1. Introduzione
Negli ultimi anni la disuguaglianza salariale è aumentata in Italia in modo rilevante e questa crescita è stata accompagnata da un aumento della dispersione delle retribuzioni annuali sia fra imprese – differenze fra salari medi di impresa (between firms inequality) – che all’interno di queste (within firms inequality). Fra le determinanti della dispersione salariale vi è la maggior diffusione di forme contrattuali atipiche che aumenta l’eterogeneità fra lavoratori e allarga i divari fra chi lavora l’intero anno e chi sperimenta periodi lavorativi intermittenti. In particolare, a partire dal 2009 le retribuzioni lorde medie annuali sono cadute notevolmente, e tale andamento è da ricondursi in larga parte all’aumento del grado di frammentarietà delle relazioni lavorative; ovvero, è aumentato il numero di lavoratori che non riesce a percepire un salario per un intero anno. Come evidenziato da Bloise et al. (2018), all’interno del lavoro dipendente privato a partire dal 2004 – con una breve inversione di tendenza nel periodo 2012-2014 – in Italia si assiste a una riduzione della media delle settimane lavorate e a un incremento della dispersione di queste ultime, ovvero a una divaricazione fra individui che lavorano molto e altri con periodi di lavoro intermittenti. Tali dinamiche hanno riportato al centro del dibattito l’importanza che l’intensità di lavoro – in termini di giornate lavorate – e la sua dispersione assumono nello spiegare la disuguaglianza salariale, inclusa quella fra imprese e all’interno della stessa impresa.
In questo studio ci si sofferma sulle imprese e ci si propone di analizzare cosa accade al loro interno in termini di distribuzione della quantità di lavoro. In particolare, si persegue l’obiettivo di analizzare se sussiste una relazione fra l’introduzione di innovazioni di prodotto e di processo e una più o meno equa ripartizione del lavoro all’interno dell’impresa. Con il presente studio si intende dunque valutare l’esistenza di una relazione fra pattern di innovazione tecnologica delle imprese – sia di prodotto che di processo – e intensità e dispersione delle giornate lavorate dentro l’impresa.
La maggior parte della letteratura si è soffermata ad analizzare la relazione fra introduzione di innovazioni e disuguaglianza salariale – sia fra imprese che all’interno della stessa impresa – senza specificare però quanta dell’accresciuta disuguaglianza sia legata a una maggiore dispersione nella quantità di lavoro. Questo contributo si propone di colmare tale gap.
L’analisi si sviluppa nei paragrafi successivi nel seguente ordine. Il secondo paragrafo dettaglia le domande di ricerca sulla base della letteratura. Il terzo paragrafo descrive il dataset originale di cui viene fatto uso, costruito incrociando i dati campionari della Rilevazione Imprese e Lavoro (2010 e 2015) condotta dall’Inapp con i dati amministrativi raccolti nell’archivio delle Comunicazioni Obbligatorie, dall’archivio ASIA (Archivio statistico delle imprese attive) delle imprese italiane e degli occupati (ASIA-Occupazione). Il quarto paragrafo presenta un’analisi descrittiva a partire dai dati sulla relazione fra distribuzione delle giornate lavorate e caratteristiche di impresa. Nel quinto paragrafo si illustra brevemente la strategia empirica e si presentano i principali risultati. Il sesto paragrafo conclude.
2. Domande di ricerca e letteratura di riferimento
La dispersione delle ore/giornate lavorate incide sulla disuguaglianza delle retribuzioni annue attraverso due principali fattori: il numero di ore/giornate lavorate – che di seguito definiamo come intensità di lavoro – e la correlazione fra le ore/giornate lavorate e il salario percepito. Se, come emerge solitamente nelle analisi empiriche (Blau e Kahn 2009), a lavorare di meno sono le persone che hanno un salario orario più basso, la correlazione fra i due fattori amplifica la diseguaglianza delle retribuzioni annue. In questo lavoro, non disponendo di informazioni sui salari nel dataset di cui viene fatto uso, ci si sofferma sul primo elemento, ovvero sulla distribuzione della quantità di lavoro, un tema poco investigato nella letteratura economica, ma rilevante per le implicazioni distributive ad esso connesse.
Secondo un approccio economico di tipo neoclassico, le differenze fra individui nel numero di giornate lavorate nell’anno dipendono principalmente dalle caratteristiche individuali (età, istruzione) che, via produttività, influenzano la domanda di lavoro, e dalle diverse preferenze individuali rispetto alla combinazione fra lavoro e tempo libero. Secondo un approccio più strutturalista, invece, la distribuzione delle giornate di lavoro potrebbe essere legata anche a fattori istituzionali e tecnologici che influenzano la domanda di lavoro espressa dalle imprese. In questo contributo, l’attenzione viene posta sulle imprese come unità di analisi; ci si focalizza infatti sulla distribuzione delle giornate lavorate in un anno dai diversi soggetti che hanno avuto una relazione contrattuale con l’impresa nel corso di quell’anno. Pertanto, ponendo l’attenzione sulle imprese, si segue un approccio prettamente strutturalista e si indaga quali siano le caratteristiche delle imprese associate a una diversa distribuzione delle giornate di lavoro annue all’interno dell’impresa. La distribuzione è valutata guardando sia a un indicatore di intensità (la media delle giornate lavorate dai diversi soggetti contrattualizzati), sia a uno di dispersione (la deviazione standard within firm delle giornate lavorate in un anno). Quest’ultimo definisce in che modo il lavoro è distribuito all’interno dell’impresa e, come teorizzato in un precedente contributo (Cirillo et al. 2019), esprime il grado di segmentazione dei mercati interni del lavoro.
Pochi studi hanno analizzato la relazione fra innovazioni e quantità di lavoro all’interno dell’impresa per molteplici ragioni. In primo luogo, per la mancanza di dati adeguati – in genere di tipo amministrativo – tali da poter ricostruire la composizione delle giornate lavorate interne all’impresa da ciascun lavoratore; in secondo luogo, poiché l’attenzione è stata sovente posta sulle dinamiche salariali dei lavoratori nel loro complesso o, suddivisi per skill – si vedano in proposito le teorie dello skill-biased technical change (Katz e Murphy 1992; Acemoglu 2002; Autor et al. 2003) e del routine-biased technical change (Acemoglu e Autor 2011). Alternativamente, le teorie del rent-sharing (Van Reenen 1996) spiegano che l’innovazione è alla base della generazione di rendite di tipo ‘schumpeteriano’ – ovvero rendite realizzate grazie alla posizione di temporaneo monopolio dell’impresa sul mercato in virtù dei nuovi beni o servizi introdotti – e i proventi ottenuti dalla vendita di questi ultimi possono essere ripartiti differentemente all’interno dell’impresa. Sulla base delle ipotesi del rent-sharing le imprese più innovative dovrebbero avere salari più elevati e condizioni contrattuali migliori, qualora i lavoratori fossero dotati di sufficiente potere contrattuale per appropriarsi dell’extra-rendita ottenuta dall’impresa sul mercato. La suddivisione delle rendite può tuttavia essere diversificata all’interno delle imprese a seconda del diverso potere dei gruppi professionali (Cirillo, Sostero, Tamagni 2017).
Un’ulteriore differenziazione potrebbe poi riguardare la tipologia di innovazioni introdotte: innovazione di prodotto, di processo o organizzativa. Su questo, gli studi hanno in generale evidenziato una relazione positiva fra innovazione di prodotto e occupazione e una relazione negativa fra introduzione di innovazioni di processo – sovente con una finalità di compressione dei costi – e variazione del numero di occupati (Pianta e Vivarelli 2000). L’evidenza empirica è, tuttavia, abbastanza eterogenea e i risultati variano fra analisi macro, settoriali e firm level.
Particolare attenzione merita poi quel gruppo di contributi che ha cercato di evidenziare il ruolo dell’organizzazione interna all’impresa in relazione all’introduzione di innovazioni tecnologiche (skill-biased organisational change). Caroli e Van Reenen (2001) sottolineano ad esempio il ruolo del decentramento decisionale, della delega di responsabilità e della maggiore discrezionalità che caratterizzano l’organizzazione del lavoro in relazione all’implementazione di innovazioni tecnologiche. Infatti, le tendenze nell’organizzazione del lavoro sono state segnate da un passaggio dalla produzione di massa con forme di organizzazione del lavoro di tipo tayloristico – caratterizzate da controllo centralizzato e burocratico – a un’organizzazione di tipo just-in-time, flessibile e con un’organizzazione interna formalmente meno gerarchica (Fernández-Macías e Hurley 2016). Molti studi hanno sottolineato una complementarietà di effetti fra pratiche organizzative e variazione della domanda di skill (fra gli altri, Bresnahan et al. 2002; Gale et al. 2002; Greenan 2003; Green 2012) tale da ripercuotersi potenzialmente su di una diversa richiesta di lavoro per categoria professionale. Altri studi evidenziano una relazione a sé stante fra cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e struttura occupazionale, la quale non sempre comporta uno spostamento verso lavoratori più qualificati sia in termini retributivi che di quantità di lavoro (Caroli e Van Reenen 2001; Piva et al. 2005).
Un filone di studi di matrice socio-istituzionale ha considerato come cruciale il ruolo delle istituzioni nella definizione di diversi regimi di innovazione cui si assocerebbero differenti modelli organizzativi del lavoro e di qualità del lavoro, si veda ad esempio la letteratura su Varieties of Capitalisms (Soskice e Hall 2001). Nella letteratura sulle varietà di capitalismo, infatti, il vantaggio comparato del modello di economia di mercato liberale risiede nella complementarietà fra mercati del lavoro flessibili, capitale di rischio ed elevata concorrenza, che lo rende funzionale a forme di innovazione radicale. All’altro estremo, il modello di economie di mercato coordinate presenta complementarietà fra forti tutele del lavoro, che stimolano investimenti specifici all’impresa, capitale bancario e relazioni cooperative fra le imprese, che a loro volta favoriscono innovazioni incrementali (si veda Rossi 2017). Il sistema italiano si configura come un ibrido fra i due diversi modelli socio-istituzionali.
In questo studio, ci si propone di mettere in relazione l’introduzione di innovazioni di prodotto o processo con la quantità di lavoro prestata da ciascun individuo nel corso dell’anno – proxy della stabilità contrattuale della relazione lavorativa – e, soprattutto, con la dispersione interna all’impresa nella ripartizione del lavoro. Quest’ultima ci consente quindi di analizzare la segmentazione interna all’impresa sulla scia di una lunga tradizione di studi (Piore 1975; Doeringer e Piore 1971) secondo cui all’interno delle stesse imprese è possibile individuare forme di organizzazione del lavoro, modelli di reclutamento del personale e sistemi di allocazione delle mansioni e delle remunerazioni di tipo duale.
Se, da un lato, emerge consenso in letteratura sul fatto che le imprese innovatrici siano ‘migliori’ dal punto di vista delle condizioni di lavoro (salario medio più alto), dall’altro non è chiaro se tali condizioni avvantaggino tutti i lavoratori all’interno dell’impresa o, piuttosto, favoriscano alcuni rispetto ad altri nella ripartizione della quantità di lavoro definendo un processo di segmentazione interna all’impresa.
Mettendo dunque insieme differenti linee di ricerca presenti in letteratura (la letteratura su segmentazione interna dei mercati del lavoro, gli studi sulla disuguaglianza nei tempi di lavoro, e le analisi dei legami fra innovazione, performance di impresa e dinamiche distributive within firms), si risponde ai seguenti quesiti di ricerca:
R1 – Le imprese che innovano presentano in media relazioni lavorative più stabili, ovvero un maggior numero di giornate lavorate nell’anno dallo stesso lavoratore?
R1a – Tale relazione (R1) è verificata sia in presenza di innovazioni di prodotto che di innovazioni di processo?
R2 – Le imprese che innovano presentano una più equa distribuzione delle giornate di lavoro internamente all’impresa (ovvero una minore dispersione)? O tendono a presentare una ‘segmentazione’ interna fra lavoratori a più alta intensità di lavoro e lavoratori a bassa intensità di lavoro?
R2a – Tale relazione (R2) è verificata sia in presenza di innovazioni di prodotto che di processo?
Per evidenziare possibili eterogeneità fra imprese, le relazioni in oggetto vengono studiate in corrispondenza di diversi punti della distribuzione delle giornate lavorate e della dispersione di queste ultime, applicando tecniche di regressione quantilica non condizionata (unconditional quantile regressions; UQR).
3. Il database linked employer-employee
Il database utilizzato per rispondere alle domande di ricerca esposte nel paragrafo 2 è di tipo linked employer-employee, ovvero unisce a livello di impresa diverse informazioni che riguardano sia l’impresa stessa (caratteristiche strutturali e performance di impresa), che informazioni relative ai lavoratori che operano al suo interno, secondo lo schema seguente.
Le fonti
Le quattro principali basi dati utilizzate sono: le Comunicazioni Obbligatorie (COB) di fonte amministrativa, l’archivio delle imprese ASIA – Archivio statistico delle imprese attive – e degli occupati ASIA-Occupazione e, in ultimo, l’indagine campionaria RIL-Rilevazione Imprese e Lavoro avente come unità di analisi l’impresa. L’indagine RIL è condotta periodicamente dall’Inapp e rileva in dettaglio numerose caratteristiche delle imprese relative a diversi ambiti (comportamenti innovativi, assetto proprietario, tipo di relazioni industriali, organizzazione e gestione del personale). L’archivio ASIA dell’Istat copre l’universo delle imprese italiane e registra in dettaglio, fra le altre cose, il settore produttivo, la localizzazione geografica, la dimensione e la forma giuridica di ciascuna impresa. Infine, le Comunicazioni Obbligatorie registrano tutte le attivazioni, le cessazioni e le trasformazioni contrattuali dei lavoratori in relazione al periodo di riferimento.
Integrazione delle basi dati
Le basi dati sono state integrate a partire dai codici fiscali delle imprese e dei lavoratori contrattualizzati all’interno di queste ultime. Si giunge dunque a un dataset finale di tipo linked employer-employee in cui le imprese rappresentano l’unità di analisi rispetto alla quale si hanno informazioni relative alla distribuzione per caratteristiche di tutti i soggetti contrattualizzati al loro interno.
Nello specifico si è partiti dai campioni di imprese relativi alle indagini 2010 e 2015 di RIL e li si è arricchiti con ulteriori informazioni di impresa derivanti dall’archivio ASIA. Per tutti i lavoratori delle imprese RIL sono state poi estratte le informazioni relative a ogni attivazione/cessazione di contratto nel periodo 2009-2017 registrate negli archivi delle Comunicazioni Obbligatorie del Ministero del Lavoro, che riportano, per ogni individuo, le date di attivazione e di cessazione di ogni contratto, la sua tipologia (dipendente a tempo indeterminato, determinato, apprendistato, interinale e parasubordinato), l’impresa presso cui si presta servizio e una serie di caratteristiche individuali (ad es., genere, età, cittadinanza, occupazione, codificata secondo la classificazione ISCO). Grazie all’informazione relativa alle date di attivazione e di cessazione di ogni contratto è stato possibile calcolare, per ogni anno, la durata effettiva, espressa in giorni, della relazione contrattuale.
Ricostruzione degli stock
Le COB sono fonti dati estremamente ricche, ma limitate nella copertura dell’universo dei lavoratori dal momento che rilevano unicamente chi a partire dal 2009 (primo anno di copertura di tale archivio) ha sperimentato un’attivazione o una cessazione (per qualsiasi motivo, ad es. dimissioni, licenziamento, pensionamento) del rapporto di lavoro. In altri termini, l’unione fra COB e dati di impresa non permette di risalire all’intero stock di occupati presso l’impresa – e, dunque, a un puro employer-employee linked dataset – dato che non verrebbero osservati gli occupati di lunga durata dell’impresa, ovvero quelli assunti prima del 2009 e ‘mai cessati’ fino al termine del 2017.
Per superare questo ostacolo e arricchire il flusso di informazioni dei lavoratori in modo da pervenire allo stock degli occupati presso ogni impresa in ogni punto del tempo, si è pertanto fatto ricorso al registro amministrativo ASIA-Occupazione 2015, che riporta per l’universo delle imprese attive nel 2015 le caratteristiche di ogni individuo che ha avuto un rapporto di lavoro presso una determinata impresa nel corso del 2015 e la durata nell’anno di tale rapporto di lavoro. L’incrocio fra COB e ASIA-Occupazione 2015 consente di ricostruire lo stock dei lavoratori occupati in ogni impresa nei vari anni del periodo 2009-2017. Solo i contratti da dipendente a tempo indeterminato possono essere durati continuativamente fra il 2009 e il 2017 senza incorrere in interruzioni o rinnovi; pertanto la parte dello stock degli occupati presso un’impresa mai registrati nelle COB viene individuata ricostruendo per ogni impresa, da ASIA-Occupazione 2015, il numero di persone che hanno avuto un contratto a tempo indeterminato durato l’intero 2015 e sottraendo a questi il numero di individui che, sulla base delle informazioni fornite dalle COB, ha iniziato questo contratto dal 2009 in poi (figura 2).
Tale procedura consente di ricostruire, dunque, per ogni impresa e per ogni anno fra il 2009 e il 2017 l’intero stock di individui contrattualizzati nell’anno. Di ognuno di questi individui le COB permettono di ricostruire esattamente, come già sottolineato, il numero di giornate all’anno in cui sono stati contrattualizzati. L’incrocio con ASIA-Occupazione consente poi di aggiungere lo stock dei lavoratori non osservati in COB i quali, per definizione, sono contrattualizzati per l’intero anno, in modo da ricostruire perfettamente la distribuzione delle giornate lavorative di tutti i soggetti contrattualizzati con qualsiasi forma – ovvero dipendente a tempo indeterminato, a tempo determinato, apprendistato, collaborazione parasubordinata, interinale[1] – da ogni impresa in ogni anno del periodo 2009-2017.
L’unità di analisi di questo lavoro è l’impresa presente in entrambe o in una delle rilevazioni dell’indagine RIL (indagini RIL 2010 e 2015)[2]. Il numero totale di osservazioni è di 36.249 imprese, di cui 15.790 sono rilevate nell’indagine RIL 2010 e 20.459 in RIL 2015.
4. Intensità e distribuzione di lavoro nelle imprese
Analisi descrittiva
La media dei giorni lavorati per individuo a livello di impresa è da intendersi come misura di intensità lavorativa annuale ed esprime una continuità nella relazione di lavoro su base annuale fra lavoratore e impresa. La deviazione standard è una misura statistica della dispersione delle giornate lavorate da ciascun lavoratore all’interno dell’impresa, e riguarda quindi la distribuzione delle giornate lavorate all’interno dell’impresa. La dispersione delle giornate lavorate esprime, dunque, una misura di segmentazione interna del mercato del lavoro dell’impresa in relazione alla ripartizione delle giornate lavorate su base annuale fra lavoratori. In questo caso, una dispersione alta delle giornate di lavoro indica una maggiore segmentazione interna fra lavoratori che sono impiegati per l’intero anno e lavoratori il cui impiego risulta essere ben inferiore all’annualità. Le due misure – media e dispersione delle giornate lavorate – sono correlate negativamente (-0,60), a indicare che maggiore è il numero medio di giornate lavorate per lavoratore su base annuale all’interno dell’impresa, minore è la segmentazione interna nella ripartizione del lavoro, ovvero vi è maggiore omogeneità fra lavoratori nella ripartizione della quantità di lavoro e quindi migliore è la distribuzione del lavoro fra i lavoratori dell’impresa poiché tutti lavorano una stessa quantità di giornate.
Guardando ai diversi quantili della distribuzione delle due misure nel 2010 e nel 2015 è possibile sottolineare nel periodo osservato un lievissimo calo nella media delle giornate lavorate per lavoratore nei primi due quantili della distribuzione e, al contrario, un aumento nella media delle giornate lavorate sia per la mediana che per i quantili alti della distribuzione delle giornate lavorate. Al contrario, fra il 2010 e il 2015, sebbene di pochissimo, sembra essersi ridotta la segmentazione interna alle imprese in termini di dispersione delle giornate lavorate lungo l’intera distribuzione, ovvero vi è maggiore omogeneità nella ripartizione del lavoro all’interno delle imprese.
Rispetto al 2010, nel 2015 la media delle giornate lavorate per lavoratore è aumentata, probabilmente in relazione a una ripresa dell’occupazione in termini di intensità di lavoro successiva alla crisi del 2009 e, presumibilmente, conseguente agli effetti legati alla diffusione dei contratti a tutela crescente e agli sgravi contributivi ad essi connessi introdotti nel 2015 dal Jobs Act (a tal proposito si veda Cirillo, Fana, Guarascio 2017).
Anche la distribuzione delle giornate lavorate all’interno dell’impresa è migliorata fra il 2010 e il 2015, evidenziando una riduzione della dispersione interna all’impresa. Le imprese con un’intensità di lavoro più bassa sono caratterizzate da una quota maggiore di lavoratrici donne, di giovani e di lavoratori extra-comunitari e la quota di esportatori e di innovatori è più bassa rispetto alle imprese che si collocano nei percentili alti della distribuzione. Un andamento inverso riguarda invece le imprese caratterizzate da una maggiore segmentazione interna dei mercati del lavoro, la cui occupazione è caratterizzata proprio da una quota più alta di donne, giovani, lavoratori extra-comunitari e, una quota inferiore di esportatori e innovatori (si vedano in Appendice le tabelle A.2 e A.3).
Come si connotano le imprese che introducono innovazioni di prodotto e processo per intensità e dispersione di lavoro?
Le imprese che, al momento dell’intervista RIL, dichiarano di aver introdotto innovazioni di prodotto negli ultimi tre anni presentano, rispetto ai non innovatori di prodotto, una media più alta di giornate lavorate per lavoratore (maggiore stabilità nella relazione lavorativa) e anche una minore dispersione interna – come si evince dalla funzione di densità kernel nella parte destra della figura 3. Un pattern simile riguarda gli innovatori di processo, che rispetto ai non innovatori presentano una media più alta di giornate lavorate nell’anno per addetto e una dispersione inferiore. Fra i due gruppi di innovatori di prodotto e processo non emergono differenze sostanziali dall’analisi descrittiva poiché circa il 27% delle imprese dichiara di aver introdotto negli ultimi tre anni innovazioni sia di prodotto che di processo, e solo il 12% ha introdotto esclusivamente innovazioni di prodotto e il 7% solo innovazioni di processo[3].
5. Strategia empirica e principali risultati
Strategia empirica
Al fine di verificare l’esistenza di un’associazione fra le misure di intensità e dispersione di lavoro così come definite nel paragrafo 4 e le strategie di innovazione a livello di impresa, si stimano dei semplici modelli di regressione lineare in cui si mette in relazione la media e la deviazione standard (dispersione) delle giornate lavorate da ciascun lavoratore all’interno dell’impresa con l’introduzione di innovazioni di prodotto e di processo[4]. Queste due variabili sono costruite a partire dalle domande del questionario RIL che rilevano se l’impresa ha introdotto, rispettivamente, innovazioni di prodotto e di processo nel corso degli ultimi tre anni, incluso quello del rilevamento RIL[5].
Inoltre, al fine di sfruttare l’eterogeneità del campione RIL, si applica anche una tecnica di analisi quantilica non condizionata secondo il metodo della regressione RIF – Recentered Influence Function – proposta da Firpo et al. (2009). Quest’ultima consente di studiare la relazione fra le covariate e, in particolare, l’introduzione di innovazioni di prodotto e processo, e le dipendenti in differenti quantili della distribuzione dell’intensità e della dispersione di lavoro. Tale tecnica di stima consente di verificare la robustezza di ciascun parametro rispetto alla distribuzione in presenza di outliers e si basa su influcence function (IF) (Hampel 1974).
I risultati principali
I risultati evidenziano per un verso l’esistenza di una relazione positiva e statisticamente significativa fra l’introduzione di innovazioni di prodotto e l’intensità di lavoro espressa come media dei giorni lavorati e, per altro verso, una relazione negativa e statisticamente significativa fra innovazione di prodotto e dispersione delle giornate lavorate. Per cui rispetto alle domande di ricerca, le analisi di regressioni sembrano confermare l’ipotesi R1 ossia che le imprese che innovano presentano in media delle relazioni lavorative più stabili, e quindi un maggior numero di giornate lavorate nell’anno dallo stesso lavoratore. Tale relazione, tuttavia, non è costante rispetto al tipo di innovazione introdotta (R1a). Infatti, l’introduzione di innovazioni di processo non sembra essere correlata con la distribuzione delle giornate lavorate.
In linea con gli studi di innovazione che guardano alle performance occupazionali delle imprese che introducono innovazioni di prodotto e processo (si vedano Vivarelli 2014; Piva e Vivarelli 2018), le imprese che dichiarano di aver introdotto innovazioni di prodotto sono caratterizzate da rapporti di lavoro più stabili, ovvero da una media dei giorni lavorati più elevata. La natura labour-friendly dell’innovazione di prodotto, in genere associata a una spesa positiva in R&D, si conferma quindi in questa prima analisi esplorativa anche in termini di media delle giornate lavorate da ciascun lavoratore.
L’innovazione di processo, ovvero l’implementazione di nuovi o significativamente migliorati metodi di produzione, è invece associata in letteratura a un effetto di job-destruction, poiché è in genere introdotta con l’obiettivo di produrre lo stesso ammontare di output con un quantitativo inferiore di fattori produttivi, in particolare di lavoro. Tuttavia, l’esistenza di meccanismi di compensazione considerati dagli economisti classici in grado di bilanciare l’espulsione di forza lavoro grazie a un effetto sui prezzi dei beni e alla creazione di nuovi lavori nei settori di produzione dei nuovi macchinari renderebbe più complessa una stima tout court dell’effetto dell’innovazione di processo sul numero totale di occupati. Inoltre, come sottolineato da alcuni lavori (Bogliacino et al. 2012; Cirillo et al. 2018), gli studi empirici a livello di impresa rischiano di sottostimare un effetto di business-stealing che si definisce con la creazione di lavoro in alcune imprese a danno di altre dello stesso settore, facendo dunque registrare un effetto positivo anche dell’innovazione di processo sulla variazione dell’occupazione. Nel nostro caso, le stime in tabella 3 evidenziano un’assenza di significatività statistica della relazione fra innovazione di processo e media delle giornate lavorate.
Guardando invece alla dispersione delle giornate lavorate all’interno dell’impresa e, dunque, a eventuali forme di segmentazione di lavoro within firm, le stime in tabella 2 sottolineano, per un verso, un effetto negativo dell’innovazione di prodotto sulla dispersione e, per altro verso, un’assenza di significatività statistica nell’associazione fra innovazioni di processo e dispersione lavorativa. Le imprese che introducono innovazioni di prodotto sono caratterizzate da una minore segmentazione interna del mercato del lavoro definita sulla quantità delle giornate lavorate. Lo stesso non si può dire per quelle imprese che perseguono strategie di innovazione di processo.
Per cui R2[6] risulta essere parzialmente confermata per quanto riguarda l’innovazione di prodotto che sembrerebbe associarsi a una più equa ripartizione del lavoro internamente all’impresa. Ma tale relazione non è confermata nel caso delle imprese che introducono innovazioni di processo, per cui R2a[7] è rifiutata.
L’associazione statisticamente positiva fra l’innovazione di prodotto e distribuzione delle giornate lavorative (ovvero minore dispersione), per un verso, e l’assenza di significatività statistica nell’associazione fra innovazione di processo e dispersione si registrano anche controllando per la quota di giornate contrattualizzate a tempo indeterminato (colonne 3 e 4).
Regressione quantilica non condizionata
In tabella 3 presentiamo i risultati dell’analisi per quantile della distribuzione della media e della deviazione standard delle giornate lavorate, guardando alla relazione fra innovazione di prodotto e processo e includendo fra i regressori anche la quota dei lavoratori contrattualizzati a tempo indeterminato.
Le imprese che dichiarano di introdurre innovazioni di prodotto presentano in media una maggiore quantità di giornate lavorate per addetto, e tale relazione sembra essere particolarmente evidente nelle imprese che si trovano nei quantili bassi della distribuzione delle giornate lavorate. Se consideriamo la media delle giornate lavorate per addetto all’interno dell’impresa come una misura di intensità lavorativa e di stabilità della relazione lavorativa stessa, emerge che le imprese che introducono innovazioni di prodotto, e quindi si presume possano perseguire strategie competitive basate sulla differenziazione del prodotto e sul miglioramento qualitativo di quest’ultimo piuttosto che sulla compressione dei costi di produzione, si caratterizzano per un incremento della media delle giornate lavorate e tale effetto sembra essere redistributivo fra imprese. Le imprese nella parte bassa della distribuzione presentano un incremento marginale più alto rispetto a quelle nella parte alta della distribuzione rispetto a giornate lavorate. Per tale ragione una politica orientata a sostenere l’implementazione di innovazioni di prodotto sembrerebbe avere un effetto espansivo sulle giornate lavorate per addetto e redistributivo a favore di quelle imprese che si caratterizzano per una maggiore frammentazione delle relazioni lavorative.
Esattamente come in tabella 2, anche in questo caso l’introduzione di innovazioni di processo non sembrerebbe essere associata ad alcun pattern redistributivo di lavoro interno all’impresa, per cui le imprese che si caratterizzano per strategie competitive orientate alla competizione sui costi di lavoro e alla sostituzione di forza lavoro attraverso l’introduzione di nuovi processi non presentano una variazione nell’articolazione interna in termini di media di giornate lavorate.
In tabella 4 sono presentati i risultati relativi alla stima dell’equazione in cui sono messe in relazione innovazione di prodotto e processo rispetto alla dispersione delle giornate lavorate da ciascun lavoratore interno all’impresa. L’introduzione di innovazioni di prodotto sembra associarsi a una compressione della dispersione nella quantità di giornate lavorate e questo vale in particolare per le imprese che presentano la dispersione più elevata.
Mettendo insieme i risultati delle tabelle 2, 3 e 4 sottolineiamo l’esistenza di un pattern di associazione fra uno specifico tipo di innovazione tecnologica a livello di impresa – che in letteratura sembrerebbe avvicinarsi a un modello competitivo legato a innovazioni di prodotto e accumulazione di conoscenza – e l’organizzazione del lavoro all’interno delle imprese caratterizzata da maggiore stabilità delle relazioni lavorative (media delle giornate lavorate) e minore segmentazione interna all’impresa con una ripartizione più equa delle giornate lavorate.
L’innovazione di processo non sembra associarsi in modo statisticamente rilevante a una forma di ripartizione interna del lavoro tale da determinare un incremento/decremento della quantità di lavoro o una variazione nella distribuzione di quest’ultimo fra lavoratori all’interno dell’impresa.
6. Conclusioni
L’aumento della dispersione delle giornate lavorate fra individui è uno dei principali driver della crescita della disuguaglianza salariale, ovvero aumenta il divario in termini di reddito fra chi lavora ‘tanto’ – tutto l’anno – e chi sperimenta carriere lavorative intermittenti. In questo lavoro sono analizzate l’intensità e la dispersione delle giornate lavorate a livello di impresa, ovvero ci si è chiesti se le imprese che sono caratterizzate da relazioni lavorative più stabili (maggiore intensità di lavoro per individuo) e migliore distribuzione interna delle giornate lavorate (minore dispersione) presentano delle caratteristiche specifiche. La dispersione delle giornate lavorate è determinata infatti dalle scelte delle imprese riguardo all’intensità di lavoro prestata al loro interno, ovvero al numero delle giornate lavorate da ciascun lavoratore all’interno della stessa impresa in un anno. Comprendere quali siano i meccanismi che accelerano o rallentano la dispersione nell’intensità di lavoro all’interno dell’impresa è fondamentale al fine di elaborare misure di contrasto alla disuguaglianza nei redditi trainata proprio da una disparità di quantità di lavoro fra gli individui.
In questo studio, a partire da una base dati originale che unisce le informazioni della Rilevazione Imprese e Lavoro dell’Inapp relativamente agli anni 2010 e 2015 con i dati amministrativi delle Comunicazioni Obbligatorie e le informazioni dell’archivio delle imprese ASIA, si analizza l’esistenza di una relazione fra pattern di innovazione, di prodotto e di processo, e intensità e dispersione delle giornate lavorate all’interno dell’impresa, misurate, rispettivamente, come media e deviazione standard dei giorni lavorati nell’anno da ciascun lavoratore all’interno di un’impresa. Emergono diversi risultati.
Le imprese che hanno introdotto innovazioni di prodotto sono caratterizzate da una maggiore stabilità nelle relazioni lavorative, ovvero un numero più alto di giornate lavorate per lavoratore nell’anno. Queste imprese si caratterizzano inoltre per una minore segmentazione interna dei mercati del lavoro, ovvero una minore dispersione fra lavoratori nella ripartizione delle giornate lavorate. Nessun pattern emerge invece per le imprese che dichiarano di introdurre innovazioni di processo, né in termini di quantità di giornate lavorate da ciascun lavoratore, né rispetto alla segmentazione interna all’impresa.
è stata inoltre analizzata la relazione fra tipologie di innovazione e intensità e dispersione di lavoro fra imprese al fine di mettere in relazione la segmentazione interna ai mercati del lavoro con la segmentazione esterna ad essi, ovvero fra imprese. È noto, infatti, che il sistema produttivo italiano si caratterizza per un’estrema eterogeneità fra imprese (Cirillo e Ricci 2019). Ciò che emerge è un potenziale effetto redistributivo dell’innovazione di prodotto soprattutto fra le imprese con le ‘peggiori performance’ ovvero quelle con un numero minore di giornate lavorate per addetto nell’anno o, quelle con più alta dispersione interna. Sembrerebbe dunque che una politica orientata a sostenere l’implementazione di innovazioni di prodotto potrebbe avere un effetto espansivo sulle giornate lavorate per addetto (stabilità contrattuale) e redistributivo a favore di quelle imprese che si caratterizzano per una maggiore frammentazione delle relazioni lavorative. Tale risultato è in parte spiegato dalla natura dell’occupazione che l’innovazione di prodotto richiede, basandosi su forme di accumulazione di conoscenza tacita, che solo la continuità della relazione lavorativa può consentire.
Se è vero che il perseguire strategie di innovazione relative all’introduzione di nuovi prodotti si associa a una maggiore intensità di lavoro e a una migliore distribuzione di quest’ultimo, è tuttavia doveroso analizzare se vi è qualche meccanismo istituzionale che favorisce la ripartizione interna del lavoro, quale ad esempio la presenza sindacale e la tipologia di contrattazione aziendale perseguita. Una possibile evoluzione di questo studio riguarda quindi un’analisi congiunta di pratiche di innovazione a livello di impresa e assetti istituzionali interni all’impresa stessa che possono influire sull’organizzazione del lavoro, in particolare in riferimento a processi di digitalizzazione della produzione (Cirillo e Zayas Molero 2019). Inoltre, sarebbe interessante corroborare le analisi guardando anche a variabili di input di innovazione quali ad esempio la spesa in R&D a livello di impresa. Infine, benché le analisi di questo studio prevedano l’inclusione di controlli settoriali, potrebbe essere significativo indagare l’evoluzione dell’organizzazione interna del lavoro alla luce di cluster settoriali al fine di enfatizzare eterogeneità fra macrosettori e, dunque, la relazione fra traiettorie tecnologiche settoriali e trasformazioni nell’organizzazione del lavoro ad esse connesse.
Appendice
Tabella A.1 Descrittive delle variabili incluse nelle stime
Per la visualizzazione della
Tabella A.2 Caratteristiche occupazionali e di impresa per percentili della distribuzione della media delle giornate lavorate
e
Tabella A.3 Caratteristiche occupazionali e di impresa per percentili della distribuzione della dispersione delle giornate lavorate
si rinvia al pdf dell'articolo.
Bibliografia
Acemoglu D. (2002), Technical change, inequality, and the labor market, Journal of economic literature, 40, n.1, pp.7-72
Acemoglu D., Autor D. (2011), Skills, tasks and technologies. Implications for employment and earnings, in Ashenfelter O., Card D., Handbook of labor economics, Vol.4B, Amsterdam, Elsevier, pp.1043-1171 <https://bit.ly/2lSehUr>
Autor D.H., Levy F., Murnane R.J. (2003), The skill content of recent technological change. An empirical exploration, The Quarterly journal of economics, 118, n.4, pp.1279-1333
Blau F., Kahn L. (2009), Inequality and Earnings Distribution, in Salverda W., Nolan B., Smeeding T. (eds.), The Oxford Handbook of Economic Inequality, Oxford, Oxford University Press, pp.177-203
Bloise F., Fantozzi R., Raitano M., Ricci C. (2018), L’andamento di lungo periodo della disuguaglianza nei salari, in Franzini M., Raitano M. (a cura di), Il mercato rende diseguali? La distribuzione dei redditi in Italia, Bologna, Il Mulino, cap.5
Bogliacino F., Piva M., Vivarelli M. (2012), R&D and employment. An application of the LSDVC estimator using European microdata, Economics Letters, 116, n.1, pp.56-59
Bresnahan T. F., Brynjolfsson E., Hitt L.M. (2002), Information technology, workplace organization, and the demand for skilled labor: Firm-level evidence, The Quarterly Journal of Economics, 117, n.1, pp.339-376
Caroli E., Van Reenen J. (2001), Skill-biased organizational change? Evidence from a panel of British and French establishments, The Quarterly Journal of Economics, 116, n.4, pp.1449-1492
Cirillo V., Fana M., Guarascio D. (2017), Labour market reforms in Italy: Evaluating the effects of the Jobs Act, Economia Politica, 34, n.2, pp.211-232
Cirillo V., Pianta M., Nascia L. (2018), Technology and occupations in business cycles, Sustainability, 10, n.2, pp.463-488
Cirillo V., Raitano M., Ricci A. (2019), La dinamica della produttività del lavoro e dei salari in Italia: il ruolo della dispersione del lavoro within-firm, Inapp Paper n.20, Roma, Inapp
Cirillo V., Ricci A. (2019), Produttività, salari e profitti: il ruolo dei contratti a tempo determinato, Inapp Paper n.1, Roma, Inapp
Cirillo V., Sostero M., Tamagni F. (2017), Innovation and within-firm wage inequalities. Empirical evidence from major European countries, Industry and Innovation, 24, n.5, pp.468-491
Cirillo V., Zayas Molero J. (2019), Digitalizing industry? Labor, technology and work organization: an introduction to the Forum, Journal of Industrial and Business Economics, 46, n.3, pp.313-321
Doeringer P., Piore M.J. (1971), Internal labor markets and manpower analysis, Lexington (MA), D.C. Heath
Fernández-Macías E., Hurley J. (2016), Routine-biased technical change and job polarization in Europe, Socio-Economic Review, 15, n.3, pp.563-585
Firpo S., Fortin N.M., Lemieux T. (2009), Unconditional quantile regression, Econometrica, 77, n.3, pp.953-973
Gale H.F.Jr., Wojan T.R., Olmsted J.C. (2002), Skills, flexible manufacturing technology, and work organization, Industrial Relations. A Journal of Economy and Society, 41, n.1, pp.48-79
Green F. (2012), Employee involvement, technology and evolution in job skills. A task-based analysis, ILR Review, 65, n.1, pp.36-67
Greenan N. (2003), Organisational change, technology, employment and skills. An empirical study of French manufacturing, Cambridge Journal of economics, 27, n.2, pp.287-316
Hampel F.R. (1974), The influence curve and its role in robust estimation, Journal of the American statistical association, 69, n.346, pp.383-393
Katz L.F., Murphy K.M. (1992), Changes in relative wages, 1963–1987. Supply and demand factors, The quarterly journal of economics, 107, n.1, pp.35-78
Pianta M., Vivarelli M. (eds.) (2000), The employment impact of innovation: evidence and policy, London and NY, Routledge
Piore M.J. (1975), Notes for a theory of labor market stratification, in Edwards R.C., Reich M., Gordon D.M. (eds.), Labor market segmentation, Lexington (MA), D.C. Heath, pp.125-150
Piva M., Santarelli E., Vivarelli M. (2005), The skill bias effect of technological and organisational change. Evidence and policy implications, Research Policy, 34, n.2, pp.141-157
Piva M., Vivarelli M. (2018), Technological change and employment: is Europe ready for the challenge?, Eurasian Business Review, 8, n.1, pp.13-32
Rossi M.A. (2017), Il capitalismo italiano fra ibridi istituzionali e nuovi ibridi tecnologici, Menabò n.74 <https://bit.ly/2m2FXpo>
Soskice P.A., Hall D.W. (2001), Varieties of capitalism. The institutional foundations of comparative advantage, Oxford, Oxford University Press
Van Reenen J. (1996), The Creation and Capture of Economic Rents: Wages and Innovation in a Panel of UK Companies, Quarterly Journal of Economics, n.111, pp.195-226
Vivarelli M. (2014), Innovation, employment and skills in advanced and developing countries. A survey of economic literature, Journal of Economic Issues, 48, n.1, pp.123-154