1. Introduzione
In questo articolo con ‘crisi economica’ intendiamo “una situazione protratta nel tempo e caratterizzata da instabilità dei mercati, bassa crescita, declino nel prodotto interno lordo, crescente disoccupazione” (Morlino e Raniolo 2018, 18 e ss.). In questo senso, le “crisi economiche internazionali [sono] delle rotture e riorganizzazioni rilevanti del sistema produttivo e dei mercati” (De Sousa et al. 2014, 1518). Tuttavia, al di là delle statistiche macroeconomiche, la crisi, iniziata nel 2008, è considerata una delle più gravi dell’ultimo secolo e ha caratteristiche che l’avvicinano a quella del ’29, oltre a diversi, cruciali aspetti da ricordare.
Anzitutto la durata temporale. Si tratta di una situazione che si è protratta per almeno sette anni, dal 2008 al 2014, ma non mancano letture più preoccupate che, partendo anche dalla bassa capacità di crescita delle economie avanzate, ne scorgono l’onda lunga fino alla fine di questo decennio. Di qui, l’uso corrente dell’espressione ‘Grande Recessione’, o anche di ‘stagnazione permanente’, o ancora ‘curva di crescita a L’, cioè declino con crescita a livelli bassissimi e senza ripresa.
Quindi, la capacità e velocità di mutazione della sua natura e impatto, scaturita dalle bolle speculative del mercato immobiliare statunitense – considerando come evento simbolico il fallimento nel 2008 della Lehman Brothers, una storica ed enorme società statunitense di servizi finanziari – ha contagiato il settore produttivo e dell’economia reale e si è riverberata nella cosiddetta crisi dei debiti sovrani.
Una terza caratteristica è la sua velocità di propagazione spaziale. In un’era di globalizzazione, l’impatto della crisi si è fatto sentire subito in Europa, ma in maniera selettiva. In effetti, non solo la Grecia, ma anche tutti gli altri Paesi del Sud Europa sono stati profondamente interessati, mentre i Paesi dell’Europa dell’Est, come la Polonia e la Repubblica Ceca, hanno subito minori contraccolpi. In questo senso la crisi non si presenta come ‘globale’, anche se ha interessato ampie regioni geo-politiche ed economiche.
Ne deriva che un ulteriore aspetto della crisi è la sua intensità asimmetrica, non solo l’impatto della crisi è stato differenziato tra i diversi Paesi dell’UE, ma anche all’interno dei singoli Paesi i gruppi sociali e i territori sono stati colpiti selettivamente, questo è ad esempio il caso delle regioni del Mezzogiorno italiano con il conseguente allargamento del divario Nord-Sud, mai così profondo dagli anni Cinquanta del Novecento. Mentre, come vedremo, guardando ai gruppi sociali, è proprio il caso dei giovani e, in generale, delle cosiddette quote deboli del mercato del lavoro, si pensi anche alle donne, che ne pagano i costi più alti.
In questa prospettiva ancora un aspetto piuttosto drammatico è costituito dagli effetti disintegrativi conseguenti. La crisi ha minacciato non solo l’integrazione sistemica (tenuta dei sistemi bancari e produttivi, dello Stato sociale e del sistema di finanza pubblica in generale), ma anche l’integrazione sociale, la coesione delle comunità di riferimento[1], come è evidenziato dalla crescita di diversi indicatori sociali negativi – anomici, per ricordare Durkeim – a partire proprio dai tassi di suicidi e dalla diffusione di un senso di insicurezza sociale e di paura. Tali esiti, però, non sono stati solo il prodotto diretto della crisi, ma riflettevano anche una sorta di legacy sistemica. Infatti, sono stati tanto più intensi quanto più il sistema-paese bersaglio – ad esempio l’Italia[2] – si trovava in condizioni di debolezza cronica, con divari strutturali interni che hanno reso esiziali gli effetti della crisi. Inoltre, l’aver smantellato o ridimensionato le misure di protezione sociale e i processi di ristrutturazione del mercato del lavoro in senso più ‘liberista’ ha reso la gestione della crisi più difficile con ulteriori effetti perversi. Ad esempio, con la precarizzazione delle posizioni lavorative. Peraltro, il management della crisi e gli indirizzi di politica monetaria e di bilancio indotti dall’UE sono fortemente condizionati dalla path dependence (negativa) dei diversi Paesi.
Partendo da queste considerazioni, nel secondo paragrafo ci soffermeremo ancora sul rapporto tra diseguaglianza e crisi. Nel terzo paragrafo, invece, concentreremo l’attenzione sulla condizione giovanile e sul peso della diseguaglianza intergenerazionale nelle principali forme assunte nel contesto sociale ed economico, europeo e nazionale. Nel quarto paragrafo, poi, cercheremo di valutare gli effetti più direttamente politici di quella diseguaglianza per giungere a delle brevi conclusioni nel paragrafo quinto.
2. Crisi economica e diseguaglianza generazionale sono connessi?
Prima di andare avanti occorre affrontare due questioni. Quale è, se c’è, il nesso tra crisi economica e diseguaglianza? E quale o quali tipi di diseguaglianza sono rilevanti per la nostra analisi?
Quanto al primo interrogativo, è opportuno introdurre una diversa prospettiva di analisi della crisi. In breve, “le crisi aprono il sistema di relazioni” sociali e politiche (Gourevitch 1986, 21) e costituiscono un crinale o punto di svolta sistemico che mette in gioco vincoli e possibilità. In questo modo creano una finestra di opportunità per l’innovazione sistemica e l’abbassamento delle barriere di ingresso, il che favorisce l’avvento di outsiders – un aspetto centrale specie dal punto di vista politico. A questo proposito si è parlato anche di “giunture critiche”, intese come “periodi di tempo relativamente brevi durante i quali vi è una possibilità notevolmente accresciuta che le scelte degli agenti influenzino l’esito in questione” (Capoccia e Keleman 2007, 348). La crisi economica agisce, quindi, come un meccanismo di selezione e ripartizione inversa della ricchezza tra i gruppi sociali, cosicché la distanza tra quelli che hanno beneficiato della crisi (gli insiders) e quelli che ne pagano i costi (gli outsiders) si è ampliata (Kriesi et al. 2006; Gallino 2013). In questo modo finisce per cronicizzare e amplificare asimmetrie e diseguaglianze interne (ai singoli Paesi) ed esterne (tra Paesi).
Come è noto, la crescita delle diseguaglianze nelle società avanzate è una dinamica strutturale di lungo periodo. In generale, possiamo considerare la diseguaglianza come un processo sociale per cui individui, gruppi e comunità non hanno eguale accesso alle principali ricompense (e/o valori) sociali o chance di vita[3]. Questa definizione diventa, però, poco utile se non la caliamo nel contesto delle trasformazioni del capitalismo e delle nostre società globalizzate nel passaggio dal XX al XXI secolo. Apertura dei mercati, finanziarizzazione dell’economia, delocalizzazioni, rivoluzione digitale hanno trasformato significativamente le istituzioni (sociali, politiche ed economiche) della società occidentale (Russo 2019). A partire dal compromesso tra capitale e lavoro ad esse sotteso dal secondo dopoguerra. La celebre “curva dell’elefante” di Branko Milanovic (2017) è stata uno strumento, spesso frainteso, che ha avuto notevole successo nel descrivere gli effetti della globalizzazione sulla diseguaglianza mondiale, con la conseguente polarizzazione della ricchezza e il declino dei ceti medi, compressi tra l’1% dei super ricchi e i gruppi emergenti e migranti dei Paesi nuovi che ne minacciano la percezione di sicurezza – offrendo formidabili chance di rappresentanza e di successo ai cosiddetti ‘imprenditori della paura’.
Peraltro, all’interno delle nostre democrazie la crisi dei bilanci pubblici, la restrizione del welfare, la riduzione dei diritti dei lavoratori, le privatizzazioni hanno finito per aumentare ulteriormente le diseguaglianze tra gli individui così come tra i gruppi sociali, specie con riferimento alle condizioni di lavoro, età e genere. Ciò ha divaricato il rapporto tra crescita, coesione sociale e libertà finendo per costituire un problema di policy irrisolvibile, come la famosa ‘quadratura del cerchio’ di cui tratta Dahrendorf (2009). Dunque, la connessione tra crisi economica e diseguaglianza intergenerazionale esiste, anche se è indiretta e diversificata a seconda dei casi.
3. Quale diseguaglianza?
Come è noto dall’ampia letteratura sul tema, l’eguaglianza è un concetto complesso e multidimensionale. In un lavoro di prossima pubblicazione (vedi Morlino et al. 2019, cap. 2), per poterlo operazionalizzare più efficacemente lo abbiamo semplificato scomponendolo in tre dimensioni principali: la diseguaglianza economica, etnica e sociale, con l’ultima connessa con le politiche di protezione dai rischi sociali. Per quanto queste tre siano le componenti più visibili e rilevanti, ovviamente ne esistono altre, basti pensare alla diseguaglianza di genere o, appunto, a quella generazionale che qui ci interessa direttamente con profili che si intersecano e sovrappongono con le prime tre.
Nel caso della diseguaglianza intergenerazionale, l’accesso asimmetrico alle ricompense/valori sociali caratterizza con continuità e significatività i giovani, che nella maggioranza delle indagini sono compresi tra i 16 e i 34 anni. Nella sua complessità analitica, tale concetto rimanda a diverse definizioni operative. Tra queste, quella di gap generazionale coglie un profilo più culturale e soggettivo e fa riferimento alla differenza di percezioni (o di opinioni) tra giovani e adulti. Si pensi, ad esempio, alla nota distinzione di Inglehart (1977) tra cultura materialista, appannaggio degli adulti, e una cultura post-materialista, tipica delle coorti più giovani[4]. Una seconda definizione, con una forte valenza normativa, è quella di equità intergenerazionale, che rimanda al livello di giustizia ed equità tra generazioni diverse in un dato periodo di tempo. Infine, una definizione molto utile sul piano empirico è quella di divario generazionale, che si avvicina molto al concetto di stratificazione e coglie il ritardo accumulato dalle nuove generazioni rispetto alle precedenti nel perseguimento della loro autonomia[5].
Qui intendiamo la diseguaglianza generazionale con riferimento ai divari che ostacolano e si frappongono al raggiungimento di pari ‘chance di vita’ per i giovani, sia nell’ambito di una generazione che di due generazioni contigue. Nello specifico, con una certa semplificazione rispetto a indici più compositi, consideriamo come indicatori di diseguaglianza generazionale più significativi: la disoccupazione giovanile, l’incidenza dei cosiddetti Neet[6], il rischio di povertà.
Se consideriamo l’andamento della disoccupazione giovanile come uno dei principali indicatori del gap intergenerazionale, tanto più in un contesto di crisi/recessione, il grafico 1 mostra come in Italia la disoccupazione giovanile, oltre a quella femminile, costituisce un dato strutturale della nostra economia e in questo senso ne rappresenta una intrinseca debolezza, peraltro condivisa con le altre società del Sud Europa, Spagna in particolare. In quanto dato strutturale, precede la crisi economica del 2008, anzi la condiziona, come del resto tutti gli altri deficit di sistema (dalla scarsa produttività e competitività internazionale delle imprese, all’incidenza del debito pubblico e ancora all’inefficienza dell’amministrazione pubblica). Così, nel 2017 il livello di disoccupazione giovanile in Europa si muove nell’ambito di variazione definito tra i due valori estremi della Germania (6,8%) e della Grecia (43,6%), con l’Italia che si colloca al terzultimo posto con il 34,7%, preceduta dalla Spagna al 38,6%.
Grafico 1 Confronto tra disoccupazione (TD) e disoccupazione giovanile (TDG) in Italia (2004-2018)
Fonte: Rapporto BES, appendice statistica; https://www.istat.it/it/archivio/224669
Il 2008 costituisce effettivamente un turning point, come per altri indicatori macroeconomici quali l’andamento del PIL o del debito pubblico, e in questo senso coglie anche una delle accezioni della stessa nozione di crisi – come crinale o passaggio critico. Tuttavia, come emerge dall’andamento delle due curve, la crisi agisce da amplificatore dei divari tre le due curve di disoccupazione che si allontanano con crescente intensità, al punto che al loro apice nel 2014 (ben sette anni dopo l’inizio della crisi) il differenziale tra la disoccupazione totale e quella giovanile è di ben 30 punti percentuali – contro i circa 15 punti del 2004 o i 14 del 2008. Nel 2018 lo scarto resta ancora superiore ai 20 punti.
Viene così data ampia evidenza empirica all’effetto delle crisi come meccanismo di redistribuzione inversa dei costi e benefici sociali, per cui chi si trova in condizioni svantaggiate paga i maggiori costi dei processi di disintegrazione e ristrutturazione del sistema economico e produttivo. In un certo senso, potremmo dire che la logica pressante della crisi nelle società del turbo-capitalismo diventa ‘a chi si sottrae che cosa, come e quando’. Il gap evidenziato dal grafico 1 indica che i giovani sono uno dei gruppi situazionali più colpiti dalla Grande Recessione.
Tali considerazioni trovano ulteriori evidenze empiriche quando dal dato aggregato nazionale si passa a guardare gli andamenti regionali della disoccupazione che mostrano come la differenziazione territoriale del fenomeno consegni un’immagine drammatica della ‘trappola della marginalità’ che ripropone ancora una volta il cronico dualismo Nord-Sud. Nel 2018 forti differenze persistono ancora nel tasso di disoccupazione con il valore del Mezzogiorno che supera di oltre tre volte quello del Nord-Est. Nonostante il calo dell’indicatore rispetto al passato, la disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno cresce in Sicilia e Basilicata, ma anche al Centro in Umbria e nel Nord in Liguria e Veneto. Il tasso di disoccupazione giovanile è pari a oltre il 53% in Campania, Sicilia e Calabria, contro il 12% del Trentino o il 18% dell’Emilia-Romagna (per indicare le due situazioni polari). Inoltre, si consideri che all’inizio della crisi (2008) le quattro regioni dove si concentrava la più intensa disoccupazione giovanile erano Sicilia, Sardegna, Basilicata e Calabria con un campo di variazione che andava rispettivamente dal 39% a poco meno del 35% – ben al di sotto comunque della soglia record dei 50 punti percentuali. Quindi, ancora una volta i ritardi strutturali vengono nettamente amplificati dalla crisi. In un certo senso, la crisi sembra delineare una transizione dai ‘divari’ territoriali alla ‘deriva’ dei territori, ma anche di gruppi e segmenti sociali. Con una singolare qualità emergente – perversa, nel senso di Boudon – per cui deficit e debolezze strutturali e congiunturali si rafforzano creando veri e propri buchi neri nella garanzia dei diritti di cittadinanza, nelle chance di vita delle donne e uomini, specie in giovane età, che vivono nel Meridione. Un interessante esempio di Stato di diritto differenziato (questo sì) e di cittadinanza asimmetrica.
Il secondo indicatore da considerare è quello relativo ai Neet, ai giovani che non studiano, non lavorano e non sono coinvolti in programmi di formazione (grafico 2). Com’è noto, il fenomeno è variegato e riguarda i giovanissimi che hanno terminato la scuola dell’obbligo e che non continuano negli studi e che magari lavorano in nero, i diplomati scoraggiati che non riescono a trovare lavoro e, anche, i laureati che non riescono a trovare occupazione perché le loro competenze risultano non adeguate rispetto alle domande delle imprese. Come vedremo, però, un aspetto rilevante è dato dalla segmentazione del mercato del lavoro. Questo indicatore (noto anche come né…né) è rilevante perché, da un lato, coglie un ulteriore aspetto della diseguaglianza, la deprivazione culturale e formativa che in economie avanzate ad alto tasso di innovazione tecnologica e digitale costituisce uno dei principali ostacoli per l’inserimento nel mercato del lavoro. Ma ci dice molto anche sulle trappole della diseguaglianza di individui e gruppi che sono sia deprivati materialmente che culturalmente[7].
Grafico 2 Andamento del fenomeno Neet (2004-2018)
Fonte: Rapporto BES, appendice statistica; https://www.istat.it/it/archivio/224669
Inoltre, come emerge chiaramente dal grafico 2, questo divario ha una forte componente territoriale. I dati sono eloquenti. Non solo il fenomeno cresce in tutto il Paese proprio a partire dalla crisi del 2008, ma ripropone drammaticamente il dualismo Nord-Sud. La media nazionale di periodo è, infatti, 22%, ma balza al 32% se si guarda al Sud, contro il 18% del Centro e il 15% del Nord. Con una tendenza negli anni più vicini comunque in crescita ancora nel Mezzogiorno (il dato per il 2018 è 34,4%). Peraltro, i dati sui Neet differenziano l’Italia e, in genere, il Sud Europa rispetto al resto dell’Europa, delineando una netta geografia della diseguaglianza tra Paesi e soprattutto tra regioni all’interno dell’Europa. Anzi i dati macroeconomici mettono in evidenza che, dopo il 2008 e soprattutto dopo la crisi dell’euro del 2011, la convergenza tra Paesi all’interno dell’Europa sembra riprendere la marcia, ma con una certa asimmetria. Nel complesso, dopo l’allargamento dell’UE nel 2004 e nel 2007, cresce molto l’Europa dell’Est, anche a seguito dei processi di riorganizzazione dell’industria, in particolare tedesca. Per contro, cresce poco l’Europa meridionale. Ma soprattutto si allargano le divergenze tra le regioni interne ai Paesi – tra queste, una delle aree più critiche è proprio il Sud d’Italia. Per di più, gli sviluppi tecnologici e quelli propri dell’integrazione internazionale accentuano la crisi di vecchie aree industriali, frenando la crescita delle regioni deboli. Ne conseguono numerosi effetti negativi a cascata sulle diseguaglianze, tanto più tra i gruppi situazionali più deboli: giovani e donne. Nel caso dei primi, poi, lo scenario è reso più drammatico dal progressivo invecchiamento della popolazione. Non solo, quindi, abbiamo meno giovani, ma questi sono maggiormente deprivati sia economicamente che culturalmente.
Pur con alcune differenze rispetto agli altri due, il terzo indicatore che ci sembra utile prendere in considerazione è dato dal rischio povertà, ovvero la percentuale di persone con un reddito equivalente (cioè il reddito delle famiglie normalizzato con riferimento alla diversa ampiezza e composizione) inferiore o pari al 60% del reddito equivalente mediano sul totale delle persone residenti (secondo la definizione dell’Istat). In senso lato, si tratta di una misura del grado di vulnerabilità sociale degli individui e delle famiglie. Come si vede dalla tabella 1, nell’insieme il rischio di povertà è cresciuto nel periodo preso in esame sia pure di appena 1 punto (da circa il 19 a poco oltre il 20%). Tuttavia, se disaggreghiamo i dati per fasce di età troviamo che il rischio di deprivazione materiale tende a polarizzarsi sulle classi dei più giovani e dei più anziani, ma soprattutto è nelle classi di età comprese tra ‘0 e i 17 anni’ e quella successiva dei ‘18-24 anni’ che mostra la maggiore rilevanza. è più elevato e cresce maggiormente con livelli che, per entrambe le classi, negli ultimi dieci anni si approssimano o superano i 26 punti percentuali. Insomma, i più giovani sono anche la componente della popolazione più vulnerabile ai cambiamenti sociali – in questo caso la crisi non accentua il fenomeno, ma ne spinge in avanti la crescita. Le fasce di età intermedie sono quelle più al riparo dal rischio di povertà, specie quelle comprese tra i 55 e i 64 anni. Inoltre, come atteso, tale rischio è comparativamente più marcato al Sud rispetto al resto d’Italia. Con una media di periodo nazionale pari al 10,4%, e con un differenziale territoriale che va dal 33,4% del Sud, al 14,5% del Centro e, per finire, al 10,8% del Nord. Se dalla valutazione rischio passiamo alle condizioni oggettive di povertà, dopo un periodo di stasi, la povertà assoluta cresce soprattutto dopo il 2011, per raggiungere livelli a due cifre negli anni più vicini proprio con riferimento ai gruppi situazionali dei giovani: negli anni 2016 e 2017 si registrano circa il 12%, per la classe di età ‘fino ai 17 anni’ e 10 punti percentuali per il gruppo ‘18-34 anni’. L’incidenza percentuale della povertà assoluta riguarda circa il 7,5% nella classe d’età ‘34-64 anni’, ed è a meno di 4 punti per chi ha oltre 64 anni.
Tabella 1 Persone a rischio di povertà per sesso e classe di età (2003-2016) (%)
Fonte: Rapporto BES, appendice statistica; https://www.istat.it/it/archivio/224669
Tiriamo brevemente le fila. I dati confermano che l’aumento della ricchezza negli ultimi decenni è stato concentrato fra le persone di almeno 50 anni. Tutti gli altri gruppi di età hanno visto la propria ricchezza diminuire o stagnare. E il problema si va aggravando: pur essendo in numero minore rispetto alle generazioni passate, i giovani e le giovani oggi hanno sempre più difficoltà ad accumulare ricchezza nel corso della vita. Inoltre, uno sguardo sintetico all’andamento dell’indice del divario generazionale, prima citato (vedi nota 5), è utile per avere un’idea dell’andamento del fenomeno nel prossimo futuro e di come questo possa costituire una base oggettiva che dà salienza al cleavage generazionale (si veda il grafico 3)[8]. Infine, si può notare il paradosso che emerge da questo quadro: la maggiore diseguaglianza generale attenua la diseguaglianza giovanile solo in quanto “nelle opportunità di vita di una giovane o un giovane cresce l’importanza della ricchezza famigliare nell’avviare la vita adulta” (Forum Disuguaglianza Diversità 2019, 143-144). In altre parole, il divario generazionale è contrastato dall’aiuto familiare solo per i giovani delle famiglie ricche o benestanti.
Grafico 3 Indice del divario generazionale
Fonte: Fondazione Visentini (2019, 9)
4. Quali conseguenze politiche?
La domanda successiva e ovvia è se il divario generazionale si riflette in un comportamento politico dei giovani difforme da quello dei cittadini più anziani. Ovvero se gli aspetti oggettivi si traducono in comportamenti soggettivi conseguenti. In questa prospettiva, il cleavage generazionale sta diventando la nuova frattura fondamentale delle democrazie occidentali?
Il primo passo da fare è controllare se vi sono dati di sondaggio che consentono di vedere immediatamente queste differenze a proposito di diversa fiducia delle classi più anziane di età rispetto ai più giovani verso le diverse istituzioni e i partiti. Ma in Italia, come si può vedere da diversi dati che vanno indietro nel tempo anche di diversi decenni, il fenomeno della sfiducia è generalizzato e accentuato al più che è presente in tutte le classi di età. Si vedano ad esempio i dati del Rapporto BES, già citato sopra. Ed è ben noto ed evidenziato nella letteratura che, quando una tendenza è netta e accentuata, le differenze culturali e sociali classiche, quali età, reddito, istruzione, genere, non emergono. Occorre, quindi, seguire un’altra strada che punti a rilevare direttamente il comportamento giovanile, quando è possibile farlo.
A questo proposito, si può partire dall’ipotesi che le diseguaglianze, anche quelle generazionali, si riflettono in politica secondo tre modalità distinte, anche se non necessariamente alternative, che riprendono con una certa libertà la nota categorizzazione di Hirschman (2017). Così, i giovani più degli altri cittadini (a) si astengono dal voto e non scelgono neanche tutte le diverse altre forme di partecipazione politica tradizionale, quali militanza, iscrizione ai partiti, identificazione (alienazione); (b) scelgono di impegnarsi politicamente, ma rifiutano l’adesione ai partiti tradizionali, rappresentativi delle principali famiglie politiche storiche, e si avvicinano ai nuovi partiti di protesta, o neopopulisti (lealtà sfidante); (c) si impegnano politicamente, ma preferiscono la partecipazione non convenzionale, ovvero la protesta sociale in forme più o meno strutturate e continuative, talvolta semplicemente come disponibilità latente a forme di opposizione sociale qualora se ne presentino le occasioni (anche nella forma di coinvolgimento in flash mob o nei Fridays future per il clima ispirati da Greta Thunberg) (voice non convenzionale). Vediamo queste tre diverse forme di canalizzazione soggettiva del ‘disagio giovanile’.
Iniziamo da questa terza forma, protesta o voice non convenzionale. Il nuovo “ciclo di protesta globale” (Krastev 2014) diretta contro i governi, che ha investito gli Stati Uniti e l’America Latina, passando per l’Europa e il Nord Africa, fino ad arrivare a Hong Kong “ha una base più giovane e istruita e i partecipanti sono più propensi ad identificarsi con la classe media” (Vandaele 2016, 289). In particolare, “la ricerca empirica ha individuato nel precariato – prevalentemente giovani disoccupati o sotto-occupati – la principale base delle recenti mobilitazioni” (Della Porta 2015, 51). I giovani, spesso ben istruiti, disoccupati, o i lavoratori precari “si incontrano, nelle strade con altri gruppi sociali, specialmente con quelli più colpiti dalle politiche di austerità. Infatti, le proteste anti-austerità hanno mobilitato coalizioni di diversi gruppi: giovani, classe media, membri delle nuove classi di lavoratori della cultura, i disoccupati” (Della Porta 2015, 52).
Tale fenomeno, però, è stato poco diffuso in Italia durante la Grande Recessione e dopo (vedi Morlino e Raniolo 2018, 161-169). A differenza che in altri Paesi, la presenza da tempo di un’insoddisfazione diffusa insieme alle forti tradizioni partitiche hanno bloccato l’emergere e lo sviluppo dei movimenti sociali, e la protesta è stata subito incanalata in nuovi partiti, come il Movimento 5 Stelle (M5S), o in partiti già esistenti, ma che hanno cambiato nettamente i propri caratteri organizzativi e i propri programmi, come ha fatto la Lega con Salvini.
Occorre, dunque, guardare alla seconda modalità ovvero alla lealtà sfidante. I diversi autori che si sono occupati del principale partito di protesta, che nelle elezioni del 2018 ha avuto la maggioranza relativa dei voti, hanno tutti messo in evidenza la presenza del voto giovanile per il M5S. Come riassume Vittori (2019, 155), “A due anni dalla sua fondazione, il M5S risulta sovra rappresentato nella classe d’età 26-35 anni e sottorappresentato tra gli over 65, mentre nella primavera del 2012 la sovra rappresentazione più alta viene riscontrata nella classe di età 36-45 […] il M5S cresce esponenzialmente nella classe d’età 18-24 (salvo durante la parentesi renziana), ma non riesce mai a sfondare tra i più adulti, dove il suo consenso rimane confinato rispetto ai partiti tradizionali. Questa tendenza sembra essere valida anche per le elezioni del 2018, dove il consenso tra i più giovani e tra gli elettori di mezza età è di gran lunga superiore agli altri partiti, al contrario invece della classe d’età più adulta”. Anche Maraffi (2018) conferma questo dato: il M5S è il partito più votato nella fascia di età 18-24 anni (24,5%) e ancora di più tra i 25-34enni (40,3%). L’ovvia conclusione che il voto giovanile abbia preferito i partiti di protesta non è ovviamente sorprendente. Tuttavia, da questa considerazione solo indirettamente si può ricavare che questo voto rifletta l’insoddisfazione per il crescente divario generazionale. Anche altri fattori possono spiegare quel voto, dalla semplice ricerca del nuovo alle modalità più moderne con cui il M5S ha fatto campagne più vicine alla comunicazione giovanile.
Infine, la terza modalità, l’alienazione, che si manifesta innanzi tutto nell’astensione elettorale. A questo proposito, gli studi elettorali hanno messo in risalto diversi aspetti. In primis, l’intreccio tra voice ed exit, ovvero come in particolare nel 2018 “il populismo abbia rappresentato […] un fattore di forte mobilitazione capace di spingere elettori incerti a votare (per partiti di protesta) invece che ad astenersi” ovvero che “la smobilitazione elettorale sia stata frenata dal voto di protesta” (Tuorto 2019, 125). Inoltre, vi sono due tipi di effetto dell’età sulle scelte di voto (cfr. Maggini 2018): il più tradizionale effetto ciclo di vita, per cui le persone cambiano comportamento a seconda della fase della vita in cui si trovano, con i giovani solitamente con opinioni politiche più radicali rispetto alle persone più anziane; e l’effetto generazione, per cui le persone di una stessa coorte di età sono influenzate (in maniera stabile nel tempo) nei propri comportamenti politico-elettorali dal periodo storico in cui sono state socializzate alla politica (vedi anche Franklin 2004). Ciò è proprio quanto succede quando le generazioni che sono cresciute politicamente in un clima di incertezza sociale, come quello degli anni Ottanta e Novanta, e sono quindi più distaccate dalla politica, hanno preso il posto delle generazioni precedenti la cui socializzazione è avvenuta durante gli anni di crescita economica e l’alta affluenza alle urne. Peraltro, la bassa affluenza alle urne è un fenomeno che è sempre esistito tra i giovani in quanto di solito sono meno socializzati alla politica rispetto ad altre fasce di età (van der Eijk e Franklin 2009).
A questi due classici effetti se ne può aggiungere un terzo relativo al fatto che “è importante capire le intenzioni di voto dei giovani che secondo molte ricerche sono uno dei segmenti sociali più mobili dal punto di vista elettorale e anche più propensi all’astensione” (Maggini 2016, 51). Ne consegue che, se gli elettori più anziani esprimono un voto più stabile, sono i giovani a costituire un elettorato ‘disponibile’ a esplorare nuove alternative politiche, o anche forme di astensionismo intermittente, e quindi cruciale per determinare chi vince e chi perde.
Coerentemente con queste osservazioni, la tabella 2 mostra quell’astensione soprattutto nelle elezioni del 2018, meno evidente nelle elezioni precedenti a confermare la mobilità sopra evidenziata. Di nuovo, tuttavia, vi è il problema di collegare questo comportamento alienato al divario generazionale. Per le elezioni tra il 2008 e il 2018, Tuorto (2019, 119) evidenzia anche la connessione con la disoccupazione, che come abbiamo visto sopra è maggiore tra i giovani, e con l’essere meridionali, dove si è visto anche un forte voto giovanile per il M5S. Dunque, se è ragionevole ipotizzare una connessione, da una parte, non è dimostrabile statisticamente in modo stringente e, dall’altra, fa parte di un fenomeno composito di emarginazione in cui rimane la scelta dei tre canali, movimenti sociali, voto di protesta, alienazione. Deve, dunque, rimanere una ragionevole ipotesi che si basa soprattutto sulla crescita dell’astensione, e non sul fatto stesso di astenersi.
Tabella 2 Incidenza dell’astensione per classi di età
Fonte: Sondaggi diversi, Itanes
5. Note conclusive
Il divario generazionale è ormai una realtà presente nelle nostre società. E, oltre che dalle analisi e considerazioni proposte sopra, è confermato dalla ridotta mobilità sociale, anch’essa un dato contemporaneo rilevante (Forum Disuguaglianze Diversità 2019, 152 e 154). Che la crescita di questo fenomeno si possa collegare anche alla Grande Depressione è anche questa un’affermazione convincente. I problemi iniziano quando tentiamo di collegare, come suggerirebbe il senso comune, questo fenomeno a possibili atteggiamenti o comportamenti politici.
Infatti, da una parte, sulla base dei dati di sondaggio esistenti, non solo sull’Italia, l’analisi degli atteggiamenti non consente di rilevare né un maggiore scontento giovanile, né un’esplicita connessione con il divario intergenerazionale, anche se potrebbe essere possibile che un sondaggio focalizzato su questo tema possa fare emergere quella relazione. Dall’altra parte, la connessione tra divario generazionale e i diversi possibili comportamenti probabilmente esiste, ma anche questa non è dimostrabile in modo empiricamente solido. Infatti, la prima modalità indicata ovvero la partecipazione non convenzionale, propria dei movimenti di protesta, vede un coinvolgimento giovanile nettamente più accentuato, anche se in Italia per ragioni diverse non ha avuto molto spazio. Però, il divario generazionale sembra solo una delle componenti del coinvolgimento dei giovani nei movimenti di protesta. Lo stesso si può dire sia per la lealtà sfidante, che vede i giovani in prima linea nel votare partiti di protesta, che per l’alienazione, un comportamento tenuto dai giovani anche negli anni della Grande Recessione. Si aggiunga a questo la dimostrata volatilità, ovvero l’incostanza degli atteggiamenti politici giovanili, per concludere riconoscendo sia i profondi limiti della nostra capacità di conoscere anche questi fenomeni sociali, sia la complessità delle realtà di cui vorremmo sapere di più.
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