni europee dell’ultimo decennio individuano nella salute anche un volano per la riduzione delle disuguaglianze; laddove, in Italia – proprio dal punto di vista degli accessi alle cure, delle differenze in termini di speranza di vita media e nei tassi di mortalità infantile fra le regioni – le diseguaglianze appaiono crescenti nonostante il Servizio sanitario nazionale (Ssn) fornisca un finanziamento uniforme della spesa sanitaria su tutto il territorio nazionale[1]. Pesano, infatti, ancora molto, lo storico divario Nord-Sud in termini di sviluppo, dinamiche economiche, funzionamento del mercato del lavoro, incidenza di povertà, livelli medi di istruzione e non ultimo di diffusione della cultura della prevenzione.
Eppure, per quanto possa sembrare strano, il sistema sanitario italiano, a guardare le statistiche mondiali, funziona e addirittura si pone come un modello da seguire e che continua a tenere fede – pur con profonde differenze territoriali – al principio di universalismo. Un modello in crisi sul quale i vincoli di bilancio, ma più ancora un nuovo paradigma, sembrano prevalere.
Obiettivo del presente saggio è quello di riflettere su alcuni aspetti dell’attuale sistema sanitario – in particolare sull’efficacia dei piani di rientro e sulle liste d’attesa – a partire dalla Campania[2], poiché il prisma della sanità locale sembra mostrare, con tutte le sue specificità, contraddizioni e caratteristiche dell’intera sanità in Italia.
Nel paragrafo che segue si è considerato il quadro delle scelte italiano all’interno delle politiche in materia di salute e sanità che l’Europa si è data con il programma 2020. Nel paragrafo 3 sono richiamate quelle che sembrano emergere dal modello sanitario italiano come questioni nodali e irrisolte. L’analisi della situazione sanitaria campana nel paragrafo 4 mette in evidenza la distanza fra principi annunciati e politiche realizzate, rintracciandone i fattori più o meno latenti e indagandone la natura.
2. La Sanità pubblica in Italia fra sostenibilità e diseguaglianze sociali
Se il Ssn italiano può ancora fregiarsi del titolo di sistema universalistico, molti indicatori segnalano che esso si presenta ormai come un modello decisamente più selettivo. Il sistema di finanziamento ancora prevalentemente pubblico con prestazioni assicurate a tutti, comincia a risentire delle molte restrizioni a seguito della priorità data al ripristino degli equilibri finanziari; e il settore della sanità è stato fra quelli più pesantemente interessati da tagli e riduzioni. Nel Rapporto della Corte dei conti del 2012 si legge in maniera esplicita che «è indubitabile che quella sperimentata in questi anni dal settore sanitario rappresenti l’esperienza più avanzata e più completa di quello che dovrebbe essere un processo di revisione della spesa (spending review)» (Corte dei conti 2012, p. 248).
Un bene pubblico o un settore in perdita? La sanità e il pareggio di bilancio
Spinte oggettivamente contraddittorie generano disorientamento e sfiducia. Se le indicazioni europee, infatti, auspicano promozione e centralità di un nuovo concetto di salute e di benessere dei cittadini, i cambiamenti demografici e tecnologici ridefiniscono nuovi soggetti e bisogni di cura, mentre le esigenze finanziarie che dettano le agende fissano le priorità e restringono le risorse destinate alla sanità. Quest’ultimo aspetto, nelle maglie di un regionalismo e di un federalismo fiscale mal interpretato, produce seri rischi di acutizzazione delle differenze territoriali e accentuazione delle diseguaglianze sociali. C’è, dunque, una contraddizione di fondo dentro cui l’Italia si dibatte: da un lato la salute e il benessere vengono individuati come frontiere irrinunciabili, da riconoscere come diritto a un numero crescente di soggetti e per un tempo mediamente più lungo, e dall’altro la sanità viene individuata come uno dei comparti della Pubblica amministrazione fonte di sprechi, area di disservizi, iniquità, ritardi e finanche di corruzione. Si rileva in altre parole – ed è questa la tesi – uno scollamento fra narrazione e pratica: da un lato Salute 2020 (WHO 2013) è il modello di politica europea che sostiene fortemente la promozione della salute – la salute per tutti – dall’altro, progressivo sotto-finanziamento del sistema pubblico, rapporto non chiaro con la sanità privata, rischi di forte mercificazione della salute e, non da ultimo, drastici tagli al personale, configurano una sanità pubblica azzoppata, sempre più diseguale e in forte difficoltà nel raggiungimento di quegli obiettivi che l’Europa indica.
Certo non va dimenticato che tutto ciò è avvenuto in una congiuntura economica mondiale complessiva di forte recessione, quando non di stagnazione economica, che ha avuto più pesanti conseguenze nelle aree più a rischio già prima della crisi. Gli alti tassi di disoccupazione, la perdurante condizione di precarietà e di cattiva qualità dei lavori, i mancati redditi, il carico maggiore di spese per le famiglie, l’aumento della povertà, sia assoluta che relativa, hanno contribuito, come numerosi indicatori oggi mostrano, a un netto peggioramento anche delle condizioni di salute della popolazione.
Lo scarto fra narrazione della politica e attuazione delle politiche appare evidente quando si confrontino gli orientamenti definiti dall’Europa e la razionalizzazione dei servizi sanitari andata più spesso a detrimento della quantità e della qualità dell’attenzione alla salute dei territori. Il momento attuale sembra avere segnato il passaggio dall’idea che la salute è un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione, alla pratica secondo cui i servizi preposti alla salute pubblica, l’universalità delle cure e la possibilità di accesso ad esse risultano costi da sacrificare sull’altare della parità dei bilanci. I piani di rientro per le regioni fra cui la Campania hanno certo nella maggior parte dei casi ottenuto un ‘miglioramento dei conti’ ma, sembra oggi chiaro, a caro prezzo.
Alcuni dati
I nodi cruciali di fronte ai quali si ritrova il Ssn sembrano fra gli altri: da un lato le difficoltà finanziarie e dall’altra l’aumento della domanda sanitaria frutto del miglioramento e dell’allungamento della vita media. A livello nazionale, la spesa sanitaria complessiva a partire dal 2011 è diminuita e la spesa sanitaria pro-capite – pure aumentata fra il 2014 e il 2015 dell’1,28% – rimane, comunque, ad un livello inferiore rispetto ai livelli precedenti la crisi economica e ampiamente al di sotto della spesa di altri Paesi dell’OCSE ad alto reddito. A riprova di quanto centrale stia diventando avere il polso della situazione dei conti della sanità, l’Istat dal 2017 diffonde per la prima volta le stime sul sistema dei conti della sanita? riferite al periodo 2012-2016, costruito secondo la metodologia del System of Health Accounts (SHA) in linea con le regole contabili dettate dal Sistema europeo dei conti, SEC 2010, che consente interessanti confronti internazionali. Secondo questa fonte, dunque, nel 2014 la spesa sanitaria dell’Italia e? significativamente inferiore rispetto a quella di altri importanti Paesi dell’Unione europea, sia in termini di valore pro-capite sia in rapporto al Pil. A fronte dei circa 2.404 euro per abitante spesi in Italia, Regno Unito, Francia e Germania spendono tra i 3.000 e i 4.000 euro.
A livello nazionale e internazionale la performance del Ssn è, spesso, oggetto di dibattito e di giudizi contrastanti. Questo perché vengono presi in considerazione, diversi indicatori. Un indice univoco infatti non esiste. Il World Health Report dell’Organizzazione mondiale della sanità nel 2000 (WHO 2000), ad esempio, collocò l’Italia al secondo posto dopo la Francia, ma da allora non è più stata pubblicata una classifica così netta e quella classifica fu molto criticata.
Nel 2014, la classifica elaborata dall’Agenzia multinazionale dei media americana Bloomberg valutò il Ssn italiano primo in Europa e terzo al mondo in termini di efficienza, e lì gli indicatori erano legati alle aspettative di vita e al finanziamento del sistema. Più critica è risultata la posizione complessiva italiana l’anno dopo: secondo l’Euro Health Consumer Index 2016 (Björnberg 2017), che analizza e confronta 35 Paesi europei sulla base di 48 indicatori che vanno dai dati statistici al livello di soddisfazione dei cittadini, l’Italia nel 2015 si colloca al 22° posto. Il rapporto sottolinea opportunamente l’estrema eterogeneità nazionale. Infine, il Rapporto Health at a Glance prodotto dall’OECD che per il 2015 colloca l’Italia al 4° posto per aspettativa di vita, ma al 18° per livello di spesa, considera in maniera più veritiera uno scenario eterogeneo rispetto alle varie realtà regionali e rispetto a diversi indicatori. Secondo questo Rapporto, l’assistenza primaria e ospedaliera risultano al di sopra della media, mentre in posizione arretrata il Paese si colloca per l’assistenza agli anziani e la prevenzione, così come è in ritardo anche rispetto all’incremento dell’uso dei farmaci generici. La tabella 1 riporta la performance del sistema sanitario italiano rispetto ad alcuni significativi indicatori del suddetto Rapporto OECD.
Ancora nel panorama internazionale l’Italia si posiziona tra i primi Paesi in termini di composizione del parco tecnologico e di disponibilità totale di apparecchiature Tac e Trm per milione di abitanti, confermando, anche attraverso gli investimenti fatti in tecnologia “di punta”, di meritare il ranking elevato assegnato dagli osservatori internazionali (Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane 2017). Tutto ciò fornisce tuttavia un quadro in chiaroscuro e in forte evoluzione, poiché la questione è quella della forte differenza interregionale, fra spesa pubblica e Pil e di conseguenza fra stato di salute della popolazione e spesa sanitaria per cittadino a livello locale.
I divari territoriali economici e sociali – e la loro persistenza – si esprimono rispetto alle risorse disponibili, alle condizioni di salute e alle diverse performance: ad oggi in Italia si ritrovano da un lato regioni ancora alle prese con piani di rientro (come la Campania), dall’altro regioni che hanno già raggiunto molti dei traguardi nazionali fissati. Nei bilanci delle famiglie la spesa sanitaria privata è ormai una componente stabile che cresce al crescere dell’età e questo rende diseguale l’accesso allo stare bene, penalizzando chi ha redditi inferiori, gli anziani e chi risiede in regioni meno ricche. Secondo il VII Rapporto RBM-Censis, nel 2017, 12,3 milioni di persone hanno rinviato o rinunciato ad almeno una prestazione sanitaria per ragioni economiche; valore salito di 1,2 milioni di persone ossia del 10,9% rispetto al 2016.
3. Il modello sanitario italiano: i nodi
In una tipologia che analizza in chiave comparativa i sistemi sanitari di venti Paesi OCSE, ricostruendo i modelli di finanziamento, di erogazione, il percorso storico seguito e le riforme che sono intervenute negli ultimi decenni, Toth (2009) riorganizza i diversi tipi di sanità, adottando la teoria della stratificazione, come sistemi misti che combinano tra loro meccanismi eterogenei. Il Servizio sanitario italiano secondo questa lettura: a) presenta un modello di finanziamento tipico dei servizi sanitari universalistico; b) ha configurazione di sistema di produzione dei servizi sanitari di tipo integrato; c) è un Ssn che, a differenza del modello puro prevede una remunerazione dei medici in quota capitaria e fee-for-service (per i medici di base), in stipendi e possibilità di pratica privata (sia per gli specialisti ambulatoriali che per i medici ospedalieri).
Il Ssn italiano è stato introdotto, come è noto, con la legge n. 833/1978 ed è fondato su principi di universalità, uguaglianza e equità, segnando, così, la fine del sistema mutualistico. Nel 1992, con il D.Lgs. n. 502/1992 di Riordino della disciplina in materia sanitaria si realizza la seconda riforma sanitaria. Principi ispiratori sono l’aziendalizzazione (con cui le Usl si trasformano in Aziende, Asl), il diritto alla libera scelta per il cittadino del medico e del luogo di cura, e il diritto del medico di esercitare la propria attività anche in forma libero-professionale. La complessificazione delle politiche sanitarie ha richiesto un nuovo riordino nel 1999 con la cosiddetta Riforma Bindi, legge n. 229/1999, che dà il via alla terza riforma sanitaria puntando a una razionalizzazione del Ssn. Con tale riforma sono riconfermati i principi fondanti e vengono ulteriormente ristrette le condizioni per poter ottenere l’accreditamento in modo che non ci siano strutture in eccesso rispetto al reale fabbisogno; viene definita l’esclusività del rapporto di lavoro tra medico e Ssn: una scelta remunerata e opzionale alla non esclusività del rapporto stesso.
A partire dalla fine degli anni ‘70 del secolo scorso, si può affermare che in Italia si sia assistito a un vero e proprio salto di paradigma: «all’idea che la salute è un fondamento e che è soprattutto una finalità primaria della crescita economica, si è sostituita quasi universalmente l’idea opposta: che i servizi pubblici di salute e l’universalità delle cure sono un ostacolo per la finanza pubblica e per lo sviluppo della ricchezza» (Berlinguer 2000, p. 20).
Alla lunga ciò ha determinato un diffuso sentire comune sul progressivo decadimento della sanità italiana, valutazioni che alla prova dei fatti risultano per lo più luoghi comuni che contribuiscono a dare un’immagine distorta del settore, peggiore di quella reale e vengono considerati al contrario buoni principi da cui far discendere buone prassi, a seconda delle necessità (Dirindin 2014). A scapito della sedimentata insoddisfazione dei cittadini che sfugge di mano e dilaga (Cotrufo 2016).
Il costo eccessivo della sanità pubblica nel suo complesso, l’elevata spesa privata conseguente e l’idea che elevare i ticket per i ceti più abbienti possa produrre più equità nel sistema sono solo alcuni di questi luoghi comuni che in tempi di crisi hanno offerto ai detrattori del Welfare State un’irrinunciabile occasione per sferrare un colpo ai principi del sistema sanitario pubblico. Eppure quello italiano non ha costi più elevati del resto d’Europa; il significativo rallentamento della dinamica della spesa sanitaria non si è affatto tradotto in migliore erogazione dei servizi in termini di efficienza e appropriatezza, ma in una contrazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea) nelle regioni sottoposte a piani di rientro data l’impossibilità di potenziare l’assistenza territoriale precedentemente auspicata come forma di razionalizzazione della rete ospedaliera. L’apertura alla compresenza pubblico-privato ha determinato poi che il costo delle prestazioni erogate nel mercato privato sia inferiore al costo del ticket pubblico (che aumenta nel tempo) e ciò, ovviamente, comporta che gli introiti provenienti dai ceti medio-alti siano sottratti al pubblico e dirottati verso il privato. La conseguenza è l’affermazione di una sanità privata a rischio di inappropriatezza e una sanità pubblica impoverita e dequalificata per gli altri ceti. Quindi, la conseguenza ultima è che il principio fondante dell’universalismo del Ssn comincia ad essere seriamente compromesso. Se il problema non è l’eventuale sostenibilità del sistema, ma la sua sopravvivenza, è in punta di principi che sono da rintracciarsi le distorsioni. Infatti, il principio per cui il paziente è al centro del sistema e ha la possibilità di scelta rispetto al come e al dove curarsi, nonché quello del medico di esercitare la propria attività, non potevano che realizzarsi con l’apertura al privato, prevedendo la sanità pubblica a gestione diretta, la sanità privata accreditata e la sanità privata stricto sensu. Col meccanismo dell’accreditamento si regola la legittimazione delle strutture che è condizionata alla valutazione dei fabbisogni regionali. Si creano così le strutture strettamente pubbliche, quelle private accreditate e quelle strettamente private. L’apertura al privato (strettamente privato) all’interno della struttura pubblica ha reso necessari interventi normativi successivi su diverse questioni nodali. Su tutte si consideri quella dei rapporti lavorativi dei medici: da una parte lo Stato ha interesse nel regolare l’esercizio della professione medica e nel garantire il buon funzionamento del sistema, dall’altra i medici rivendicano (richiamando l’ideale francese della médicine libérale) la propria autonomia professionale, sospettosi verso qualsiasi forma di ingerenza governativa in campo sanitario (Mapelli 2012). Precisamente, la contesa è sul rapporto di lavoro: sullo status giuridico dei medici e sulle modalità con cui essi vengono remunerati. Infatti, nel Ssn, almeno nella versione pura, i medici sono dipendenti pubblici con stipendio fisso. La pratica privata non è esclusa giacché è concessa la facoltà di esercitare anche in forma autonoma. Negli anni ‘90 del secolo scorso è emersa la preoccupazione per l’acuirsi della tradizionale distinzione tra i malati dell’ospedale e i malati del medico (Carricaburu e Mènoret 2005). Proprio in quegli anni, la preoccupazione era per la possibilità che il Ssn perdesse proprio quei medici di maggiore fama e, quindi, perdesse pazienti. Con la Riforma Bindi è stata introdotta la possibilità per i medici di scegliere fra rapporto di lavoro esclusivo e non esclusivo (e a corollario di ciò si è determinata la incompatibilità tra prestazione lavorativa nella sanità pubblica e prestazione lavorativa nella sanità privata accreditata, mentre non è ritenuta incompatibile la prestazione lavorativa nella sanità pubblica con la prestazione lavorativa strettamente privata). I professionisti che scelgono il primo regime e quindi la possibilità di esercitare la propria libera professione solo per la struttura pubblica per cui lavorano, lo fanno entro quell’istituto della sanità che prende nome di intramoenia.
Delicata, dunque, diviene la tutela degli interessi a valenza pubblica di cui è portatrice la struttura sanitaria onde evitare che il singolo paziente possa essere strumentalizzato e dirottato da strutture pubbliche a strutture private. Nel concreto, per la funzione che le caratterizza, è al dispositivo delle liste d’attesa – che si moltiplicano – che si deve prestare maggiore attenzione.
La lista di attesa, strumento su cui fare leva per il razionamento dei servizi sanitari di un paese, è il primo dispositivo per mezzo del quale il cittadino/paziente entra in contatto col sistema dopo l’intermediazione del medico di base che indica anche la tempestività di erogazione della prestazione necessaria in base all’urgenza del caso. Va da sé che se lo strumento non funziona, il paziente è immediatamente insoddisfatto. La legge sulle liste di attesa pone limiti di attesa che, se superati, implicano per l’Asl inadempiente l’erogazione della prestazione con spesa propria – al netto di ticket, se previsto (Ministero della Salute 2010a). Il rispetto dei tempi massimi di erogazione delle prestazioni – e di conseguenza la lunghezza delle liste di attesa – rientra tra gli indicatori della griglia di monitoraggio dei Lea. Non è raro il caso di regioni in cui le prestazioni siano erogate molto oltre le soglie indicate nelle linee guida, e questo rappresenta senz’altro un problema al quale occorre porre rimedio in qualche modo. E così è di recente istituzione una forma di intramoenia ad autoconvenzionamento. Secondo quest’ultima, un’azienda, per abbattere le liste di attesa, ed avendo assodato un carico di prestazioni richieste eccessivo rispetto al previsto, acquisisce pacchetti di prestazioni aggiuntive così da ridurre i tempi di attesa. Questa forma particolare di intramoenia prende il nome di attività aziendale a pagamento richiesta dall’azienda ai propri dirigenti ed è richiesta a integrazione delle attività istituzionali. Se con l’intramoenia classico il paziente paga di tasca propria, grazie a quest’altro istituto egli accede normalmente con prescrizione medica ed eventuale compartecipazione alla spesa sanitaria. Questa forma di attività aziendale a pagamento integrativa, in sostanza, permette di offrire prestazioni ordinarie del Ssn attraverso attività libero professionale, con le contaminazioni di modalità di remunerazione dei medici. Ovviamente, queste prestazioni integrative sono pagate dalle casse aziendali. Dall’istituzione dell’intramoenia classico, una certa percentuale della tariffa pagata dal paziente è destinata all’azienda. Con la Legge Balduzzi n. 158/2012, tra le altre cose, si è previsto che tale percentuale aumentasse di un ulteriore 5% destinato all’abbattimento delle liste di attesa. Sembrerebbe che l’intramoenia ad autoconvenzionamento – nell’alleggerire un carico di prestazioni richieste ritenuto eccessivo rispetto al previsto – sia finanziata dall’intramoenia classico al fine di erogare, seppur in forma integrata, le ordinarie prestazioni del Ssn. Pur garantendo il rapporto paritario tra prestazioni istituzionali e quelle in forma libero professionali, sembrerebbe che il nostro sistema universalistico e integrato, nella prassi si stia avviando verso un sistema diverso. Con le dovute proporzioni, si mette a sistema un modello perverso per cui si mercifica la salute affinché si possa finanziare il Ssn, al limite del 50% dell’attività generale. Se questo è vero, lo è a norma di legge. Ed è allora vera la percezione diffusa in tale ambito secondo la quale norme errate generano comportamenti opportunistici.
4. La sanità in Campania e il piano di rientro
La Regione Campania dal 2009 è, quasi ininterrottamente, sottoposta a commissariamento poiché gli obiettivi prefissati negli anni precedenti non sono stati raggiunti e dal 2007 è sottoposta ai piani di rientro dal disavanzo (Regione Campania 2007). La questione dei piani di rientro gioca un ruolo determinante nella situazione sanitaria campana. Secondo quello che è stato possibile ricostruire in base ai dati forniti dal primo piano di rientro del 2007, i costi di gestione della sanità regionale aumentano del 13% fra il 2003 e il 2004 e del 10% fra il 2004 e il 2005, mentre gli oneri per la mobilità interregionale rimangono costanti. Le disponibilità finanziarie appaiono largamente insufficienti a contenere il fabbisogno regionale e generano disavanzi crescenti che raggiungono, al termine del 2005, la ragguardevole cifra di 1.839 milioni di euro (+42% rispetto al 2004). Altro dato preoccupante è la crescita della spesa sanitaria che prosegue a ritmi molto sostenuti (+13% nel 2004, +5,10% nel 2005). A fronte di un tale debito – con i costi per personale, ospedali, farmaceutica e forniture di beni e servizi, fuori controllo – i livelli di assistenza arrancano: indicatori di efficienza (degenza media, degenza media standard per case mix[3], degenza media preoperatoria) in picchiata con un indice comparativo di performance di 0,93, scarsa efficacia delle attività di cura, bassa complessità media delle attività di degenza e la inappropriatezza dei ricoveri diventano il tratto distintivo della sanità campana. Una sanità che, nel suddetto piano si ripromette nel triennio successivo di raggiungere gli obiettivi generali di: a) riduzione strutturale del disavanzo e, al contempo, b) riefficientamento del sistema sanitario regionale (Ssr) per contribuire all’equilibrio economico-finanziario nel rispetto dei Lea.
A distanza di un decennio la Campania ha raggiunto il ripiano del debito dal punto di vista finanziario contabile, anche con avanzi di cassa, raggiungendo il pareggio nelle aziende sanitarie e ospedaliere, attraverso non pochi sacrifici: perdita netta di circa 15.000 professionisti tra infermieri e medici, tagli sul personale della farmaceutica, aumento delle tasse locali tra cui l’Irap, l’Irpef e bollo auto a valori massimi. A ciò si aggiunga che permane un ritardo nei Lea. Infatti, se la griglia di parametri nazionale fissa la sufficienza a 160 punti, la Campania partita da 101 nel 2009, aveva raggiunto i livelli di 139 nell’ultimo monitoraggio del 2015 relativo al 2014, e nella valutazione finale per il 2015 si attesta su un punteggio pari a 106 che risulta sotto la soglia di adempienza e in netta diminuzione rispetto all’anno precedente. Nel 2015 si rilevano criticità nel livello di assistenza, della prevenzione, e in particolare nell’area vaccinazioni. Inoltre, per il livello di assistenza distrettuale, le criticità sono relative ad alcuni indicatori in particolare: Numero di posti equivalenti residenziali in strutture che erogano assistenza ai disabili ogni 1.000 residenti (0,21 vs 0,50 precedente); Numero di posti in strutture residenziali che erogano assistenza ai disabili ogni 1.000 residenti (0,35 vs 0,60). Per il livello di assistenza ospedaliera si segnalano degli scostamenti rilevanti, seppur in miglioramento, per gli indicatori Percentuale parti cesarei primari (48,19% vs 20%) e Percentuale di pazienti (età 65+) con diagnosi di frattura del collo del femore operati entro due giornate in regime ordinario (19,30% vs 55%) (Ministero della Salute 2017).
Inoltre, rispetto alla qualità dell’assistenza, guardando ai singoli indicatori, per l’assistenza ospedaliera, nel 2015 tutte le regioni in piano di rientro hanno rispettato il parametro di riferimento (un tasso totale standardizzato di dimissione inferiore o uguale a 160 per 1000 residenti), con l’eccezione della Campania (e del Molise) che tuttavia nel 2016 ha ridotto lo scostamento (164,7). Per la Campania (in verità insieme alle altre regioni sotto piano di rientro), con punteggio di 2,21, al di sopra del valore medio nazionale, pari a 1,70 giorni, risulta la durata della degenza media pre-operatoria, che costituisce un indicatore di appropriatezza dell’utilizzo delle sale operatorie e dei servizi di supporto all’attività chirurgica. Se in generale miglioramenti significativi sono rilevati dall’indicatore costituito dal rapporto tra le dimissioni attribuite a DRG3 ad alto rischio di inappropriatezza e i ricoveri attribuiti a DRG che non presentano tale rischio, la Campania fa eccezione (0,26), con un valore tuttavia in riduzione rispetto all’esercizio precedente. Criticità in termini di appropriatezza clinico-organizzativa e di qualità dell’assistenza sono evidenziate anche dall’indicatore, seppure in miglioramento, che indica la frequenza di utilizzo del ricovero ordinario di pazienti per specifiche patologie trattabili, invece, a livello territoriale: solo la Campania nonostante i miglioramenti significativi registrati negli ultimi anni ha continuato a situarsi al di sopra del valore limite. Continua, infine, a ridursi in tutte le regioni il tasso di ospedalizzazione della popolazione ultra-settantacinquenne, passando da un valore nazionale di riferimento di 346 su 1000 abitanti anziani nel 2015 a 265 nel 2016. L’indicatore resta tuttavia al di sopra della soglia in Campania (con Abruzzo e Puglia). È da osservare, tuttavia, che il miglioramento osservato negli standard ospedalieri, legato alla riorganizzazione della rete di assistenza e all’uso più appropriato delle strutture, non si accompagna sempre a un’adeguata offerta dell’assistenza territoriale rivolta alla parte più debole della popolazione, cioè anziani e disabili: offerta che, pur evidenziando un trend in crescita, nel 2015 (esercizio per cui si dispone di dati per tutte le regioni) risultava comunque più limitata rispetto ai valori raggiunti nel periodo pre-crisi (2009). L’indicatore che misura la percentuale della popolazione ultra sessantacinquenne residente presa in carico da parte dei servizi di assistenza domiciliare integrata delle Asl e che tiene conto delle diverse modalità organizzative delle regioni, nel 2015 risultava infatti insufficiente in Campania (1,35 rispetto al valore soglia di 1,88 per mille abitanti). Insufficiente nelle regioni in piano di rientro risulta nel 2015 anche l’offerta di posti equivalenti in strutture residenziali per anziani non autosufficienti (espressione delle giornate di assistenza effettivamente erogate), con punte minime dello 0,71 in Molise e 0,62 in Campania rispetto ad un valore soglia del 9,8 per mille (valori saliti rispettivamente a 0,79 e 0,85 nel 2016). Sempre nell’ambito dell’assistenza territoriale, il monitoraggio evidenzia una carenza generalizzata nelle regioni in piano di rientro e non, di dotazione di posti equivalenti nelle strutture residenziali e semiresidenziali per disabili. La dotazione di posti letto in strutture hospice è risultata insufficiente in Campania (0,7). Risultano adeguati, infine, in tutte le regioni, il numero di assistiti presso il Dipartimento di salute mentale. Si segnala, poi, il persistere di gravi deficit degli indicatori ricadenti nell’ambito della qualità e sicurezza assistenziale. Nonostante i significativi miglioramenti registrati negli ultimi anni, con riferimento alle operazioni dei pazienti con rottura del collo del femore, delle regioni in piano di rientro solo due (Sicilia e Lazio) superano nel 2016 la soglia del 60% dei casi di intervento entro il secondo giorno del ricovero, mentre nelle restanti tale percentuale scende significativamente, ponendosi al 25% per la Campania. Persiste, inoltre, un ricorso eccessivo al taglio cesareo nei parti primari. Nel 2016 la soglia di riferimento (20% sul totale delle dimissioni per parto) è stata largamente superata in tutte le regioni in piano di rientro. Inoltre, guardando alle regioni in piano di rientro, nelle strutture che eseguono un numero di parti inferiore a 1.000 unità nell’anno, nel 2016 si registrano punte superiori al 46% in Campania e intorno al 33% in Puglia e in Molise. Non ancora risolta, infine, in alcune regioni (Campania, Puglia, Molise e Calabria) la questione dei punti nascita con meno di 500 parti l’anno che, oltre a comportare costi più elevati, non garantiscono adeguati standard di sicurezza; in ritardo anche l’organizzazione della rete neonatologica. Infine, in Campania, come in quasi tutte le regioni in piano di rientro significative criticità emergono nell’erogazione di servizi afferenti l’area della prevenzione, con particolare riferimento all’area degli screening oncologici; criticità che dipendono sia da una percentuale di estensione alla partecipazione (numero di inviti rispetto alla popolazione target) ancora molto inferiore all’obiettivo del 100%, sia da un’adesione (numero di soggetti sottoposti a screening rispetto al numero dei soggetti invitati) spesso estremamente contenuta. Criticità si rilevano anche per quanto riguarda le vaccinazioni, per le quali si è evidenziata, sia nelle regioni in Piano che nelle altre, una tendenza a ridurre la copertura, anche a causa di un calo della domanda riconducibile ad una perdita di fiducia nei confronti dei benefici delle vaccinazioni da parte di una quota della popolazione.
È evidente la netta differenziazione tra le regioni in base all’essere o meno in piano di rientro. Le regioni non in piano di rientro dimostrano sia un continuo e sostanzialmente adeguato mantenimento dei Lea, sia una costante diminuzione del disavanzo economico sanitario, anche se in presenza di un’elevata eterogeneità regionale. Nelle regioni in piano di rientro, invece, insieme all’andamento verso il controllo del disavanzo economico sanitario si osserva la difficoltà di raggiungere la soglia del mantenimento adeguato dei Lea (Ministero della Salute 2014).
Nella fattispecie campana, la situazione è da considerare anche in termini di blocco del turnover prima parziale e poi totale del ricambio del personale che in questi anni ha determinato una disarticolazione di una serie di servizi senza guadagni in termini strutturali che non ha reso possibile quel riefficientamento del Ssr che sostanzialmente era basato sul piano ospedaliero, territoriale e oncologico licenziato nell’ultimo anno dalla struttura commissariale.
I tagli, più o meno ragionieristici, messi in campo dal rientro dal debito, hanno determinato anche un’attività di contingentamento del fondo dedicato alle strutture private accreditate. Sembra mancare in Campania la programmazione del fabbisogno; quella vista finora è risultata fissata su quanto erogato (non sui fabbisogni) con tetti di spesa spesso errati che hanno determinato sforamenti dei budget stanziati a ogni autunno. A fronte dell’incompiuto riefficientamento del Ssr, il privato convenzionato ha rappresentato un’alternativa in termini di erogazione delle prestazioni sebbene contingentate da tetti di spesa che, in qualche modo, rispondono a fabbisogni reali insoddisfatti. Esempio chiaro è il settore della riabilitazione che è quasi completamente ad offerta privata accreditata, dal momento che il settore pubblico non appare in grado da tempo di rispondere alla domanda corrispondente. Eppure, una prestazione di riabilitazione non è inevitabile e, quindi, contingentabile da tetti di spesa. Persistendo le carenze, la tenuta del sistema è stata garantita dalle strutture accreditate che hanno svolto una funzione vicariante della disfunzione del pubblico. In Campania, l’accreditamento, pur essendo le strutture accreditate circa 1.500, in termini assoluti di budget ha assorbito circa il 20-25% del totale dei finanziamenti del Ssr. A fronte di ciò, esse erogano il 60% delle prestazioni totali per ospedalità, analisi di laboratorio, Tac, risonanze magnetiche, visite specialistiche e altro.
La Campania ha inoltre dovuto scontare nel tempo la più bassa quota di riparto del Fondo sanitario nazionale, poiché il parametro relativo all’anzianità della popolazione, considerato come condizione di maggiore assorbimento delle risorse per l’attività di assistenza, ha penalizzato la regione che è demograficamente tra le più giovani d’Italia. Solo successivamente, con l’avvento del federalismo, si è tentato di porre riparo a questa diseconomia introducendo una quota di riequilibrio che ha dato luogo a un fondo da cui attingere in funzione della sperequazione strutturale, ma il gap non è stato colmato.
A rendere ancora più complesso il quadro della regione vanno considerati, infine, alcuni dati di confronto con il resto del Paese. Si parta dalla speranza di vita media. Nel 2015, in Italia, ogni cittadino può sperare di vivere, mediamente, 82,3 anni (uomini 80,1; donne 84,6); nella Provincia autonoma di Trento la sopravvivenza sale a 83,5 anni (uomini 81,2; donne 85,8), mentre un cittadino che risiede in Campania ha una aspettativa di vita di soli 80,5 anni (uomini 78,3; donne 82,8) (Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane 2017). La Campania ha il triste primato della regione con la speranza di vita media alla nascita peggiore d’Italia, con un ulteriore svantaggio per le donne. La regione dunque, parafrasando il titolo di un noto romanzo americano, non solo non è un luogo per vecchi, ma fra questi lo è ancor meno per la componente femminile. Così come rispetto ai tempi medi di attesa per una prestazione e la spesa sanitaria per cittadino si va dalla Valle d’Aosta che presenta la migliore performance con 21,2 giorni di attesa media e 2.906 euro di spesa per cittadino, alla Campania con 70 giorni di attesa media e una spesa sanitaria di 1.949 euro, fra le ultime in Italia.
Le disparità territoriali nelle opportunità di tutela cominciano a fare sentire i loro effetti e diversi indicatori lo segnalano. Il primo è la condizione di salute dei malati cronici. Le regioni in cui la quota di cronici in buona salute è diminuita maggiormente sono tutte nel Sud e la Campania figura fra di esse. La speranza di vita media di cui si è detto, ha mostrato un’inversione nelle regioni meridionali con una significativa e netta riduzione, ma anche l’indicatore della mortalità sotto i 70 anni di età, che come è chiaro definisce il rapporto fra sopravvivenza ed efficacia delle cure, mostra un peggioramento del divario Nord-Sud, a sfavore di quest’ultimo. Fra il 1995 e il 2013, la mortalità sotto i 70 anni nelle regioni del Nord d’Italia è in diminuzione (fatta eccezione per la Provincia autonoma di Trento e la Liguria) mentre nelle regioni del Mezzogiorno è in sensibile aumento (RBM e Censis 2017).
Di fatto, sembrerebbe che, in Campania, sia il precedente processo di decentramento che quello successivo di ri-centralizzazione non abbiano ricucito i divari con il resto della nazione. In una Italia caratterizzata storicamente da differenze territoriali lungo l’asse Nord-Sud il processo di decentramento nella sanità si è realizzato adottando un decentramento politico-amministrativo non accompagnato da forme di decentramento fiscale. In tal senso, Azzolina e Pavolini (2012) parlano di modello di decentramento definibile come autonomia senza responsabilità. I risultati sono stati la polarizzazione della sanità italiana fra regioni più virtuose (sia sotto il profilo economico che di esiti di cure) situate nel Centro-Nord e regioni del Sud caratterizzate da problemi sia di deficit che di qualità della cura. Pavolini e Vicarelli (2013) giungono a dire che pur non potendo parlare di 21 sistemi sanitari regionali si possono rintracciare almeno tre sistemi dal rendimento differenziato: uno relativo al Centro-Nord e due del Sud.
La Campania, con Sicilia e Calabria, rientra in uno dei due raggruppamenti del Sud: precisamente in quello a basso rendimento, soprattutto se si considerano gli indicatori di capacità gestionale, di processo e di risultati finali. Se questo è quanto rispetto alla convergenza mancata dal processo di decentramento, nondimeno il processo di ri-centralizzazione per mezzo dei piani di rientro sembra sortire non ovunque gli effetti auspicati. Ruolo centrale, in questo processo di ri-centralizzazione decisionale (Taroni 2011) dalla regione allo Stato, hanno naturalmente gli aspetti finanziari che vedono relegate nei fatti in secondo piano le politiche di organizzazione dei servizi e di contrasto delle diseguaglianze a livello nazionale. Questi indicano le condizioni – per l’accesso al finanziamento messo a disposizione – da realizzarsi attraverso provvedimenti sia strutturali (come la rideterminazione delle aziende sanitarie e il riordino del sistema ospedaliero), sia amministrativi (come l’aumento delle aliquote contributive Irpef e Irap o l’istituzione delle compartecipazioni al costo su prestazioni sanitarie non gravate da ticket nazionali). Un insieme di incentivi (supporto tecnico e risorse finanziarie) e sanzioni (sia simboliche che economiche) che avrebbe potuto rappresentare non solo un vincolo ma anche un’opportunità per il cambiamento istituzionale a livello locale. Se il caso della Sicilia lascia ben sperare, la situazione campana sembra invece ancora tutta da definirsi in considerazione anche del fatto che l’equilibrio tra incentivi e sanzioni sembra spostarsi maggiormente sul piano delle sanzioni; una soluzione che avrebbe effetti fortemente negativi nel medio-lungo periodo in termini, ancora una volta, di equità sociale.
5. I nodi da sciogliere, le questioni da affrontare
Se è vero che un’assistenza sanitaria più qualificata non mitiga automaticamente le iniquità di salute causate da determinanti sociali è altrettanto vero che un sistema sanitario iniquo può aggravare il danno per le quote di popolazione maggiormente vulnerabili. Il concetto di equità (una definizione dalle diverse dimensioni) abita nei principi fondanti il Ssn e la questione è capire quanto ancora del rispetto formale di tale principio si traduca in equità sostanziale (Terraneo 2018).
Il giudizio sull’attuale Ssn oltre che sulla sanità locale in Campania è complesso. I numerosi interventi normativi hanno ridisegnato in alcuni casi in maniera radicale non solo l’assetto organizzativo, ma anche il rapporto fra Stato e regioni. I vincoli di bilancio hanno creato nel settore sofferenze come e forse più che in altri settori soprattutto a fronte delle trasformazioni demografiche che hanno determinato l’aumento della domanda di assistenza sanitaria.
Le sfide che esso si trova oggi a dover fronteggiare sono di grande portata: deve fare i conti con l’efficienza di un sistema le cui spese non sembrano più sostenibili, ma al tempo stesso non può dimenticare che l’equità dell’offerta di servizi e delle prestazioni in questo campo è una delle più importanti strade per la salvaguardia della democrazia e del grado di civiltà di una società. La penalizzazione che i tagli alle spese sanitarie ha comportato potrebbe avere conseguenze notevoli sui fabbisogni sanitari futuri, soprattutto se si riducono gli strumenti e le campagne di prevenzione, l’attività socio-sanitaria realizzata sui territori e l’attenzione nei confronti dei gruppi di popolazione maggiormente vulnerabili.
Fra le questioni centrali quelle relative ai persistenti divari sociali e territoriali che caratterizzano la sanità sarebbero da affrontare prima di ogni altra, non solo in ottemperanza a principi di giustizia sociale, ma perché potrebbe avere conseguenze notevoli sul futuro della organizzazione del welfare.
A fronte di un acutizzarsi delle diseguaglianze sociali, se ci si ritrovasse di fronte a ulteriori contrazioni della sanità pubblica, ci potrebbero essere da un lato una spinta e una richiesta ad una privatizzazione del settore da parte dei ceti che stanno pagando molto, e dall’altro una richiesta di impegno maggiore da parte del settore pubblico per i ceti meno abbienti che, facendo oggi a meno di una serie di cure, potrebbero presentare presumibilmente bisogni più elevati in futuro.
Infine va detto che, come per qualsiasi altro ambito di politiche pubbliche anche per quello della sanità, monitoraggio e valutazione sarebbero imprescindibili. Ma la politica della valutazione in Italia stenta ad affermarsi, soprattutto a fronte di un cambio di paradigma che deve verificare la tenuta dell’intera sanità, pezzo centrale del complessivo sistema di Welfare state.
Le analisi regionali, e della Campania in particolare, hanno mostrato che anche in questo caso in Italia c’è forte differenziazione fra i comportamenti delle regioni. Nel difficile ma necessario tentativo che il sistema sanitario dovrebbe approntare, di bilanciamento della sostenibilità della spesa e qualità delle cure fornite, una valutazione della distribuzione delle risorse dovrebbe necessariamente essere fatta. Invece rispetto alla presenza di quelli che vengono definiti i diversi pilastri pubblico-privato/convenzionato che disegnano oggi l’architettura della sanità, l’Italia è l’unico Paese OECD che non presenta un piano chiaro e strutturato relativo al pilastro integrativo della sanità. L’assenza di un progetto strutturato in tal senso è colpevole e pericoloso e bene sarebbe se il soggetto pubblico in maniera onesta e trasparente, a fronte di una generalizzata scarsità di risorse destinate ai sistemi pubblici di tutela della salute, riconoscesse la necessità di collaborazione tra settore pubblico e finanza privata nel rispetto del principio di universalità ed equità che il nostro paese ancora prevede.
Infine dallo studio realizzato – piccolo affondo nella galassia multiforme della sanità campana – trovano conferma da un lato le reminiscenze di un sistema che fu un pilastro del Welfare state italiano, universalistico e di alta qualità delle prestazioni e dall’altro l’esistenza di guasti di una gestione locale che fra disavanzi, sprechi e qualche eccellenza rappresenta perfettamente lo stato della sanità italiana. Lo stato della sanità in Campania – fermo restando ritardi e responsabilità locali – sembra rappresentare in qualche modo dinamiche nazionali, frutto di scelte più complessive. In altri termini pare che le incertezze di una sanità pubblica nazionale che si è continuata a rappresentare come una sanità basata su principi universalistici, e le esigenze di tagli e contenimenti di spesa, non abbiano ancora trovato un assetto complessivo chiaro e che ad oggi abbiano creato non pochi problemi, amplificati nelle aree più svantaggiate del Paese.
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Gli autori
Giuseppe Gargiulo
giuseppe.gargiulo2@unina.it
Dottorando in Scienze sociali e statistiche presso il Dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Napoli “Federico II”. Fra le pubblicazioni recenti si segnalano: i capitoli Servizi sanitari e processi di implementazione. Dove si colloca l’Italia, come si muove la Campania, e Sanità e corruzione nelle scienze sociali, in Orientale Caputo G. (2017), Salute, sanità e diseguaglianze sociali. Dalle strategie europee alla realtà campana, Ledizioni, Milano.
Giustina Orientale Caputo
oriental@unina.it
Professore Associato di Sociologia dei processi economici e del lavoro, all’Università di Napoli Federico II. Membro del Dottorato di ricerca in Scienze sociali e statistiche presso la medesima Università. Pubblicazioni recenti: 2018 (con Bolgherini S. e Taglietti D.), Quando l’eccellenza non basta. Lo strumento dei distretti in Campania tra scollamento delle politiche e vitalità dei territori, Studi di Sociologia, n.3, 2017, Salute, sanità e diseguaglianze sociali. Dalle strategie europee alla realtà campana, Ledizioni Milano; 2017, (con D’Onofrio G.), Pendolarità e precarietà lavorativa delle maestre fra la Campania e Roma in Gallo S. e Colucci M. (a cura di), In cattedra con la valigia. Gli insegnanti tra stabilizzazione e mobilità. Rapporto 2017 sulle migrazioni interne in Italia, Donzelli editore.