SINAPPSI

2019/1

Mobilità internazionale e condizione occupazionale dei laureati italiani


Nel presente contributo si stimano gli effetti della partecipazione a percorsi di mobilità internazionale sulla probabilità di trovare lavoro per i laureati italiani. Si approfondisce inoltre la relazione tra esperienze di mobilità e probabilità di lavorare all’estero. In ultima istanza si studia l’effetto della partecipazione a tale esperienza e il lasso di tempo (in mesi) entro cui si trova il primo impiego dopo la laurea. I dati utilizzati fanno parte dell’Indagine campionaria sull’inserimento professionale dei laureati dell’Istat e riguardano i laureati nel 2011, intervistati nel 2015. Le metodologie di cui ci si avvale nell’analisi sono nella prima fase modelli Probit e OLS. Successivamente, con la tecnica del propensity score matching vengono appaiati i laureati trattati, ossia coloro che hanno effettuato un percorso di mobilità, ai laureati non trattati, vale a dire coloro che non sono partiti per l’esperienza internazionale. Viene stimato quindi l’effetto medio del trattamento (ATT) sui laureati che hanno partecipato a un percorso di mobilità. Dai risultati dell’ATT emerge che la partecipazione a programmi di mobilità internazionale nei quattro anni dopo la laurea aumenta la probabilità di essere occupati di circa 2 punti percentuali e la probabilità di lavorare all’estero di circa 14 punti percentuali. Inoltre, si riscontra che tale esperienza di studio all’estero consente di trovare lavoro circa 2,5 mesi prima.

In this paper we estimate the effects of participation in international mobility programs on Italian graduates’ likelihood of finding work, of working in a foreign country and the number of months needed to find their first job after graduation. The analysis is based on the sample survey of university graduates’ vocational integration carried out by Istat in 2015. The survey concerns graduates who attained their university degree four years earlier, in 2011. First, we estimate Probit and Ols models. Turning to impact evaluation, we use the propensity score matching technique to find a control unit for each treatment unit and we estimate the average effect of treatment (ATT) on graduates who participated in some form of international mobility program. The results of the ATT show that participation in international mobility programs increases the probability of being employed by about 2 percentage points and the probability of working abroad by about 14 percentage points. Moreover, the analysis shows that experience of study abroad reduces the time needed to find a first job after graduation by 2.5 months.

1. Introduzione

Dal 1987 le opportunità di scambio internazionale, create grazie al noto programma Erasmus (European Region Action Scheme for the Mobility of University Students), permettono a un gran numero di studenti universitari di svolgere una parte del proprio programma di studi presso un’università estera. Inoltre, in virtù dei risultati positivi derivanti da tali percorsi, si assiste a un investimento sui programmi di mobilità internazionale sempre più rilevante anche da parte di Regioni, istituzioni scolastiche e universitarie, nonché enti di formazione.

Grazie ai contributi europei e all’ulteriore sostegno economico degli organismi sopracitati, nonché alle evoluzioni del programma che nel 2014 è diventato Erasmus+, possono partecipare all’esperienza non più solo studenti, ma anche lavoratori, docenti e giovani imprenditori.

Il vasto coinvolgimento degli studenti universitari, che rimangono comunque protagonisti indiscussi dei programmi di mobilità, denota un importante investimento in termini di politiche pubbliche. È proprio per il rilievo dell’intervento che sono state sviluppate molte ricerche relative agli esiti delle esperienze di studio all’estero. Secondo la pubblicazione della Commissione europea, The Erasmus impact study UE (European Commission 2014), il percorso di mobilità fuori dai confini nazionali rafforza l’occupabilità grazie al miglioramento del curriculum di studi, delle competenze linguistiche degli studenti coinvolti e delle competenze trasversali. Anche i datori di lavoro, infatti, nella fase di recruitment sottolineano quanto sia importante aver svolto un’esperienza internazionale. Molti studenti sono, per di più, avvantaggiati grazie all’esperienza Erasmus nella ricerca del loro primo lavoro. Si rileva, inoltre, una più alta propensione alla carriera internazionale tra gli studenti definiti ‘mobili’.

Altri lavori presenti in letteratura si concentrano sull’incremento dell’occupazione o sulla propensione a intraprendere carriere internazionali per gli studenti che hanno passato alcuni mesi presso un’università straniera. Si tratta di studi basati su indagini dedicate, rivolte a individui che hanno preso parte all’esperienza internazionale (Teichler e Janson 2007) o ai responsabili della mobilità internazionale nelle università (King et al. 2010).

Tra gli studi che utilizzano un approccio quantitativo non sono molti quelli che verificano la relazione tra mobilità e variabili relative all’occupazione in termini causali. Nella maggior parte dei casi essi si basano su indagini relative a un target specifico come quello dei laureati, al cui interno ci sono laureati che hanno svolto il percorso di studi all’estero e laureati che non hanno preso parte all’esperienza (Di Pietro 2015; Iriondo 2019).

In questo filone della letteratura di riferimento s’inserisce il presente contributo che intende stimare empiricamente l’effetto della partecipazione a progetti di mobilità internazionale durante il percorso di laurea sulla probabilità che una volta terminati gli studi si trovi lavoro; sulla probabilità di lavorare all’estero; e sul tempo necessario per trovare la prima occupazione. Il lavoro si basa sull’indagine relativa ai laureati in Italia condotta dall’Istat[1] e in particolare su una cross section del 2015. Per ciò che concerne lo stato dell’arte, si prendono in considerazione da una parte gli studi precedenti che stimano l’aumento delle possibilità di occupazione per coloro che hanno effettuato un percorso di mobilità (Di Pietro 2015; Iriondo 2019), dall’altra le analisi che indagano sulla diversa probabilità di lavorare all’estero per gli studenti ‘mobili’ o ‘non mobili’ (Parey e Waldinger 2011; Oosterbeek e Webbing 2011; Di Pietro 2015; Iriondo 2019). In ultima istanza, per quanto riguarda la relazione tra l’esperienza di mobilità internazionale e il lasso di tempo (in mesi) entro cui si trova il primo impiego dopo la laurea, si considera il lavoro di Rodrigues (2013).

In questo studio si tengono presenti alcune variabili che nei lavori appena citati sono ritenute rilevanti. In primis si tiene conto del genere, dell’area di residenza precedente all’iscrizione all’università e dell’area geografica dell’università. Si considera, inoltre, il background familiare (basso, medio, alto), che nel lavoro di Di Pietro (2015) è un elemento che comporta cambiamenti rilevanti sull’effetto di un percorso di mobilità sull’occupazione. In aggiunta, si utilizzano le variabili riguardanti il percorso di studi e l’ambito disciplinare degli stessi in quanto si ritiene che, dal punto di vista degli esiti occupazionali in Italia e all’estero, nonché del reperimento di una nuova occupazione, possano essere molto utili.

Le metodologie di cui ci si avvale nell’analisi sono nella prima fase modelli Probit e OLS, per individuare quali variabili risultano maggiormente correlate alle tre variabili risultato. Successivamente, in termini di valutazione d’impatto, ‘il trattamento’ è identificato nella partecipazione al percorso di mobilità internazionale. Con la tecnica del propensity score matching[2] vengono appaiati i laureati trattati, ossia coloro che hanno effettuato un percorso di mobilità, ai laureati non trattati, vale a dire coloro che non sono partiti per l’esperienza internazionale. Viene stimato quindi l’effetto medio del trattamento (ATT) sui laureati che hanno partecipato a un percorso di mobilità, rispetto ai laureati che presentano le stesse caratteristiche e si differenziano per la non partecipazione al percorso di mobilità internazionale. I dati utilizzati fanno parte dell’Indagine campionaria sull’inserimento professionale dei laureati dell’Istat e riguardano i laureati nel 2011, intervistati nel 2015[3].

2. I progetti di mobilità internazionale nel contesto universitario italiano

Dalla nascita del programma Erasmus gli studenti universitari hanno potuto fruire in misura elevata di borse di studio che finanziano la mobilità all’estero. Successivamente, poiché si è compresa l’importanza che riveste lo svolgimento di un periodo fuori dal proprio Paese durante gli studi, è aumentata la spinta all’internazionalizzazione da parte delle istituzioni universitarie. Oltre alla rete Erasmus, invero, sono state promosse ulteriori iniziative di mobilità extra-europea in virtù di appositi accordi o convenzioni sottoscritti dalle istituzioni di istruzione terziaria[4]. Negli anni il programma Erasmus, che tra i percorsi di mobilità internazionale coinvolge il maggior numero di studenti, ha subito alcuni cambiamenti. Il più recente ha portato una modifica sintetizzata in parte nell’aggiornamento del titolo dato al programma stesso, Erasmus+, che come già detto, dal 2014 si presenta più ricco e ambizioso nei contenuti, così come nel numero delle persone coinvolte e dei potenziali destinatari.

Rispetto agli accordi che le varie università italiane hanno stipulato anche con Paesi extra UE non si hanno dati completi; tuttavia si ritiene che i dati relativi a Erasmus possano dare un quadro abbastanza attendibile, anche se non esaustivo, del fenomeno della mobilità internazionale.

Il recente rapporto annuale di Erasmus+ (European Commission 2018) mostra che nei flussi internazionali del programma Erasmus l’Italia ha un ruolo rilevante per studenti provenienti dall’estero, sia come Paese d’origine, sia come Paese di destinazione. Rispetto agli altri Paesi d’origine, l’Italia con 27.095 studenti si colloca al quarto posto dopo la Germania (32.138), la Spagna (31.120) e la Francia (29.851); si ritiene, dunque, che la maggior parte della mobilità internazionale dei nostri studenti universitari sia finanziata attraverso tale programma. Le mete di destinazione in cui si concentrano gli studenti in uscita dall’Italia per un periodo di mobilità Erasmus sono prevalentemente tre: Spagna (29%), Francia (12%), e Germania (11%).

Gli ultimi dati disponibili[5] relativi alla mobilità degli studenti universitari italiani durante il corso di laurea triennale o magistrale rivelano che la quota di donne partite nel 2013/2014 per svolgere un periodo di studio presso un’altra università europea è del 58%. La durata media di tale esperienza all’estero è di 6,1 mesi nel caso italiano, dato in linea con gli altri Paesi. Emerge, inoltre, che le facoltà in cui studiano i giovani italiani che partono per destinazioni straniere sono soprattutto quelle umanistiche, economiche, politico-sociali e ingegneristiche. Le università da cui provengono i giovani italiani che fanno un percorso Erasmus sono ubicate principalmente a Milano (14,6%), Roma (11,6%), Bologna (7,5%), Torino (6,5%), Padova (5,4%). Le lingue che si studiano durante il periodo all’estero sono in prevalenza l’inglese (41%) e successivamente spagnolo (26,4%), francese (14,9%) e tedesco (10,3%).

Un recente lavoro su dati Almalaurea (Timoteo 2015) riporta che mediamente il 10% dei laureati nel 2014 e intervistati nel 2015 ha fatto un’esperienza di mobilità, una quota che si diversifica leggermente tra le macroaree geografiche del Paese. La provenienza dei laureati con un’esperienza di studio all’estero riconosciuta si ripartisce infatti nell’ordine seguente: Nord-Est (13%), Nord-Ovest (11%), Centro (9%), Isole (9%) e infine Sud (6%).

Il background familiare di coloro che fanno un’esperienza di mobilità internazionale è così composto: i giovani con entrambi i genitori laureati sono partiti per una meta europea nel 16% dei casi, invece quelli con un solo genitore laureato che fanno uno scambio internazionale sono il 12%; i laureati con i genitori con un titolo di scuola secondaria di II grado fanno uno scambio nel 9% dei casi e i laureati i cui genitori hanno conseguito titoli di studio inferiori partecipano a programmi di mobilità nel 6% dei casi.

Sono molto interessanti, anche ai fini dell’analisi che di seguito si propone, i dati riguardanti le motivazioni nella scelta di effettuare un periodo di studio all’estero. In particolare, dall’indagine web Studiare all’estero, le esperienze dei laureati italiani condotta da Almalaurea, emerge che l’85% degli intervistati risponde di aver scelto questo percorso per sviluppare competenze linguistiche; l’82% decide di partire per conoscere culture diverse; il 74% vuole migliorare le prospettive lavorative future; il 55% lo fa per esplorare opportunità future di lavoro all’estero. Sempre dai dati provenienti da questa indagine sembra che il percorso di mobilità porti a un rallentamento degli studi nel 26% dei casi più che a un’accelerazione (20%). Nel 53% dei casi invece si tratta di esperienze di studio all’estero che non comportano alcuna variazione nei tempi necessari per il conseguimento del titolo (Timoteo 2015).

3. Letteratura

Tra gli studi presenti in letteratura che riguardano la mobilità internazionale sono considerati innanzitutto i contributi aventi l’obiettivo di stimare gli effetti della partecipazione a un programma di studi all’estero sulla probabilità di trovare lavoro dopo il conseguimento della laurea. Di Pietro (2015), attraverso stime a effetti fissi con variabili strumentali, ha calcolato che la probabilità di essere occupati per i laureati coinvolti nei programmi di mobilità all’estero è di circa 24 punti percentuali in più rispetto ai loro pari che non hanno effettuato l’esperienza internazionale. La variabile strumentale di cui Di Pietro si è avvalso per superare la distorsione dovuta alle differenze di partenza dei due gruppi ? differenze che portano a una diversa probabilità di partecipazione al percorso di mobilità internazionale ? è la quota di persone provenienti da ogni dipartimento delle varie università italiane che ha partecipato a un progetto di mobilità internazionale negli anni precedenti, tra il 2001 e il 2004. L’effetto della mobilità rimane significativo e con una intensità pressoché identica anche quando nelle analisi vengono incluse le variabili geografiche e il tasso di disoccupazione regionale, nonché con l’eliminazione dei laureati che vivono all’estero. Diversamente, suddividendo in tre gruppi il campione, a seconda dello svantaggio sociale e familiare (alto, medio e basso), il risultato ottenuto (24 punti percentuali) sembra riferirsi al solo gruppo di giovani con un background familiare mediamente svantaggiato, negli altri due gruppi sembra che l’esperienza Erasmus non abbia alcun effetto sulla probabilità di occupazione.

Dalle analisi di Iriondo (2019), basate su due indagini relative ai laureati spagnoli, è emerso invece che la mobilità internazionale ha un effetto non significativo sulla probabilità di essere occupati, eccetto nel 2011 dove si verifica un effetto significativo ma negativo per il primo anno dopo la laurea. Nel 2012, 2013 e 2014 non si è riscontrato alcun effetto significativo. Effetti positivi e significativi, invece, sono emersi sull’occupazione a sei anni di distanza dalla laurea. Il metodo utilizzato per le analisi è l’effetto medio del trattamento sui trattati (ATT) basato sul propensity score matching.

Destano particolare interesse anche gli studi che hanno trattato della relazione tra partecipazione ai programmi di mobilità all’estero e propensione alle carriere internazionali e, nello specifico, gli studi che cercano di risolvere il problema dell’eterogeneità non osservata. Parey e Waldinger (2011), Oosterbeek e Webbink (2011) e Di Pietro (2015) sono giunti al risultato che i programmi di mobilità internazionale aumentano la probabilità di lavorare all’estero.

Parey e Waldinger (2011), basandosi sull’indagine relativa ai laureati tedeschi, hanno dimostrato che aver partecipato al programma Erasmus ha un effetto significativo sulla probabilità di lavorare all’estero. La variabile strumentale con cui gli autori colgono la diversa esposizione al trattamento è rappresentata dalle differenze temporali della pubblicazione dei bandi Erasmus di ogni ateneo e dipartimento tedesco. Attraverso la regressione, con l’uso di tale variabile strumentale essi hanno concluso che studiare in un Paese diverso dal proprio accresce la probabilità di lavorare all’estero del 15%.

Oosterbeek e Webbing (2011), analizzando i dati relativi a studenti tedeschi meritevoli, hanno verificato che la probabilità di vivere in uno Stato estero è più elevata di 50 punti percentuali se nel proprio percorso di studi è stata fatta un’esperienza di mobilità. La metodologia utilizzata è il regression discontinuity design applicato su studenti talentuosi che avevano partecipato a un programma finalizzato all’ottenimento di borse di studio per l’estero. In questo caso sono stati usati dati di un piccolo campione relativo a studenti particolarmente meritevoli, invece nello studio di Parey e Waldinger (2011) è stato analizzato un campione più grande, costituito da ragazzi che avevano completato il percorso di istruzione in Germania successivamente al programma di mobilità internazionale.

Relativamente alla mobilità dei laureati italiani pare che almeno quella interregionale porti a un riscontro positivo sia in termini occupazionali, sia di corrispondenza tra livello d’istruzione e lavoro. In particolare, tale migliore corrispondenza sembra riguardare maggiormente i migranti che provengono dal Sud (Iammarino e Marinelli 2015). L’Istat, peraltro, conferma che l’emigrazione dei laureati italiani è correlata al fenomeno del mismatch: la ricerca di lavori maggiormente adeguati al proprio titolo di studio è tra le motivazioni che portano alla scelta di trasferirsi all’estero (Istat 2019).

I risultati principali di uno studio riguardante sedici Paesi europei, basato sull’indagine relativa ai laureati dopo cinque anni dal conseguimento del titolo terziario (Rodrigues 2013), mostrano che la mobilità degli studenti è associata a un significativo aumento della probabilità di trasferirsi all’estero dopo la laurea. Per l’Italia, inoltre, si riscontra che il laureato continua a vivere all’estero per lavorare un anno dopo il conseguimento del titolo così come cinque anni dopo. La stima si basa sul metodo del propensity score matching.

Rodrigues (2013) rivela inoltre che l’esperienza di mobilità internazionale è associata a un tempo più lungo per il reperimento di un’occupazione dopo la conclusione degli studi universitari. Tale risultato è spiegato dalla possibilità che il temporaneo allontanamento in un altro Paese porti a una perdita della rete di relazioni tale per cui sarebbe più difficile trovare un’occupazione in tempi brevi.

Il presente lavoro si inserisce nel contesto della letteratura citata con l’obiettivo di misurare l’effetto di un’esperienza di mobilità (realizzatasi durante gli studi) in termini di occupazione sui laureati in Italia nel 2011 a distanza di quattro anni dal conseguimento del titolo triennale o magistrale. Utilizza gli ultimi dati Istat relativi ai laureati e applica il metodo del propensity score matching, il quale si differenzia dagli altri metodi finora impiegati in studi riguardanti i laureati italiani e che invece si riscontra in parte della letteratura sui laureati in altri Paesi (Iriondo 2019).

Nel prossimo paragrafo vengono illustrate le caratteristiche dei dati utilizzati per le analisi e la strategia econometrica impiegata per stimare gli effetti derivanti dall’aver partecipato a un’esperienza di mobilità internazionale durante gli studi.

4. Dati e strategia econometrica

Si ricorda che le analisi si basano sui dati dell’Istat Indagine campionaria sull’inserimento professionale dei laureati[6] del 2015 relativa ai laureati triennali e magistrali nel 2011, finalizzata a conoscere la condizione e il percorso occupazionale dei laureati triennali e magistrali a distanza di quattro anni dal conseguimento del titolo.

L’indagine si inserisce nel sistema integrato di rilevazioni Istat sulla transizione dal mondo dell’istruzione a quello del lavoro, sistema di cui fanno parte anche l’indagine dei diplomati di scuola secondaria di II grado e l’indagine totale sull’inserimento professionale dei dottori di ricerca.

La tecnica dell’indagine è CATI/CAWI. Il questionario di rilevazione si articola in cinque sezioni. La prima è dedicata al curriculum degli studi e alle attività di qualificazione, la seconda al lavoro e la terza alla ricerca del lavoro; nella quarta si raccolgono informazioni relative alla mobilità territoriale dei laureati e nella quinta si rilevano notizie relative alla famiglia d’origine e a quella attuale.

La presente analisi si basa su laureati triennali e magistrali che al momento dell’indagine non hanno lo status di studenti. Dal punto di vista metodologico, anzitutto si propone un set di regressioni finalizzate a individuare le variabili che sono maggiormente associate alla probabilità di avere un lavoro, di lavorare all’estero e al tempo che intercorre tra la laurea e il reperimento di un’occupazione. La specificazione è, dunque, la seguente:

 

y = β0 + β1 Mob.Internazionale + β2 S + β3 F+ β4 G+ ε (1)

 

dove y sta per la probabilità di essere occupato (0/1), per la probabilità di lavorare all’estero (0/1) e per i mesi che intercorrono dalla laurea al reperimento del primo lavoro.

La variabile di interesse è ‘Mob.Internazionale’ che indica la partecipazione a percorsi di mobilità internazionale (0/1) e si basa sulla domanda se l’individuo abbia o meno partecipato durante gli studi a dei percorsi di mobilità studentesca internazionale. Le altre variabili di controllo (1) riguardano le seguenti dimensioni: S rappresenta un set di variabili relative all’ambito di studi, specializzazione o corsi di formazione successivi alla laurea, F riguarda le variabili relative al background familiare e socio-economico, G rappresenta le aree geografiche di studio e di lavoro.

Le variabili appartenenti alla dimensione S degli studi riguardano l’ambito universitario, il voto di diploma, il voto di laurea, la durata del percorso universitario, la tipologia di laurea (triennale/magistrale). Si è ritenuto opportuno considerare tali variabili, in quanto, come già evidenziato dalle statistiche descrittive a livello nazionale, vi sono ambiti di studio che predispongono maggiormente a percorsi di mobilità e a carriere internazionali. Il voto di diploma è utilizzato come proxy delle abilità e delle competenze possedute dagli individui. Allo stesso modo ci si è avvalsi del voto di laurea, assumendo che a un voto alto corrisponda un livello alto di competenze e che possa influire sulla probabilità di trovare un lavoro e di trovarlo in tempi brevi. Anche la durata degli studi è stata considerata un indicatore di performance relativo al percorso universitario.

Il background familiare è una dimensione di cui si tiene conto in molti lavori che trattano degli effetti della mobilità internazionale (Di Pietro 2015; Rodrigues 2013); si sono costruite pertanto due variabili binarie che indicano se il padre o la madre hanno raggiunto il livello d’istruzione terziario.

Per tenere conto anche delle condizioni economiche si è ricorso a due variabili che variano tra 0 e 1 e indicano alternativamente la presenza di reddito da lavoro o da pensione del padre e della madre. Una serie di variabili geografiche è stata utile per controllare la diversa probabilità di trovare un lavoro. Sono state pertanto considerate l’area in cui è situata l’università e l’area di residenza prima dell’iscrizione all’università. È stata inserita, inoltre, la covariata relativa all’età della laurea; tale variabile è divisa in fasce d’età[7].

In merito alla selezione del campione è opportuno evidenziare che sono stati esclusi coloro che hanno dichiarato di non lavorare perché impegnati negli studi (2.486 osservazioni), risultando al momento dell’intervista caratterizzati dallo status di ‘studente’.

Sono stati eliminati, inoltre, gli studenti lavoratori (8.469 osservazioni), cioè coloro che lavoravano già al momento della laurea. La scelta deriva dall’assunzione che essere studente lavoratore implica che si abbia un lavoro prima di laurearsi. Pertanto tali individui potrebbero essere lavoratori al momento dell’intervista grazie allo status precedente e il loro tempo per trovare un’occupazione sarebbe pari a 0 qualora il lavoro lo avessero mantenuto anche dopo la laurea.

I metodi delle regressioni OLS e Probit, pur cogliendo dei nessi tra le variabili considerate, non tengono conto della distorsione da selezione dovuta a una maggiore probabilità per alcuni individui di partecipare a un percorso di mobilità internazionale. In particolare, per percorsi di questo genere, potrebbe verificarsi un problema di auto-selezione secondo cui parteciperebbero gli individui con determinate caratteristiche. Il propensity score matching, tecnica che permette di abbinare gli individui trattati agli individui non trattati più simili, è il metodo che è stato utilizzato per poter tener conto del problema dell’auto-selezione. Per questa ragione, oltre alle regressioni OLS e Probit, si è stimato l’effetto medio del trattamento sui trattati (ATT) (2), ossia l’effetto medio dell’aver partecipato a un percorso di mobilità su coloro che hanno partecipato.

Attraverso l’ATT si riesce a verificare l’efficacia di una politica attuata, dove per efficacia si intende la capacità di produrre i cambiamenti desiderati tra i beneficiari effettivi (Martini e Sisti 2009).

 

Effetto medio del trattamento sui trattati =

E (δ | T = 1) = E (Y1 – Y 0 | T = 1) =

= E (Y1 | T = 1) – E (Y0 | T = 1) (2)

 

Nella formula (2) il termine E (Y1 | T = 1) riguarda i trattati, cioè coloro che hanno fatto un’esperienza di mobilità internazionale, il secondo termine E (Y0 | T = 1) rappresenta il controfattuale, cioè gli individui più simili che però non hanno partecipato all’esperienza[8].

Al fine di creare il propensity score, cioè l’indice di propensione che denota la probabilità che l’individuo venga assegnato al trattamento[9], il quale ci permette di stimare l’effetto medio del trattamento (aver partecipato a un percorso di mobilità) sull’occupazione, sul lavoro all’estero e sul periodo di tempo istruzione-lavoro, sono state selezionate le variabili di seguito spiegate. È stata inserita innanzitutto la covariata relativa al genere, il quale può influenzare contestualmente il trattamento e la variabile risultato ed è costante nel tempo. Sono state incluse poi le variabili relative all’occupazione e pensionamento del padre e della madre. Pur essendo rilevate nel 2015, si è scelto di utilizzare una variabile binaria 0/1 che indica se il padre o la madre risultano al 2015 occupati o pensionati. È stata utilizzata, inoltre, la variabile che individua la ripartizione di residenza prima di iscriversi all’università. Si è poi inclusa la tipologia di diploma che è una variabile pre-trattamento, una proxy delle competenze di base con cui gli studenti accedono all’università. Le altre variabili impiegate sono delle variabili binarie relative al gruppo di laurea al più piccolo livello di aggregazione di cui si dispone nei dati[10]. Si ritiene infatti necessario, in accordo con la letteratura di riferimento (Centra e Ricci 2017), tener conto delle differenze che le diverse tipologie di laurea esercitano in termini di occupazione.

La stima dell’effetto medio del trattamento sui trattati (ATT), inoltre, tiene conto di abbinamenti individuati con tre diversi metodi di matching: Nearest-Neighbor, Kernel e Stratification[11].

5. Analisi descrittive

In questa sezione si analizzano le statistiche descrittive, al fine di comprendere come il partecipante a percorsi di studio all’estero si caratterizza sotto il profilo del curriculum di studi, dal punto di vista del lavoro e del periodo di transizione istruzione-lavoro.

Figura 1 DTabella 1 D

I dati riguardanti le facoltà da cui provengono gli studenti che hanno partecipato a un’esperienza di mobilità internazionale sono in linea con quanto riporta il dato a livello nazionale.

Figura s D

 

Come si può osservare dalla figura 2, la più elevata quota di coloro che hanno scelto di partire per frequentare un ateneo straniero per alcuni mesi riguarda studenti delle facoltà economico-statistiche (22,61%) e linguistiche (17,91%). Sono di gran lunga inferiori i partecipanti a percorsi di mobilità internazionale provenienti da facoltà scientifiche, chimico-biologiche o mediche e da lauree che sfociano in maniera naturale nell’insegnamento. Si può ipotizzare pertanto che la tipologia di laurea possa essere correlata alla scelta di partecipare a un percorso di mobilità internazionale. Molti sono i riferimenti in letteratura che rilevano una maggiore propensione alla scelta di effettuare un’esperienza Erasmus per lauree improntate alle carriere internazionali e linguistiche (relazioni internazionali, economia, lingue ecc.) (Rodrigues 2013).

Osservando il grafico relativo a coloro che lavorano all’estero (figura 3) si evince che, fatto cento il numero di laureati che hanno partecipato a un percorso di mobilità, sono 19 i laureati che lavorano all’estero rispetto al 4% di coloro che non hanno fatto un percorso di mobilità.

 

6. Risultati

La tabella 2 mostra gli effetti medi marginali dei due modelli Probit, le variabili risultato considerate sono: occupato a quattro anni dalla laurea (0/1), occupato all’estero a quattro anni dalla laurea (0/1). La terza variabile dipendente è il periodo intercorso tra il conseguimento degli studi e la prima opportunità lavorativa/lavoro ed è stimato attraverso un modello OLS.

 Tabella 2 D

Utilizzando questo primo metodo di analisi emerge che l’aver partecipato a un percorso di mobilità internazionale durante gli studi universitari non ha alcuna associazione significativa rispetto alla probabilità di essere occupato, è associato a un aumento di 8,2 punti percentuali della probabilità di lavorare all’estero ed è correlato negativamente al tempo di reperimento della prima occupazione, diminuisce di un mese circa.

Come ampiamente dimostrato in letteratura, sulla variabile risultato relativa all’occupazione si conferma la minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro (1,4 punti percentuali) rispetto agli uomini in questa prima fase successiva agli studi universitari. Le donne sono associate anche a una minore probabilità di lavorare all’estero rispetto agli uomini (2 punti percentuali); tuttavia trovano il primo lavoro o hanno una prima opportunità lavorativa prima degli uomini (0,6 mesi prima).

Per i laureati che risiedevano in regioni meridionali prima dell’iscrizione all’università la probabilità di essere occupati diminuisce rispetto ai laureati che risiedevano nell’area nordoccidentale italiana (-7 punti percentuali). Il lasso di tempo che intercorre tra la fine degli studi e il lavoro sembra aumentare per gli stessi residenti nelle aree meridionali di 0,77 mesi.

Si osserva che, per gli studenti che hanno frequentato l’università al Centro o al Sud, le probabilità di essere occupati diminuiscono rispettivamente di 4 punti percentuali e di 7 punti percentuali rispetto ai laureati che hanno studiato nelle università del Nord-Ovest. Inoltre, aver frequentato le università al Centro e al Sud è associato a un più lungo periodo di inoccupazione/disoccupazione: nel primo caso di un mese e mezzo, nel secondo caso di circa 2 mesi e mezzo. I laureati nelle università meridionali presentano anche minori probabilità di lavorare all’estero.

Per ciò che concerne l’ambito di studi emerge che la laurea in medicina è associata a una probabilità più elevata di 4,2 punti percentuali di essere occupati nei quattro anni successivi alla laurea; la stessa laurea è associata negativamente all’occupazione all’estero e a un tempo di reperimento della prima occupazione inferiore di sette mesi rispetto ai laureati in economia e materie giuridiche.

Le lauree in architettura, ingegneria e agraria sono associate a un aumento di probabilità di essere occupati rispetto alla laurea in economia (8 punti percentuali) e a un aumento della probabilità di lavorare all’estero (1,7 punti percentuali). Con la laurea in materie scientifiche si riscontra invece una minore probabilità di essere occupati (7 punti percentuali) e una maggiore probabilità di lavorare all’estero (5 punti percentuali).

Aumentando la durata degli studi diminuisce la probabilità di essere occupati e la probabilità di lavorare all’estero e si allunga il periodo per trovare la prima occupazione. Il conseguimento della laurea magistrale aumenta la probabilità di avere un lavoro, diminuisce la probabilità di lavorare all’estero e diminuisce il periodo di tempo per il reperimento della prima occupazione.

In considerazione della distorsione dovuta alla diversa probabilità di ricevere il trattamento e soprattutto dell’auto-selezione, è stato utilizzato il propensity score matching; si è poi stimato l’effetto medio del trattamento sui trattati (ATT).

La variabile trattamento è la partecipazione a un percorso di mobilità internazionale, le variabili risultato considerate sono, come nelle stime precedenti, la probabilità di essere occupati (0/1); la probabilità di lavorare all’estero (0/1); il lasso di tempo per il reperimento della prima occupazione (in mesi).

Dopo aver verificato il bilanciamento[12] delle variabili (tabelle 3, 4 e 5), sono stati individuati i laureati più simili in termini di caratteristiche pre-trattamento. Il test di bilanciamento ha dimostrato che le differenze non sono statisticamente significative.

 Tabella 3 D

 Tabella 4 D

 Tabella 5 D

Nella tabella 6 si osserva come a fronte di 3.854 trattati, cioè laureati che hanno svolto un periodo di studi all’estero, i controlli sono 32.628 colleghi con le stesse caratteristiche pre-trattamento (tipologia di laurea, livello di istruzione dei genitori ecc.) dei primi, eccetto per la partecipazione al percorso di studio all’estero.

Dalla stima dell’effetto medio del trattamento sui trattati (ATT) emerge che l’aver partecipato a un programma di mobilità internazionale con il primo metodo utilizzato non risulta significativo (tabella 6). Pare non vi sia una differenza significativa tra il gruppo dei trattati e quello dei controlli. Gli altri metodi utilizzati nella stima dell’ATT (Kernel e Stratification) sembrano invece mostrare una diversa significatività e, sulla loro scorta, si potrebbe rifiutare l’ipotesi nulla e accettare che i due gruppi differiscano significativamente. Il coefficiente non è molto elevato (da 1,4 a 2,4 punti percentuali); il risultato, viste le differenze tra i metodi, non si può ritenere solido e, quindi, andrebbe ulteriormente approfondito. Altri lavori in letteratura mostrano risultati dubbi in termini di occupazione con coefficienti bassi e al limite della significatività (Iriondo 2019).

Effettuando la stima dell’effetto medio del trattamento sui trattati (ATT), il coefficiente relativo alla probabilità di lavorare all’estero risulta significativo (tabella 7). A parità di condizioni pre-trattamento, la probabilità di lavorare all’estero aumenta di circa 14 punti percentuali (con una leggera differenza tra i metodi utilizzati) per i giovani che hanno effettuato un’esperienza di mobilità internazionale rispetto ai colleghi rimasti in Italia durante gli studi. Il coefficiente emerso dal modello Probit commentato precedentemente sembra essere così rafforzato. A parità di condizioni, tra gli individui trattati e i controlli che presentano le stesse caratteristiche familiari e di studi conseguiti, si riscontra una più elevata probabilità di lavorare all’estero per coloro che hanno effettuato l’esperienza di mobilità.

 Tabelle 6 e 7 D

 

Il trattamento comporta una variazione significativa della probabilità di lavorare all’estero.

L’ultima variabile risultato considerata riguarda il lasso di tempo che intercorre tra il conseguimento del titolo di laurea e il primo lavoro o la prima opportunità lavorativa (tabella 8). A parità di condizioni pre-trattamento, per coloro che hanno partecipato alla mobilità internazionale, sembra che tale periodo si riduca in maniera significativa di 2,5 mesi o poco meno. Il risultato dell’ATT rafforza quanto emergeva nelle stime OLS, la t di student permette di ritenere il coefficiente significativo.

Tabella 8 D

 

Si ritiene opportuno esaminare le motivazioni della distorsione negativa presente nelle stime OLS e Probit rispetto alle stime realizzate con il propensity score matching. Quando si usa una tecnica di valutazione come il propensity score, non si può stabilire in partenza se le stime saranno o meno con risultati divergenti più bassi o più alti rispetto ad altri metodi come le regressioni. Offrendo il metodo del propensity score una soluzione all’assenza del controfattuale garantisce che l’effetto del trattamento si possa calcolare per differenza tra trattati e non trattati simili tra loro.

In questo caso l’impatto sembra essere maggiore probabilmente perché, grazie al metodo utilizzato, associando gli individui con le stesse caratteristiche si isola l’effetto determinato dall’unica differenza tra il gruppo dei trattati e il gruppo dei non trattati, cioè l’esperienza di mobilità, assieme a un’eventuale parte di distorsione. Va infatti evidenziato che le OLS/Probit possono essere caratterizzate da distorsione da selezione, variabili omesse ed endogeneità. Il propensity score matching è utile a controllare meglio per le variabili osservabili, ma non consente di correggere dalle altre distorsioni. Il superamento di tale limite è possibile solo attraverso le variabili strumentali.

7. Note conclusive

I risultati che emergono dalle analisi svolte relativamente all’impatto della partecipazione a programmi di studio all’estero permettono di individuare alcuni elementi in accordo con la letteratura e che si confermano, in molti casi, tra i vari approcci metodologici utilizzati nel presente lavoro.

Dal set di regressioni si riscontra che la mobilità internazionale non è associata all’occupazione. Inoltre, la probabilità di essere occupati diminuisce nel caso delle donne e dei laureati con prima residenza al Sud. Diminuisce l’occupazione anche nel caso di coloro che hanno frequentato l’università al Centro o al Sud Italia. Tali risultati relativi alla macroarea denotano delle importanti differenze sulle prospettive occupazionali per i giovani che studiano o risiedono in questi territori, a differenza di quelli del Nord.

Il segno negativo riguarda anche i laureati in area scientifica e in area umanistica; sono invece associati a una più alta probabilità di occupazione i laureati in medicina o nel gruppo formato da ingegneria, architettura e agraria. Si riduce la probabilità di trovare lavoro per gli individui con un padre laureato rispetto a coloro che hanno un padre con un titolo di studio inferiore e aumenta invece la probabilità che lavorino i laureati nella cui famiglia la madre lavora e non è disoccupata.

Inoltre, circa la probabilità di lavorare all’estero, dalle regressioni si evince che la mobilità internazionale è associata a un aumento di 8,2 punti percentuali di tale probabilità per gli studenti ‘mobili’. Le stime, pertanto, confermano che gli studenti che svolgono quest’esperienza più probabilmente lavorano all’estero rispetto a coloro che non l’hanno svolta.

Le donne laureate sembrano essere meno propense a lavorare all’estero. L’aver frequentato un’università del Sud probabilmente non stimola a uscire dai confini nazionali per lavorare. Per chi è fuori corso è meno probabile che si lavori all’estero. I laureati magistrali sono meno ‘mobili’ dal punto di vista lavorativo rispetto ai laureati triennali. Avere una laurea in medicina, presumibilmente anche grazie alle molte opportunità che si hanno a livello nazionale, non porta a spostarsi in altri Paesi per lavoro. Aumenta invece la probabilità di lavorare al di là dei confini italiani per i laureati che, prima di iscriversi all’università, avevano la residenza all’estero, verosimilmente perché c’è una maggiore propensione allo spostamento e in alcuni casi potrebbe trattarsi di un ritorno nel Paese d’origine. Rispetto ai laureati il cui padre ha un titolo d’istruzione inferiore al livello terziario, sembra che sia favorito lo spostamento oltre i confini nazionali per gli individui con il padre laureato. Una laurea scientifica, nonché le lauree in ingegneria, architettura e agraria risultano favorire lo spostamento all’estero. Un più alto voto di laurea è associato a una più alta propensione ad andare all’estero per lavoro.

I mesi che intercorrono prima del reperimento dell’occupazione sembrano diminuire se si è effettuato un percorso di mobilità, presumibilmente anche grazie a una serie di competenze trasversali, nonché linguistiche che, in fase di ricerca di lavoro, possono fare la differenza tra i laureati. Il lasso di tempo per trovare lavoro sembra essere più breve anche per le donne, un dato interessante che dimostra come le donne impieghino meno tempo per reperire un’occupazione rispetto agli uomini, nonostante la loro inferiore partecipazione al mercato del lavoro.

Necessitano di più tempo per trovare un’occupazione i laureati che hanno frequentato l’università al Sud o al Centro rispetto ai laureati in università del Nord-Ovest, un dato che conferma ancora una volta la minore competitività di coloro che studiano in Italia centrale e meridionale. Per coloro che si sono laureati in tempi più lunghi aumenta il periodo per ottenere un’occupazione, si perde probabilmente competitività, laddove si risulti fuori corso. La laurea magistrale rende più competitivi ed è associata a una diminuzione dei mesi per il reperimento di un’occupazione. Inoltre, la laurea in medicina diminuisce di molto il numero di mesi necessari per il reperimento di un’occupazione, rispetto a una laurea in scienze economiche, politiche e statistiche.

In virtù dei risultati appena commentati, si è ritenuto utile tenere ferme tutte queste caratteristiche che rappresentano alcune componenti del quadro dell’occupazione in Italia e all’estero dei lavoratori, per isolare l’effetto della variabile relativa alla mobilità internazionale.

L’effetto è stimato a parità delle seguenti caratteristiche pre-trattamento: genere, occupazione del padre e della madre, ripartizione di residenza prima di iscriversi all’università, studi superiori di II grado liceali o non liceali e gruppo di laurea al livello più piccolo di aggregazione (tenendo quindi le facoltà tutte separate, eccetto chimica, biologia e farmacia, per problemi di bilanciamento).

Ciò che si commenta di seguito riguarda la stima degli effetti causali così ottenuta: ogni individuo ‘mobile’ è associato a uno o più individui con le medesime caratteristiche e differisce dal ‘gemello non mobile’ esclusivamente per la partecipazione a un’esperienza di mobilità.

I risultati che vengono spiegati di seguito si possono dunque ritenere più solidi poiché consentono di parlare di impatto dovuto solo all’esperienza di mobilità e non più di associazione tra le variabili; il metodo del propensity score matching, infatti, è una tecnica che permette di superare in parte il problema dell’auto­selezione, tenuto conto che la partecipazione degli individui ai percorsi di mobilità potrebbe infatti non essere causale. Vale la pena sottolineare che potrebbero esistere delle variabili omesse che portano a una maggiore propensione a scegliere determinate tipologie di percorsi; tali variabili potrebbero contestualmente influenzare il trattamento e l’outcome.

Da questa tipologia di analisi valutativa emerge che l’occupazione varia di poco tra i laureati che hanno effettuato un periodo di studio all’estero e coloro i quali non hanno partecipato all’esperienza. Infatti, la partecipazione a programmi di mobilità internazionale nei quattro anni dopo la laurea sembra incidere sulla carriera lavorativa dell’individuo, tuttavia il risultato significativo dell’aumento di probabilità di trovare lavoro (di 1,4-2,4 punti percentuali) non si conferma con uno dei tre metodi usati per la stima dell’effetto medio del trattamento sui trattati. Sulla variabile risultato relativa all’occupazione potrebbe essere utile pertanto ricorrere alle regressioni con variabili strumentali, come altri studi presenti in letteratura dimostrano (Di Pietro 2015).

In secondo luogo, la probabilità di lavorare all’estero aumenta di 14 punti percentuali circa, qualora nel periodo universitario sia stata fatta un’esperienza di mobilità. Il risultato dell’effetto medio del trattamento sui trattati consolida quanto è emerso anche nelle regressioni Probit e conferma quanto trovato in diversi contributi che studiano la relazione tra mobilità internazionale e carriere all’estero (Parey e Waldinger 2011; Rodrigues 2012), secondo cui partecipare a percorsi di mobilità internazionale porterebbe a una maggiore propensione a carriere internazionali.

Circa i mesi necessari per trovare un lavoro, in alcuni studi a livello internazionale (Rodrigues 2013) emerge che il tempo per reperire un’occupazione aumenta nei soggetti che hanno effettuato un’esperienza di mobilità, probabilmente per la perdita di rete nel Paese d’origine. In Italia, tuttavia, almeno per quanto riguarda il presente studio, emerge che tale esperienza incide positivamente sulla velocità di reperimento di un’occupazione, probabilmente anche grazie alle competenze linguistiche e trasversali che questi percorsi permettono di introdurre nel bagaglio culturale di ogni studente.

I risultati conseguiti rappresentano un primo step di ricerca sul rapporto tra mobilità internazionale e occupazione; si proseguirà, infatti, testando altri metodi che possano irrobustire le evidenze fin qui emerse. Sarà utile, pertanto, ricorrere alle variabili strumentali per confrontare questi primi risultati e per prendere in considerazione la diversa esposizione al ‘trattamento’. Esistono infatti alcune caratteristiche che rendono più probabile la partecipazione a un percorso di mobilità internazionale che in questo studio non sono state considerate.

Tra i possibili ulteriori sviluppi si ritiene opportuno, inoltre, replicare le stime su dati della stessa indagine relativa agli anni precedenti per verificare se le stesse dinamiche riscontrate si possano osservare anche in periodi differenti.

Se il propensity score matching infatti consente di unire in un solo vettore le caratteristiche selezionate per creare dei ‘gemelli’, e quindi permette una lettura dell’impatto oggetto di studio per differenza tra trattati e controlli, ciò che questa tecnica non riesce a catturare è sicuramente una differente esposizione al trattamento che è spesso dovuta a variabili non osservabili.

Sui percorsi di mobilità ad esempio potrebbe incidere la passione per l’estero, la passione per le lingue, la presenza di una parte della famiglia in determinati Paesi, fattori push (di espulsione)[13] che favoriscono maggiormente la ricerca di opportunità all’estero come il tasso di disoccupazione giovanile.

Un altro aspetto su cui si vuole ampliare l’analisi è la differenziazione per macroaree geografiche, relativamente alle università frequentate; si potrebbe così finalizzare lo studio alla stima degli effetti nelle situazioni di maggiore svantaggio in termini di disoccupazione giovanile. Lo stesso approccio, suddividendo le situazioni a seconda del background familiare, in accordo con il lavoro di Di Pietro (2015), potrebbe permettere di comprendere se la maggiore competitività dei laureati dal punto di vista occupazionale risente del contesto familiare.

Si ritiene, inoltre, di poter ampliare l’analisi degli effetti sui redditi da lavoro, per comprendere se la mobilità influisca anche sulla situazione economica dei lavoratori occupati.

Un ulteriore approfondimento che s’intende effettuare, al fine di individuare delle indicazioni di policy più precise, riguarda la differente probabilità di partecipazione alle esperienze internazionali a seconda del campo di studi. Potrebbe essere svolta un’analisi su sotto-campioni per comprendere quanto tale esperienza di mobilità influisca sulla carriera dell’individuo tenendo conto anche del conseguimento di un titolo di studio triennale e magistrale, che potrebbe differenziare i risultati.

8. Indicazioni di policy

Lo studio fin qui condotto permette di formulare alcune considerazioni anche in termini di indicazioni di policy.

Negli anni più recenti le risposte fornite dall’Unione europea al fenomeno incalzante della disoccupazione giovanile sono state molte e in buona parte orientate a incrementare l’occupabilità degli individui e l’occupazione (Youth Guarantee, Erasmus+, la rete Eures ecc.). In tal senso, va considerato che per il periodo 2014-2020 il programma Erasmus+ ha previsto un aumento significativo dei finanziamenti rispetto al periodo precedente con un importante focus sull’occupabilità, in quanto uno dei suoi obiettivi principali è quello di migliorare il livello di competenze e abilità, con particolare riguardo alla loro rilevanza per il mercato del lavoro (Council of the European Union 2012).

È importante d’altro canto osservare che, tenendo conto della teoria del capitale umano (Becker 1975), i governi nazionali hanno iniziato a mostrare un maggiore interesse per l’occupabilità e la promozione delle condizioni necessarie per aumentare il capitale umano.

Oltre al livello transnazionale dell’UE, anche i Paesi membri hanno iniziato a considerare l’occupabilità dei laureati un importante obiettivo politico. Di conseguenza hanno imposto questo obiettivo, in misura diversa, ai sistemi nazionali di istruzione superiore (European Commission 2014).

Tenendo conto che molti degli interventi citati scaturiscono da una particolare attenzione a contrastare la disoccupazione giovanile attraverso il rafforzamento delle competenze degli individui, gli studi d’impatto che isolano l’effetto degli interventi in termini di politiche pubbliche divengono fondamentali, nell’ottica di eventuali replicazioni d’interventi, nonché di implementazioni di investimenti più corposi.

Sulla competitività dei laureati italiani è tuttavia importante accennare al tema relativo alle motivazioni che portano gli individui altamente qualificati a trasferirsi all’estero. In tal senso il rapporto annuale Istat (2019) sottolinea che, per ciò che concerne le regioni italiane, i saldi migratori con l’estero rispetto ai giovani con istruzione terziaria sono tutti negativi; l’Italia ha dunque una scarsa attrattività per i laureati di altri Paesi e continua a perdere un gran numero di giovani altamente qualificati. La Lombardia è la prima regione da cui i giovani emigrano a fini lavorativi, il Sud tuttavia continua a mantenere il primato del saldo migratorio negativo: a un numero di individui fuori dal Paese d’origine corrisponde un numero inferiore di giovani qualificati che si trasferiscono per lavoro al Sud. Pertanto, sicuramente tra le motivazioni dell’emigrazione degli individui altamente qualificati non si possono trascurare i principali fattori push (Capparucci e Giffoni 2010) che riguardano fondamentalmente la disoccupazione giovanile e l’incapacità di assorbire lavoratori con il giusto inquadramento. Pare, di fatti, che lavorare all’estero sia un fattore correttivo del mismatch, consentendo ai laureati in Italia di ricoprire ruoli lavorativi adeguati al loro livello d’istruzione (Istat 2019).

Dal punto di vista delle implicazioni in termini di policy, lo studio fin qui condotto suggerisce che la partecipazione a progetti di mobilità internazionale rende più competitivi i laureati: riduce il tempo necessario per trovare un’occupazione; favorisce di gran lunga un’occupazione all’estero, e, seppur con un effetto non molto forte, aiuta a trovare un’occupazione.

Questi tre aspetti si considerano di grande rilievo per poter ritenere che gli investimenti nella mobilità internazionale accrescono il capitale umano, rendono più occupabili gli individui e ne aumentano la competitività favorendo le possibilità di occupazione. In particolare, l’Erasmus con le integrazioni e gli ampliamenti degli interventi previsti nel programma Erasmus+ e, più in generale, i progetti di mobilità internazionale stanno contribuendo a contrastare la disoccupazione giovanile, almeno per i laureati in Italia a quattro anni dal conseguimento del titolo.

Si potrebbe, pertanto, innanzitutto intervenire maggiormente anche a livello nazionale, nonché universitario, incrementando le iniziative di mobilità internazionale, estendendo così la platea dei beneficiari di azioni che rendono più competitivi i laureati sul mercato del lavoro, privilegiando in maggior misura le situazioni in cui tali finanziamenti possono garantire esiti più significativi. In tal senso si potrebbe rafforzare il numero di interventi nei contesti con un livello più alto di disoccupazione giovanile, ad esempio nel Mezzogiorno, e con una particolare attenzione ai corsi di laurea dei gruppi umanistico e scientifico, per rendere più competitivi i laureati italiani sul mercato del lavoro nazionale e internazionale. D’altra parte, favorire le occasioni di lavoro e le iniziative d’impresa potrebbe creare un contesto fertile affinché i giovani laureati italiani, dopo aver fatto un percorso Erasmus e aver arricchito il loro bagaglio culturale, trovino altrettante giuste opportunità per rimanere nel proprio Paese.

Bibliografia

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1

Maggiori approfondimenti sono riportati nel paragrafo 4 del lavoro; il link all’indagine è: https://www.istat.it/it/archivio/94564.

2

Il propensity score matching (Rosenbaum e Rubin 1983) è la probabilità di ricevere un dato trattamento condizionata per un insieme di covariate pre-trattamento.

3

Cfr. nota 1.

4

L’investimento in internazionalizzazione da parte delle università si evidenzia anche nei casi in cui tra le opportunità di mobilità all’estero non figura solo l’Erasmus, ma una serie di apposite convenzioni che disciplinano gli scambi anche con Paesi extra-europei.

5

Dati disponibili su EU open data portal (https://data.europa.eu/euodp/data/dataset).

6

Per maggiori approfondimenti sull’indagine si veda https://www.istat.it/it/archivio/8338.

7

Sarebbe stato utile inserire l’età esatta e l’età al quadrato come in molti altri lavori presenti in letteratura, ma purtroppo non si dispone di un dato di questo tipo.

8

La prima ipotesi relativa al propensity score è che l’insieme di covariate può spiegare il trattamento, cioè l’aver partecipato o meno a un percorso di mobilità studentesca (International mobility). Inoltre, l’abbinamento effettuato tramite il comando p-score (Becker e Ichino 2002) richiede anche che gli individui trattati abbiano un corrispondente controfattuale con un propensity score simile (proprietà di bilanciamento). Se l’ipotesi di bilanciamento è soddisfatta, le osservazioni con lo stesso propensity score devono avere la stessa distribuzione di caratteristiche osservabili e non osservabili, indipendentemente dal trattamento. Per un dato propensity score, l’esposizione al trattamento è random e trattati e controlli dovrebbero essere in media identici.

9

Lo score è ottenibile implementando un modello di regressione logistica e comprime lo spazio multidimensionale delle covariate pre-trattamento in un vettore monodimensionale. Il bilanciamento sulle caratteristiche pre-trattamento si realizza sulla base del propensity score piuttosto che sulla base delle singole covariate, come sarebbe stato nel caso del matching statistico.

10

Il gruppo scientifico è stato unito per problemi di bilanciamento (chimica, biologia e farmacia).

11

Con il metodo del Nearest-Neighbor matching a ogni individuo appartenente al gruppo dei trattati viene abbinato almeno un controllo. Nel caso in cui la distanza tra trattati e controlli fosse elevata questo porterebbe a differenze tra trattati e controlli e quindi ad abbinamenti di scarsa qualità. L’altro metodo utilizzato è il Kernel matching: a ogni individuo  trattato sono abbinati gli individui non trattati, pesati in modo inversamente proporzionale alla distanza del loro propensity score da quello dell’unità trattata. Ultimo metodo utilizzato è lo Stratification matching che consente di suddividere il campo di variazione del propensity score in intervalli (o strati) tali che, all’interno di ciascun intervallo, le unità trattate e le unità non trattate presentino lo stesso valore medio del propensity score. Non potendo definire a priori quale metodo sia il più attendibile, si è scelto di stimare l’ATT con tutti i metodi succitati (Martini e Sisti 2009).

12

Sono stati aggiunti solo tre test di bilanciamento relativi al metodo Nearest-Neighbor. I test relativi ai metodi Kernel e Stratification non sono stati inclusi per problemi di spazio.

13

Nei processi di migrazione s’intende con il termine push factors: fattori di espulsione che spingono l’individuo o il gruppo a migrare. Pull factors sono i fattori di attrazione che spingono l’individuo o il gruppo a spostarsi. Il tema è trattato nel contributo di Capparucci e Giffoni (2010).