SINAPPSI

2019/3

Come tutte le sfide che riguardano il lungo periodo e che si muovono a sviluppo lento, anche il divario fra generazioni fa molta fatica a trovare spazio nelle agende dei governi. Anche se le sue politiche di consolidamento fiscale non hanno certo brillato sul fronte dell’equità, l’Unione europea ha il merito di aver attirato l’attenzione su questo versante. La strategia dell’investimento sociale (che ha trovato negli ultimi tempi una nuova strumentazione basata sulle garanzie sociali) ha costituito e a tutt’oggi costituisce un serio tentativo di ridefinire il dibattito sulle diseguaglianze e la mobilità sociale e di riorientare le politiche di spesa dei governi.

Like all challenges that concern the long term and that move slowly, the gap between the generations rarely finds a place on governments’ agendas. Although the European Union’s fiscal consolidation policies have shown little regard for equity, at least they have the merit of having attracted attention on this front. The strategy of social investment (which has recently found a new instrument based on social guarantees) has constituted and continues to constitute a serious attempt to redefine the debate on inequality and social mobility and to reorient government spending policies. 

1. Introduzione

Nell’ultimo decennio di crisi economica, il divario intergenerazionale di reddito e ricchezza è aumentato nella maggioranza dei Paesi UE. I giovani sono diventati significativamente più poveri, mentre la povertà tra i pensionati è un po’ diminuita. Anche la disoccupazione tra i minori di 25 anni è aumentata, più di quella dei lavoratori anziani (di età compresa tra 50 e 64 anni). Questa condizione è stata particolarmente pronunciata nei Paesi del Sud Europa.

In buona misura, la crescita del divario è legata al ciclo recessivo e alle politiche macro-economiche adottate per fronteggiarlo. La disoccupazione giovanile tende sempre ad aumentare più della disoccupazione totale durante le recessioni. Le politiche di consolidamento fiscale hanno dal canto loro teso a penalizzare i settori di spesa destinati ai giovani (ad esempio le spese per l’istruzione).

Il divario fra generazioni era però già evidente prima della crisi, sulla scia di tendenze già in atto da qualche decennio. Le diseguaglianze sono state amplificate dal fatto che, nel tempo, il tasso di rendimento degli investimenti è aumentato più del tasso di crescita dell’economia (peraltro sempre più rallentato dall’invecchiamento demografico). Inoltre, si sono arrestate quelle dinamiche di mobilità sociale che, grazie al Welfare State e ai sistemi di istruzione, avevano consentito nella seconda metà del secolo scorso di attenuare il peso della provenienza di classe e dunque la trasmissione intergenerazionale dello svantaggio (Piketty 2014; Atkinson 2015).

Gli squilibri distributivi fra generazioni fanno fatica a entrare nell’agenda dei governi. La democrazia basata su elezioni e partiti ha tanti meriti, ma fatica a gestire il lungo periodo. In particolare, tende a ignorare le sfide ‘a sviluppo lento’, come, appunto, il divario fra generazioni. Affrontare queste sfide significa infatti imporre qualche perdita nel breve periodo in nome di benefici nel lungo. A dispetto di questo ostacolo, connaturato al funzionamento della democrazia in quanto tale, vari Paesi hanno iniziato a porsi il problema nel quadro della più ampia sfida della sostenibilità. È stata però soprattutto l’Unione europea a richiamare l’attenzione su questo fronte. Anche se non ha competenze dirette nel campo delle politiche economiche e soprattutto sociali, la UE (più precisamente, una ‘comunità epistemica’ trasversale fra Commissione e Parlamento) ha svolto un importante ruolo di stimolo, negli ultimi vent’anni, per dare visibilità alla sfida delle diseguaglianze intergenerazionali, per analizzarne cause e conseguenze, fare proposte e riorientare l’agenda politica dei Pae­si membri.

In questo contributo mi concentrerò essenzialmente sulle iniziative sovranazionali e più in generale sul paradigma interpretativo che le ha ispirate. Il cambiamento delle politiche pubbliche non è solo una questione di problemi, soluzioni e consenso, ma anche e soprattutto una questione di idee, di cornici descrittive e normative che ci guidano nel diagnosticare le sfide e identificare le possibili riforme. Nel prossimo paragrafo fornirò una breve panoramica della strategia dell’investimento sociale promossa dalla UE a partire dai primi anni Duemila. In quello successivo discuterò delle politiche di lotta alla povertà, anch’esse cruciali per ridurre le diseguaglianze e porre le basi per la mobilità sociale. Nel quarto paragrafo accennerò ad alcune nuove idee e proposte europee volte a superare i limiti mostrati dalle prime due strategie. La conclusione riassume.

2. La strategia dell’investimento sociale

Perché è diminuita la mobilità sociale, intesa come probabilità di avanzamento socio-economico fra classi sociali, fra una generazione e l’altra? Nei Paesi OCSE la mobilità sociale aveva fatto un significativo balzo in avanti fra gli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso, sulla scia della riorganizzazione dei sistemi educativi: innalzamento dell’obbligo, omogeneizzazione dei percorsi, diritto allo studio. Dagli anni Novanta in poi, l’effetto ‘livellatore’ dell’istruzione di massa ha però esaurito la sua spinta e si è tornati a bassi tassi di mobilità e a una crescente diseguaglianza. Il primo fattore è in buona misura causa del secondo. Ad esempio, la probabilità che un bambino nato da genitori nel quinto inferiore della distribuzione del reddito raggiunga il quinto superiore è molto più bassa in Gran Bretagna (9%) e Stati Uniti (7,5%) – due Paesi che sono diventati sempre più diseguali – piuttosto che in Canada (13,5%) e Danimarca (11,7%), due Paesi con una distribuzione del reddito fra le più egalitarie.

Alan Krueger ha chiamato la crescente relazione inversa tra diseguaglianza e mobilità ‘la curva del Grande Gatsby’ (Krueger 2012; Krugman 2012). Nel celebre romanzo di Fitzgerald il protagonista, nato in una povera famiglia di agricoltori nella prima metà del Novecento, diviene un capitano d’industria e realizza così il grande sogno americano. Il nome del Grande Gatsby è qui usato come sinonimo di quella mobilità ascendente che oggi è drasticamente diminuita. Bisogna peraltro tener conto che la mobilità sociale registra grandi variazioni territoriali anche all’interno dei singoli Paesi, in relazione alla incidenza e distribuzione dei vari colli di bottiglia posizionali. Negli Stati Uniti, le probabilità che i bambini del 20% più povero raggiungano nel corso della propria vita il tenore di vita del 20% più ricco sono molto più alte in località come San José, CA (12,9%) piuttosto che Chicago (6,5%) o peggio Memphis (2,6%). Un fenomeno simile caratterizza il nostro Paese, fra regioni del Nord e del Sud.

L’immobilità intergenerazionale è legata a una serie di meccanismi socialmente radicati capaci di autoalimentarsi. I bambini nati in famiglie a basso reddito tendono a soffrire di deprivazioni cognitive, derivate da stimoli intellettuali inadeguati tra 1 e 3 anni. Anche dopo i 3 anni, le preferenze, le credenze e gli atteggiamenti dei figli si adattano alle attese dei genitori. La trasmissione genetica gioca un ruolo, ma la letteratura fornisce ampie prove dell’importanza dell’ambiente infantile e gli shock economici possono avere sostanziali effetti di ricaduta intergenerazionale. Sembra esistere una forte continuità tra padri e figli quanto ai rischi sociali (come la disoccupazione, le malattie, le basse retribuzioni, la scarsa intensità di lavoro) che statisticamente sono correlati e che inducono e riproducono la povertà.

Il modello europeo di protezione sociale novecentesco non era attrezzato a intervenire su questo fronte. Nella seconda metà degli anni Novanta, l’OCSE iniziò a suggerire l’aggiunta di una ‘terza funzione’ a questo modello. Le due funzioni storiche erano tradizionalmente state: la protezione sociale (compensativa ex post) in senso stretto e la stabilizzazione macro-economica. La terza funzione doveva essere l’‘investimento sociale’: misure volte a prevenire rischi e bisogni invece di compensarli ex post e dunque capacitare le persone a ‘funzionare’ bene nel nuovo contesto economico e sociale caratterizzato da rapidi cambiamenti della costellazione di rischi e bisogni.

L’aggiunta della terza funzione costituiva una complessa sfida di ricalibratura per lo status quo, implicando cambiamenti lungo tre distinte dimensioni: funzionale (spostamento di risorse tra i diversi rischi del ciclo di vita); distributiva (le risorse si spostano tra gruppi sociali, comprese le generazioni e i generi); organizzativa (spostamento o ricombinazione di risorse fra livelli di governo e modalità di fornitura delle prestazioni).

Le raccomandazioni dell’OCSE ebbero immediata risonanza all’interno dei circoli UE, in particolare della Commissione europea. Il varo della Strategia per l’occupazione nel 1998 e del cosiddetto processo di inclusione sociale nel 2001 fu già in parte ispirato dall’approccio dell’investimento sociale. Sotto le presidenze portoghese (2000) e belga (2001) dell’UE, furono preparati importanti rapporti in cui si sottolineava l’importanza di ‘ricalibrare’ i tradizionali sistemi pubblici di protezione dando priorità alle politiche di sostegno e promozione delle donne e dei giovani e creando un ‘nuovo Welfare State’.

Quest’ultima espressione fu coniata da Gosta Esping Andersen in un libro del 2002 (Esping Andersen 2002). Il nuovo Welfare State avrebbe dovuto essere incentrato sulla prevenzione della povertà infantile e sulla lotta agli svantaggi sociali, in particolare a quelli che si trasmettono attraverso le generazioni. Esping Andersen fornì sia una giustificazione normativa (di matrice Rawlsiana), sia una giustificazione funzionale. Il successo di economie sempre più basate sui servizi e sulla conoscenza dipende in maniera essenziale dalla qualità del sistema educativo e dalle competenze di tutti i cittadini e non soltanto – come un tempo – dell’élite. Non è solo questione di capitale umano da spendere nel mercato del lavoro, ma anche di capitale sociale e politico. Un buon livello medio di educazione del cittadino accresce la coesione sociale e produce un alto grado di civismo nella cultura politica di un Paese.

Per realizzare il nuovo modello, l’Unione europea ha gradualmente ed esplicitamente incorporato nelle proprie strategie di coordinamento delle politiche degli Stati membri la prospettiva dell’investimento sociale[1]. La Commissione presentò quest’ultima non solo come terza funzione, ma anche come terza via rispetto sia al tradizionale approccio ‘fordista’, basato su assicurazioni sociali compensative e incentrato sul maschio portatore unico di reddito (il breadwinner), sia dall’approccio neoliberista, basato sulla deregulation e sul taglio delle spese pubbliche. Entrambi gli approcci apparivano sguarniti di fronte al problema delle diseguaglianze intergenerazionali e della mobilità. La strategia di Lisbona e la successiva Strategia Europa 2020 hanno attivamente promosso l’investimento sociale come strumento per riconfigurare in modo virtuoso la relazione tra mercati del lavoro, strutture familiari e politiche pubbliche. L’obiettivo della UE era quello di attivare il circolo virtuoso della ’crescita inclusiva’: alimentata dall’innovazione e dal rafforzamento del capitale umano, la crescita economica avrebbe creato nuova occupazione e più posti di lavoro, che a loro volta avrebbero ridotto i tassi di povertà ed esclusione sociale e contribuito a contenere la spesa pubblica.

La svolta verso l’investimento sociale ha cambiato il tono del dibattito sul welfare europeo e in questo ha giocato un chiaro ruolo di sollecitazione e indirizzo politico[2]. Le ricostruzioni empiriche confermano che negli ultimi quindici anni tutti i Paesi membri hanno registrato, in misura maggiore o minore, un qualche ri-orientamento dalle politiche passive a quelle attive, investendo sulla scuola e la formazione, i servizi per l’impiego, le prestazioni e i servizi alle famiglie (compresi quelli di conciliazione) al fine di rafforzare la capacità delle persone di partecipare al mercato del lavoro. Su quest’ultimo fronte si è affermato il paradigma della flexicurity, un approccio onnicomprensivo volto da un lato ad accompagnare le trasformazioni dell’economia e del lavoro e dall’altro a garantire una rete di sicurezza contro la precarietà e il rischio di povertà ed esclusione[3]. L’assunto di base della strategia basata sugli investimenti sociali e sulla flexicurity è stato chiaro: meglio rafforzare le capacità personali di guadagno piuttosto che aumentare i trasferimenti che compensino la mancanza di reddito, viste anche le loro implicazioni in termini di imposte e spesa pubblica in un contesto di ‘austerità permanente’.

L’aspetto forse più innovativo dell’approccio dell’investimento sociale è l’enfasi posta sui bambini e quella che l’OCSE ha soprannominato ‘Educazione e cura della prima infanzia’ (ECEC, Early Childhood Education and Care). Nel 2004 l’Organizzazione di Parigi promosse un’ampia ricerca per valutare l’impatto dell’ECEC sul benessere e lo sviluppo dei bambini[4]. Il risultato molto significativo è che i bambini che partecipano a programmi ECEC di qualità tendono a sviluppare migliori capacità di ragionamento e di problem-solving, sono più cooperativi e hanno maggiore autostima. Di conseguenza entrano nella scuola dell’obbligo con una più ampia gamma di competenze e capacità. Dal punto di vista ‘produttivistico’ (il cui più autorevole interprete è stato il premio Nobel James Heckman), l’ECEC contribuisce alla formazione del capitale umano e dunque genera alti ritorni economici nel tempo in termini di crescita dell’occupazione e della base imponibile e riduzione della spesa sociale di sostegno ai bassi redditi, per citare solo gli effetti più importanti. Dal punto di vista dell’egualitarismo liberale (sostenuto soprattutto da John Rawls nel 1971 nella sua Teoria della giustizia) l’ECEC svolge un ruolo essenziale nell’elevare il benessere dell’infanzia e ampliare le opportunità, neutralizzare il più possibile le differenze nella condizione materiale delle famiglie dovute alla lotteria sociale e – non ultimo – promuovere la mobilità nel contesto della società della conoscenza.

Se gli anni Duemila avevano registrato alcuni visibili avanzamenti nella direzione auspicata, la crisi finanziaria e la grande recessione hanno improvvisamente cambiato le carte in tavola. Le politiche di consolidamento fiscale hanno infatti ridotto i margini per gli investimenti (e in particolare quelli sociali, non ancora considerati dalla UE come meritevoli di scorporo dal deficit strutturale) e reso politicamente e socialmente più difficili gli interventi di ricalibratura, sia funzionale sia distributiva. Oltre all’aumento delle diseguaglianze e alla paralisi della mobilità, la grande recessione ha causato in molti Paesi un marcato incremento della povertà, particolarmente in seno alle famiglie caratterizzate da bassa intensità di lavoro, ossia quelle con componenti disoccupati di lungo periodo, in cerca di prima occupazione, precari. Nei Paesi con welfare occupazionale-assicurativo (Europa continentale e meridionale) si è anche verificato un paradosso: le prestazioni sociali legate ai rapporti di lavoro standard (nonché le pensioni ottenute con calcolo retributivo) hanno salvaguardato il potere d’acquisto degli insider. Alcune tipologie di famiglie ad alta intensità di lavoro (standard) hanno addirittura visto migliorare la propria posizione, nonostante la crisi. Si è così ulteriormente allargato il divario tra garantiti e non garantiti: il cosiddetto ‘effetto Matteo’. Questa espressione (tratta appunto dal Vangelo di Matteo: “A chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza ma a chi non ha sarà tolto anche quello che non ha”, Matteo 2, 29) denota un fenomeno che accentua la distanza fra ricchi e poveri, anche solo per le conseguenze non intenzionali delle regole vigenti in condizioni avverse.

Questi sviluppi hanno fatto emergere alcuni limiti del paradigma dell’investimento sociale. È infatti risultato chiaro che esso non può porsi come alternativa all’approccio più tradizionale basato sulla protezione (anche tramite trasferimenti) delle persone deboli. Pur prescindendo dal fattore ‘crisi’, la ricalibratura del welfare verso l’investimento sociale non può che essere un processo lento, molto più lento di quanto le rapide trasformazioni dell’ambiente sociale ed economico richiederebbero. Lo è innanzitutto per ragioni politiche: la riduzione o eliminazione dei diritti acquisiti, anche se desiderabile in termini di efficienza ed equità, solleva inevitabilmente tensioni e opposizioni da parte degli insider. Il movimento lento è tuttavia un tratto inerente alla natura stessa dell’investimento sociale: formare capitale umano tramite azioni sulla scuola di oggi darà ritorni solo domani, quando i nuovi studenti cresceranno ed entreranno nel mercato del lavoro.

Sottolineare i limiti del paradigma dell’investimento sociale non significa ovviamente negarne la desiderabilità, anzi la vera e propria necessità in quegli ambiti e per quegli obiettivi rispetto ai quali esso è l’unica strategia efficace (assistenza all’infanzia, istruzione e formazione, soprattutto). E ciò vale in particolare per l’Italia, dove tale paradigma è scarsamente compreso e ancor meno applicato: qui la necessità di includere gli investimenti sociali nell’agenda politica è dunque particolarmente elevata. Segnalare i limiti serve tuttavia a ricordare che l’investimento sociale deve andare di pari passo con una attenta manutenzione (e in molti Paesi anche un rafforzamento) delle tradizionali politiche di protezione e soprattutto con una robusta strategia di lotta alla povertà.

3. La lotta alla povertà

Anche la lotta alla povertà è una strategia complessa, costosa e politicamente delicata. Le persone vulnerabili sono poco attive politicamente e poco rappresentate. Le classi medie stanno diventando meno disponibili a politiche redistributive verso il basso: stanno tristemente riemergendo in molti Paesi – soprattutto in seno al vecchio ceto medio, quello che oggi si sente più minacciato – sentimenti moralistici nei confronti dei poveri (è colpa loro). Come è noto, tutti i Paesi UE hanno nel tempo introdotto un ventaglio più o meno ampio di prestazioni e servizi mirati ai bisognosi, con verifica dei mezzi. Per quanto generoso, l’universalismo da solo non riesce infatti a rispondere alla gamma crescente di vulnerabilità legate alle rapide trasformazioni dell’economia e della società. Con il Reddito di inclusione e il Reddito di cittadinanza anche l’Italia si è allineata al resto d’Europa. Al tempo stesso, è emerso con molta evidenza che la selettività può creare effetti perversi sul piano dell’efficienza, intrappolando i beneficiari nella povertà o nell’inattività: accettare una occupazione (ammesso che ci sia) comporterebbe infatti la perdita del sussidio e potrebbe dunque non essere conveniente.

La frontiera del dibattito si è così spostata sulle strategie capaci di neutralizzare le possibili trappole tramite sofisticate procedure di condizionalità e incentivi, sia sul versante della spesa, sia su quello fiscale (ad esempio tramite le cosiddette imposte negative sui redditi). Sotto questo profilo, le regole tranchantes (soglie fisse standardizzate per la perdita del beneficio in caso di nuovo impiego) del nuovo Reddito di cittadinanza italiano appaiono ‘preistoriche’ rispetto alle esperienze di Paesi come la Francia, il Regno Unito e i Paesi nordici.

L’erogazione condizionata di prestazioni monetarie è stata poi accompagnata da programmi di attivazione: coinvolgere i beneficiari di sussidi in iniziative volte al loro (re)inserimento nel mercato del lavoro o quanto meno al ripristino delle loro capacità di vita autonoma e partecipazione sociale. In un certo senso possiamo dire che l’attivazione è il ponte che ha cercato di unire la lotta alla povertà di stampo tradizionale alla logica dell’investimento sociale. L’attivazione presuppone tuttavia un elevato grado di capacità istituzionale da parte dello Stato, l’abbandono della logica burocratico-amministrativa e l’adozione di una logica manageriale. Questo è l’aspetto più debole delle iniziative italiane degli ultimi anni e l’introduzione del Reddito di cittadinanza non promette certo significative innovazioni a riguardo.

Nonostante gli sforzi concreti di molti governi, le nuove strategie di inclusione attiva (fortemente raccomandate e in parte anche finanziate dalla UE) non sono riuscite ad assorbire l’impatto della grande recessione e il conseguente aumento delle famiglie povere a bassa intensità e alta precarietà di lavoro. All’interno di tale quadro generale si registrano tuttavia elevate – e crescenti – differenze fra Paesi. Nel Nord Europa la recessione ha innanzitutto colpito con meno intensità ed è stata più breve. Inoltre, le misure di inclusione attiva hanno potuto poggiare su un robusto retroterra istituzionale, già ben calibrato per contenere la povertà. Nei Paesi continentali gli effetti della crisi sono stati più profondi e gli argini anti-povertà (quelli vecchi e quelli nuovi) non hanno impedito l’aumento e il peggioramento del tenore di vita delle famiglie a bassa intensità di lavoro. Nei Paesi sud-europei lo shock sociale ha raggiunto i livelli più elevati, anche in termini di durata. Data la scarsa efficacia delle reti di sicurezza pre-crisi e la bassa capacità organizzativa sul fronte dell’attivazione, la povertà, la precarietà e la diseguaglianza sono significativamente aumentate. Un ruolo non secondario nella polarizzazione fra insider e outsider è inoltre stato giocato nel Sud Europa dalla persistenza di prestazioni assicurative comparativamente generose per i lavoratori standard: l’eredità di uno sviluppo distorto e dualistico del welfare già durante l’epoca fordista. In Spagna (ma è così anche in Italia) il combinato disposto delle prestazioni sociali e delle agevolazioni fiscali aumenta il divario fra poveri e ricchi: un risultato chiaramente perverso.

Durante la crisi sono aumentati un po’ ovunque i tassi di permanenza nello stato di povertà/precarietà. Secondo la sociologa Bea Cantillon, ciò è un chiaro segnale della persistente forza di gravità esercitata dalla collocazione di classe (Cantillon e Vandenbroucke 2013; Cantillon et al. 2019). La strategia dell’investimento sociale era stata pensata anche per far fronte a questo problema e per contenere la trasmissione intergenerazionale dello svantaggio. Ma visti i suoi tempi lunghi, tale strategia non può essere sovraccaricata di funzioni e aspettative. Dal canto loro, le politiche contro la povertà e per l’inclusione attiva si sono scontrate con il paradosso di ‘Achille e la tartaruga’: per quanto corra, l’intervento dello Stato non riesce a raggiungere l’ambizioso obiettivo di eradicare la povertà. Che altro si può fare?

Colli di bottiglia

Il primo passo da compiere è catturare le dinamiche profonde che caratterizzano la struttura delle opportunità. Che cosa è, esattamente, una opportunità? In senso etimologico, si tratta di un ‘passaggio che consente di raggiungere uno scopo desiderato’: come un tratto di mare in cui il vento spinge verso il porto (ob-portum). Le società possono essere considerate come dei grandi reticoli di posizioni collegate fra loro, appunto, da passaggi o corridoi. Si nasce in una posizione e il ciclo di vita è una sequenza più o meno estesa di transizioni posizionali, modellate da norme, pratiche e regole. Queste transizioni sono mosse da scopi. Senza negare che questi ultimi siano in buona misura da noi deliberatamente scelti, essi subiscono l’influenza del contesto in cui viviamo e cresciamo. E purtroppo non è affatto scontato che il talento (inteso come dote naturale) e gli scopi (anche se sorretti da sforzo e impegno) riescano davvero a incontrare le opportunità. Oltre allo sforzo e alla scelta individuale (le opportunità vanno attivamente intercettate e colte) in questo incontro c’è sempre una componente di casualità. Inoltre, pesa anche una robusta componente ‘strutturale’, appunto. Identità, ambizioni, obiettivi e soprattutto risorse sono in parte esogeni, dipendono dal contesto di partenza e di percorso: dal modo in cui si formano ed evolvono nel tempo i nostri talenti, le nostre capacità, le nostre concrete possibilità di ‘funzionare’ relazionandoci con il mondo circostante. E ogni tappa di tale percorso – questo è il punto chiave – dipende dalle tappe precedenti e condiziona a sua volta le tappe successive.

In questa prospettiva, l’obiettivo di ampliare le chance di mobilità delle persone deve innanzitutto fare i conti con l’esistente ‘struttura di opportunità’, ossia l’insieme di passaggi che qui ed ora connettono le varie posizioni sociali. E l’architrave di questa struttura è proprio il nesso fra le tre componenti appena menzionate: libertà delle scelte individuali, tirannia del caso, influenza dei contesti di partenza e di percorso. Ciò che va ampliato è, per così dire, una meta-opportunità: quella, per ogni persona, di far ‘fiorire’ la propria individualità, sottraendola – per quanto possibile – al rischio di essere soffocata dai contesti e dalla cecità del caso. La tradizione liberale ha insistito soprattutto sulla nota ‘eguaglianza dei punti di partenza’ e sulla non discriminazione. Oggi la maggior parte delle discriminazioni dirette sono state rimosse o almeno mitigate – anche grazie al ruolo dell’Unione europea. Restano tuttavia molte discriminazioni indirette, quelle legate a situazioni nelle quali una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono di fatto svantaggiare le persone di un determinato gruppo rispetto agli altri. Il primo fronte su cui lavorare è dunque quello di livellare il campo da gioco, di rafforzare l’eguaglianza di opportunità in senso formale. Non è un obiettivo sufficiente, ma è necessario per potersi porre obiettivi più ambiziosi.

Vi sono poi i colli di bottiglia che dipendono in tutto o in parte dall’arbitrarietà del caso. O, per meglio dire, dall’incontro fra la lotteria naturale/sociale e la struttura esistente delle opportunità. La strettoia primordiale di ogni ciclo di vita personale, come si è detto, è la famiglia di nascita, principale veicolo della trasmissione intergenerazionale di vantaggi e svantaggi. Le dinamiche di globalizzazione hanno poi fortemente accresciuto l’importanza della località di nascita e di crescita. Le dotazioni genetiche individuali – in particolare i talenti – incontrano il primo filtro posizionale nei luoghi sociali e geografici in cui si dipanano le prime fasi del percorso di vita. E se è vero che le opportunità sono fra loro concatenate nel tempo (come gli anelli di una catena), allora è chiaro che per ampliare la meta-opportunità sopra menzionata (l’opportunità di avere opportunità) è indispensabile intervenire il più precocemente possibile attraverso politiche rivolte ai gruppi e ai territori più svantaggiati: politiche redistributive (trasferimenti) e politiche capacitanti (servizi di qualità), con una deliberata dimensione place-based. La rilevanza di questa dimensione è stata sottolineata soprattutto dalla Commissione europea, che l’ha incorporata nei suoi criteri di utilizzo dei fondi strutturali.

Data l’importanza di istruzione e formazione, gli sforzi vanno concentrati su questo versante. Se, come segnalano tutte le ricerche, la rilevanza del background familiare e territoriale è ancora così alta, ciò è anche dovuto alla carenza di sostegni economici di natura adeguata, di misure differenziate e quasi individualizzate che consentano di compensare a scuola i deficit socio-culturali dell’ambiente d’origine (la cosiddetta povertà educativa). E anche alla crescente diffusione di nuovi colli di bottiglia privi di salvagente. Aver fatto uno stage, ad esempio, è ormai diventato un requisito necessario per competere a posizioni sociali di livello medio. Ma gli stage – in particolare retribuiti – sono scarsi; e si tratta di una scarsità assoluta, non sociale (lo stage non è una posizione ‘superiore’ con funzioni di comando/coordinamento). Le scarsità assolute sono rimediabili con opportune politiche pubbliche. Lo stesso vale per tutta la filiera della cosiddetta formazione permanente.

Considerando quell’esaurimento della capacità ‘livellatrice’ dell’istruzione più sopra menzionato, si è diffuso un certo scetticismo circa l’efficacia di misure compensative nel contrastare l’influenza del background familiare (Bernardi e Ballarino 2006). Ciò non può tuttavia giustificare un indebolimento di tali misure, semmai il contrario. Occorre però cambiare priorità. L’efficacia delle politiche educative è strettamente connessa alle tipologie di sostegni forniti agli studenti, alla specifica calibratura fra sussidi economici, consulenza mirata (anche alle famiglie), modalità e qualità della didattica. Negli ultimi due decenni, molti Paesi hanno re-introdotto differenziazioni precoci dei percorsi, al fine dichiarato di allineare l’istruzione alle esigenze dei mercati del lavoro. Queste comprensibili scelte hanno tuttavia ignorato o sottovalutato i possibili effetti negativi in termini di mobilità. Una condizione simile ha riguardato l’espansione dell’istruzione privata. Un’altra fonte di differenziazione che incide sul ciclo di vita è la tendenza delle famiglie svantaggiate a sotto-investire nel capitale umano dei propri figli, perché mancano di informazioni o hanno credenze false o pregiudizi sul funzionamento dei sistemi educativi.

Gli sforzi più intensi vanno tuttavia indirizzati verso lo snodo successivo alla scuola dell’obbligo e/o al diploma – secondario e persino terziario. Oggi è soprattutto in questo snodo che impatta la seconda grande strozzatura dei percorsi di vita dei giovani, dopo quella relativa alla famiglia e al luogo di origine. È vero che in vari Paesi si sono introdotte varie forme di sostegno ai giovani che affrontano questa delicata strozzatura. Occorre tuttavia elaborare una strategia più mirata e sistematica, che la UE sta oggi perseguendo attraverso lo strumento delle garanzie sociali.

4. La strategia europea delle garanzie sociali

La ‘garanzia sociale’ è nata dalla confluenza di due tradizioni: quella nordica legata alle ‘garanzie giovani’ introdotte a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso e la tradizione di alcuni Paesi sud-americani, legata all’introduzione di guarantias sociales a partire dai primi anni Duemila. Il termine è entrato nell’uso dei Paesi UE con il programma Garanzia Giovani, co-finanziato dalla Commissione nel 2014. Possiamo definire una garanzia sociale come un insieme di norme giuridiche, procedure amministrative, pratiche operative che forniscono risorse e abilitano i ‘funzionamenti’ dei cittadini in determinati ambiti, congiungendo la dimensione della protezione e quella della promozione sociale.

La garanzia accende obblighi formali di prestazione da parte dello Stato e al tempo stesso assicura l’adempimento effettivo di tali obblighi; essa incorpora il diritto soggettivo, ma lo integra con la previsione di specifici strumenti che debbono essere dispiegati per il concreto esercizio del diritto e una realizzazione quanto più completa possibile dei suoi obiettivi di sicurezza e capacitazione. La nozione di garanzia è insieme più pesante e più leggera di un diritto sociale tradizionale. Più pesante perché definisce non solo la titolarità di una spettanza in astratto (il diritto allo studio o alla formazione), ma precisa le condizioni della sua fruizione (presenza di strutture accessibili e corsi adeguati, nonché di congrue risorse finanziarie), definisce delle soglie al di sotto delle quali tale fruizione è compromessa (quantità e qualità di docenti e strumenti didattici) e vincola l’attore pubblico ad assicurare sia le prime sia le seconde (ad esempio tramite controlli e ispezioni).

Inoltre, la garanzia prevede dei meccanismi codificati di monitoraggio e valutazione, dei canali (anche extra-giudiziali) per esprimere le esigenze e le lamentele degli utenti, ed eventualmente per sanzionare il mancato adempimento degli obblighi da parte delle varie amministrazioni pubbliche. Rispetto ai diritti sociali novecenteschi, la garanzia è però più flessibile. Il suo contenuto non è fisso, immutabile e inviolabile, ma rivedibile sulla base del monitoraggio e della valutazione. Due funzioni che vanno esercitate in maniera solo parzialmente gerarchica, in quanto devono lasciare spazio a forme di partecipazione e deliberazione che includano i cosiddetti stakeholder. Ciò è particolarmente importante per la componente dei servizi, che va calibrata in base a fattori contestuali e situazionali.

Lo strumento della ‘garanzia sociale’ è già largamente utilizzato nei Paesi scandinavi. Seppure con nomi diversi, tale modello ispira indirettamente alcune delle nuove misure nel campo della formazione o della conciliazione recentemente adottate da altri Paesi (i comptes formation francesi, ad esempio). Come si è detto, la UE ha già introdotto la Garanzia Giovani, che potrebbe in futuro evolvere verso una più ampia Garanzia di Attività lungo l’arco della vita, che includerebbe e concilierebbe fra loro non solo il lavoro retribuito ma anche quello di riproduzione sociale e di formazione. Esistono inoltre proposte già ben articolate a livello UE per due garanzie aggiuntive: la Garanzia Minori e la Garanzia Competenze. Grazie alla sua plasticità multi-livello, lo strumento della garanzia potrebbe in effetti candidarsi ad essere il pilastro portante di una eventuale Unione sociale europea, volta a sperimentare e promuovere un ‘welfare per le chance di vita’ come arena di conciliazione fra rischi e opportunità.

5. Conclusione

L’inequità intergenerazionale è significativamente aumentata nei Paesi europei. La lunga crisi dell’ultimo decennio ha peggiorato le cose. Come tutte le sfide che riguardano il lungo periodo e che si muovono a sviluppo lento, anche il divario fra generazioni – con tutte le implicazioni negative che esso porta con sé – fa molta fatica a trovare spazio nelle agende dei governi. Anche se le sue politiche di consolidamento fiscale non hanno certo brillato sul fronte dell’equità, l’Unione europea ha il merito di aver attirato l’attenzione su questo versante. La strategia dell’investimento sociale (che ha trovato negli ultimi tempi una nuova strumentazione basata sulle garanzie sociali) ha costituito, e a tutt’oggi costituisce, un serio tentativo di ridefinire il dibattito sulle diseguaglianze e la mobilità sociale e di riorientare le politiche di spesa dei governi. Fare progressi su questa strada è però una sfida che non è solo di natura ideale (l’elaborazione di utopie realiste) e pratica (l’individuazione degli strumenti per realizzarle). È soprattutto di natura politica. L’equità intergenerazionale deve riuscire a imporsi nell’agenda e diventare il punto di convergenza fra una base sociale potenzialmente interessata e uno schieramento politico che scelga di puntare su questa strategia anche dal punto di vista del consenso.

 

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Krueger A. (2012), The Rise and Consequences of Inequality in the United States, American Progress, 12 January  <https://ampr.gs/39M4hAe>

Krugman P. (2012), The Great Gatsby Curve, New York Times, 15 gennaio <https://nyti.ms/37WCHyH>

OCSE, Early Childhood Education and Care <http://bit.ly/2sLTa9X>

Piketty T. (2014), Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani

Rawls J. (1971), A Theory of Justice, Harvard, Harvard University Press, trad. it.: Rawls J. (2008), Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli


1

Si veda il sito https://bit.ly/2QGPrDA.

2

Per una esaustiva discussione della strategia dell’investimento sociale, si veda Hemerijck (2017).

3

Per una illustrazione di questo approccio e le peculiarità del caso italiano si veda Berton et al. (2009).

4

Si veda il sito https://bit.ly/2FAHB8d.