SINAPPSI

2019/3

In questo contributo si discute la proposta di un fondo per l’accesso alla vita adulta, o dote di cittadinanza. L’analisi parte da alcuni dati sullo squilibrio nella distribuzione delle risorse tra generazioni in Italia, sia in termini di ricchezza sia rispetto al mercato del lavoro. Segue una sintetica illustrazione delle politiche fiscali destinate alle generazioni più giovani attualmente in vigore, e le proposte di riforma. Quindi si illustrano i presupposti teorici della dote di cittadinanza, strumenti simili adottati in altri Paesi – principalmente anglosassoni – e una proposta molto simile avanzata nel 2007.

This paper recommends a fund for young Italian adults. The first part provides data on the unequal distribution of resources for different generations, both in terms of wealth and the labor market opportunities. It then briefly describes current fiscal policies for the younger generation in Italy, and the reforms that are under debate. Finally, it presents the theoretical basis of the fund, as well as similar measures in use in other, mainly Anglo-Saxon, countries and a very similar proposal presented in 2007. 

1. Introduzione

La crescente diseguaglianza di reddito e ricchezza, individuale e famigliare, verificabile nei Paesi occidentali, così come il progressivo invecchiamento della popolazione sono temi che negli ultimi anni hanno attirato l’attenzione degli studiosi e dei policy maker. Ne è seguito un ricco dibattito sulle politiche pubbliche, e sulle riforme del welfare, prevalentemente concentrato sugli effetti delle trasformazioni avvenute nel mercato del lavoro, e quindi su misure quali il reddito di cittadinanza, e, nei Paesi a natalità particolarmente bassa, sul supporto alle famiglie con figli. Minore attenzione è stata dedicata – fino a oggi – alla dimensione generazionale della diseguaglianza. In questo contributo si discute di una misura, denominata fondo per l’accesso alla vita adulta – o dote di cittadinanza – che rientra nella c.d. asset-welfare agenda. Il principale obiettivo di questa misura è il superamento, almeno parziale, delle differenze che ostacolano l’uguaglianza delle opportunità, e qui si vuole sottolineare quanto una misura come questa possa essere importante in una società che sta rapidamente invecchiando. L’analisi parte da alcuni dati sullo squilibrio nella distribuzione delle risorse tra generazioni in Italia, sia in termini di ricchezza sia rispetto alle opportunità sul mercato del lavoro. Il terzo paragrafo passa in rassegna le politiche fiscali destinate alle ultime generazioni in vigore nel nostro Paese, e in particolare il supporto all’ingresso nel mercato del lavoro e per le famiglie con figli. La sintetica descrizione della legislazione vigente è accompagnata da alcune indicazioni circa le proposte di riforma di questi strumenti. Il quarto paragrafo illustra i presupposti teorici della c.d. asset-welfare agenda, le politiche per promuovere l’uguaglianza delle opportunità e la redistribuzione della ricchezza tra generazioni adottate in alcuni Paesi, principalmente di cultura anglosassone e in linea con questo approccio, nonché la proposta fatta per l’Italia nel 2004 dal senatore Livi Bacci di una dote da assegnare a ogni nuovo nato. Il quinto paragrafo conclude.

2. Il confronto di risorse di generazioni diverse: metodi possibili e alcuni dati sull’Italia

Il confronto tra le risorse a disposizione delle diverse generazioni che convivono in un certo periodo di tempo in un Paese si può condurre adottando differenti metodologie. Ad esempio, si può confrontare il reddito familiare equivalente, reale e disponibile[1] mediano[2] di più generazioni per fasce di età. Oppure si possono raffrontare informazioni dettagliate circa il reddito da lavoro, il possesso di immobili, le coperture offerte dal sistema di welfare (in particolare il sistema pensionistico, sanitario e di istruzione) di persone che appartengono a generazioni diverse in diversi momenti storici. Una terza metodologia, particolarmente utile quando si voglia valutare l’impatto delle politiche pubbliche sulle differenti generazioni è quella dei conti intergenerazionali. Con questo approccio si stima, adottando la legislazione vigente, l’aliquota media – comprensiva di tassazione e contribuzione sociale – che ciascuna generazione ha versato, e verserà, allo Stato nell’arco della vita e il volume di spesa pubblica pro capite che ha ricevuto, e che potenzialmente riceverà. Un quarto approccio richiede il calcolo del reddito lungo l’arco dell’intera vita di individui che ricoprono la posizione mediana nella distribuzione dei redditi, e che appartengono a diverse generazioni. Nel seguito forniamo alcune informazioni elaborate per l’Italia, facendo riferimento ai primi tre metodi.

Adottando il primo, è stato calcolato (Intergenerational Commission 2018) il reddito familiare equivalente, reale e disponibile mediano per cinque generazioni: quella dei nati tra il 1911 e il 1925 (la più grande); quella dei nati tra il 1926 e il 1945 (la silente); quella dei nati tra il 1946 e il 1965 (i Baby boomers); quella dei nati tra il 1966 e il 1980 (la Generazione X) e i Millenials, che sono i nati tra il 1981 e il 2000. Le cinque generazioni menzionate sono state considerate in tre fasce di età: tra i 30 e i 34 anni; tra i 45 e i 49 anni e tra i 65 e i 69 anni. In Italia, il confronto del reddito dei Millenials nella fascia di età 30-34 anni, con quello di coloro che sono nati tra il 1966 e il 1980 (la Generazione X) quando erano nella stessa fase di vita, mostra che i primi dispongono di risorse inferiori rispetto ai secondi del 17%. La Generazione X ha visto però peggiorare la propria condizione rispetto alla generazione dei Baby boomers. Infatti, da questo confronto emerge che nella fascia di età 30-34 anni, la Generazione X disponeva di un reddito superiore ai Baby boomers dell’8%, ma nella fascia di età 45-49 la Generazione X dispone di minori risorse pari all’11% rispetto ai Baby boomers. Al contrario, se i Baby boomers si confrontano con le due generazioni precedenti, risulta che i primi hanno sempre redditi superiori ai secondi, per un ammontare che varia tra l’8 e il 14% a seconda della fascia di età considerata. In sintesi, adottando questo metodo si riesce a confrontare il reddito disponibile di individui che hanno vissuto le fasi importanti della loro vita, ossia l’inserimento nel mercato del lavoro e la formazione della propria famiglia, il consolidamento della posizione lavorativa e l’uscita dal mercato del lavoro con il passaggio alla pensione, facendo parte di generazioni diverse, e – nel caso dell’Italia –  si può concludere che la generazione dei nati tra il 1966 e il 1980 è la prima ad aver avuto risorse inferiori alle generazioni precedenti, a partire dai 40 anni, mentre i nati dopo il 1981 hanno vissuto, e stanno vivendo, questa condizione anche nel periodo di vita precedente, ossia tra i 30 e i 34 anni.

Se si adotta il secondo metodo, e si guarda alle informazioni fornite dall’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane 2016 (Banca d’Italia 2018), si può calcolare che nel 1987 tutti coloro che vivevano in nuclei più giovani avevano risorse maggiori rispetto ai nuclei con capofamiglia ultrasessantacinquenne. Come illustrato nel grafico 1, se si fa pari a 100 il reddito famigliare medio dei nuclei con capofamiglia ultrasessantacinquenne (linea verde), nel 1987 i nuclei con capofamiglia con meno di 30 anni avevano redditi medi più alti del 67% (linea arancione), del 70% in più se il capofamiglia aveva tra 31 e 40 anni (linea grigia), dell’84% in più se il capofamiglia aveva tra i 41 e i 50 anni (linea gialla) e del 72% in più se il capofamiglia aveva tra i 51 e i 65 anni (linea blu). Nel 2016, al contrario, i nuclei con capofamiglia con meno di 30 anni dispongono di risorse pari all’86% dei nuclei di ultrasessantacinquenni, del 98% se il capofamiglia è tra i 31 e i 40 anni; se il capofamiglia ha tra i 41 e i 50 anni, invece, i nuclei dispongono di un reddito famigliare più alto dei nuclei di ultrasessantacinquenni del 22%, o del 34% se il capofamiglia ha tra 51 e i 65 anni.

 

Grafico 1 Rapporto reddito familiare medio per età del capofamiglia e reddito familiare medio ultrasessantacinquenni (val.%)

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Fonte: elaborazioni dell’Autrice su dati Banca d’Italia (2018)

Se si considera solo il reddito da lavoro, si può verificare che la retribuzione media oraria dei dipendenti nel 1987 era pari a 3,52 euro per coloro che avevano meno di trent’anni, ma per tutti gli altri era di poco superiore ai 4 euro (grafico 2). Erano retribuiti in media 4,49 euro l’ora i lavoratori dipendenti con età compresa tra i 31 e i 40 anni; 4,46 euro quelli che avevano tra i 41 e i 50 anni; 4,53 euro per chi era nella fascia di età tra 52 e 65 anni e 4,71 euro per i lavoratori con più di 65 anni (dato Banca d’Italia, 2016 non riportato nel grafico). Nel 2016 la retribuzione media oraria più alta è quella dei lavoratori tra i 51 e i 65 anni (10,63 euro in media, linea gialla nel grafico 2), mentre coloro che hanno meno di 30 anni si fermano a 7,34 euro (linea blu); quelli tra 31 e 40 anni a 8,98 euro (linea arancione); nella fascia di età tra i 41 e i 50 anni si arriva mediamente a 10,02 euro l’ora (linea gialla), per poi tornare a 9,19 per gli ultrasessantacinquenni.

 

Grafico 2 Retribuzione media oraria del lavoro dipendente per classe di età in Italia (in euro)

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Fonte: elaborazioni dell’Autrice su dati Banca d’Italia (2018)

Per spiegare questa evoluzione, si può pensare che nel 1987 ci fossero nel mercato del lavoro italiano delle coorti di lavoratori con livelli di istruzione molto diversificati, con i meno istruiti plausibilmente concentrati nelle coorti più anziane. Nel 2016, al contrario, i differenziali in livello di istruzione tra coorti di età sono ridotti e, quindi, l’esperienza e la permanenza nel mercato del lavoro sono i fattori che più contribuiscono ad aumentare le retribuzioni, premiando le coorti di lavoratori in età avanzata. Alternativamente, si potrebbe ritenere che il relativo impoverimento delle ultime generazioni sia una delle conseguenze della crisi economica mondiale iniziata nel 2008. In realtà, lo squilibrio evidenziato è il risultato di più concause, tra cui rientrano la ridotta crescita delle economie avanzate, che infatti condividono con l’Italia il peggioramento delle condizioni economiche delle ultime generazioni (Intergenerational Commission 2018), e – nel nostro caso specifico – il funzionamento del mercato del lavoro. A proposito di quest’ultimo, l’Italia aveva i tassi di disoccupazione giovanile pre-crisi tra i più alti d’Europa, ha raggiunto i picchi più alti registrati nel continente durante la crisi, e nel 2016 è rimasta con un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 25%. La convinzione che la crisi avesse solo peggiorato uno squilibrio esistente è confermata dalle parole del Governatore della Banca d’Italia nella sua relazione del 2010: “La riduzione rispetto al 2008 della quota di occupati tra i giovani è stata quasi sette volte quella osservata tra i più anziani. Hanno pesato sia la maggiore diffusione fra i giovani dei contratti di lavoro a termine sia la contrazione delle nuove assunzioni, del 20%. Da tempo vanno ampliandosi in Italia le differenze di condizioni lavorative tra le nuove generazioni e quelle che le hanno precedute, a sfavore delle prime. I salari d’ingresso in termini reali ristagnano da quindici anni” (Banca d’Italia 2011).

Una delle principali conseguenze della debolezza delle ultime generazioni sul mercato del lavoro, che si manifesta sia con elevata disoccupazione sia con bassi salari, è la loro difficoltà ad acquistare l’immobile di residenza. Come emerge dalla figura 1, nel periodo che va dal 1977 al 2014 la percentuale di famiglie italiane proprietarie della casa di abitazione è salita dal 30% al 50% e c’è stato un periodo – tra la fine degli anni Novanta fino a prima della crisi del 2008 – in cui le differenze per età del capofamiglia erano molto ridotte. Ad esempio, nel 2001 era proprietario della prima casa circa il 40% dei nuclei con capofamiglia di età inferiore ai 30 anni; intorno al 42% dei nuclei con capofamiglia tra i 31 e i 50 anni e il 52% di coloro che avevano oltre 50 anni. Nel 2015 invece il quadro è notevolmente cambiato: la quota dei proprietari dell’abitazione è scesa al 30% per coloro che hanno meno di 30 anni, mentre è rimasta stabile per le fasce di età superiori. Questa trasformazione potrebbe essere dovuta a due fenomeni compresenti: da una lato, le generazioni più giovani stanno avendo più difficoltà a trovare una collocazione sul mercato del lavoro che consenta loro di pianificare un’operazione economicamente onerosa come l’acquisto di una casa; d’altra parte, può essere che si siano ridotte le disponibilità dei genitori, che nel passato hanno impiegato parte dei loro risparmi aiutando, in tutto o in parte, i figli al momento dell’acquisto della casa. In sintesi, se l’acquisto dell’abitazione richiede una disponibilità di risorse e una posizione lavorativa difficili da raggiungere nei primissimi anni di ingresso nel mercato del lavoro, vero è che in Italia ci sono stati periodi in cui questo passaggio non era precluso, come sembra esserlo oggi (Banca d’Italia 2015), nella fase della vita – ossia tra i 25 e i 40 anni – durante la quale si forma una famiglia.

 

Figura 1 Famiglie in possesso di immobili per classe di età del capofamiglia (val.%)

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Fonte: Banca d’Italia (2015)

Infine, se si adotta il terzo metodo di confronto, e si stima sia il contributo che ciascuna generazione fornisce al bilancio pubblico sia quanto riceve, è facile comprendere che lo squilibrio di risorse tra generazioni che si è verificato in Italia è anche il risultato di una serie di interventi di finanza pubblica, adottati a partire dai primi anni Novanta, che erano necessari per riportare in equilibrio il bilancio pubblico ed essere ammessi nell’area euro, ma che hanno avuto ripercussioni differenziate per generazione. In particolare, Rizza e Tommasino (2010) hanno stimato, che coloro che sono nati tra il 1955 e il 2006 – che è l’ultima coorte analizzata nel loro studio – sono contribuenti netti del bilancio pubblico, ossia coorti di individui che pagheranno più di quanto hanno ricevuto, e riceveranno, mentre coloro che sono nati prima del 1955 riceveranno più di quanto hanno contribuito. Come spiegano gli Autori, questo risultato è principalmente dovuto all’impatto degli interventi fatti sul sistema pensionistico, che si sono tradotti in una riduzione delle prestazioni destinate ai nati dopo il 1955, ma soprattutto a coloro che hanno cominciato a lavorare nel 1996. Infatti, questa coorte di lavoratori, e quelle successive, avranno una pensione interamente calcolata con il sistema contributivo, mentre per i nati dal 1955 il calcolo sarà fatto pro quota. Ne segue che, il tasso di sostituzione lordo tra la prima rata pensionistica e l’ultima retribuzione per coloro che hanno cominciato a lavorare nel 1996 e che avranno 40 anni di contributi nel 2036 era, prima della Legge Fornero, di poco superiore al 50%. Un parziale aggiustamento rispetto a questo squilibrio era stato fatto con la Legge Fornero, che aveva portato il tasso di sostituzione intorno al 62-63% (Marano et al. 2012). Il Governo Lega-M5S, ripristinando la quota 100, ha però nuovamente destinato risorse alle generazioni che hanno cominciato a lavorare prima del 1996, depotenziando l’intervento precedente.

Indipendentemente dalla metodologia che si adotta, emerge una distribuzione delle risorse che penalizza i più giovani ma che ha implicazioni per tutto il sistema economico sia in termini di efficienza, sia in termini di equità. A proposito dell’efficienza, infatti, la relazione tra crescita e distribuzione delle risorse alle generazioni più giovani è una relazione che, da un lato, è tale per cui l’impoverimento relativo delle generazioni più giovani si è verificato proprio nei Paesi europei che negli ultimi venti anni hanno sperimentato i tassi di crescita più contenuti, se non nulli, mentre non si registra nei Paesi che hanno tassi di crescita economica più alti. D’altra parte, la marginalizzazione dal mercato del lavoro dei soggetti più giovani e di più recente istruzione, è sicuramente causa di arretratezza e scarsa competitività. A proposito dell’equità, non tutti gli individui di una stessa generazione sopportano allo stesso modo le difficoltà sul mercato del lavoro; similmente, non per tutti disporre di una casa, e quindi di un luogo per costruire la propria famiglia, è ugualmente complicato. Infine, non per tutti le incertezze circa il proprio futuro previdenziale sono ugualmente problematiche. Detto altrimenti, chi proviene da una famiglia con più risorse ha meno problemi ad affrontare le difficoltà menzionate.

Per tutte queste ragioni, il quadro descritto richiede una riflessione in termini di politiche fiscali volte a ripristinare una distribuzione di risorse che consenta, in primo luogo, ai più giovani di fare scelte, quali quella di formare una propria famiglia, di intraprendere un’attività imprenditoriale, o un percorso di formazione lungo con una dotazione minima di risorse. Si tratta, infatti, di scelte importanti per i percorsi di vita individuali (e di coppia), ma anche per la collettività. In secondo luogo, le politiche fiscali dovrebbero essere mirate a favorire quanto più possibile l’eguaglianza di opportunità tra persone della stessa generazione. È infatti non equo, e non efficiente, che i giovani che provengono dalle famiglie più abbienti possano frequentare lunghi e qualificati percorsi formativi, avere una famiglia propria ed essere avviati al lavoro, magari facendo affidamento sulle risorse della famiglia di origine, mentre lo stesso non può avvenire per chi proviene da famiglie non abbienti. 

3. Le misure monetarie di supporto all’infanzia e ai giovani in Italia

Il bilancio pubblico può intervenire a supporto delle generazioni giovani e per favorire l’uguaglianza di opportunità tra individui appartenenti alla stessa generazione in molti modi. Lo può fare con la spesa per istruzione (a tutti i livelli), con le politiche abitative, con delle misure per favorire l’accesso al credito, l’occupazione giovanile e con i trasferimenti monetari alle famiglie con bambini e ragazzi. In questo paragrafo si descrivono, molto sinteticamente, le sole misure presenti nel welfare state italiano, ossia il supporto all’occupazione giovanile e i trasferimenti monetari a favore delle famiglie con figli.

L’inserimento nel mercato del lavoro e la tassazione del reddito da lavoro dei giovani

Nell’ultimo biennio, gli interventi di riforma per facilitare l’inserimento delle coorti di lavoratori più giovani nel mercato del lavoro sono tra quelli che maggiormente hanno risentito del cambio di governo. In particolare, la manovra di bilancio per il 2018 aveva previsto uno sgravio contributivo per le assunzioni dei più giovani, inteso come completamento del Jobs Act e del contratto a tutele crescenti. Nel dettaglio, per le assunzioni avvenute nel 2018 è stato riconosciuto ai datori di lavoro privati che assumevano a tempo indeterminato lavoratori di età inferiore a 35 anni uno sgravio contributivo pari al 50%, nel limite massimo di 3 mila euro annui e per non più di tre anni. Se l’assunzione avveniva nel 2019, il limite di età era ridotto a 30 anni. Lo sgravio, nel rispetto del limite di età, è stato attribuito anche in caso di prosecuzione, successiva al 31 dicembre 2017, di un contratto di apprendistato o nel caso di conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine. La percentuale di esonero era prevista salire al 100%, fermo restando il limite massimo di 3 mila euro annui, nel caso di datori di lavoro privati che avessero assunto a tempo indeterminato, entro sei mesi dall’acquisizione del titolo di studio, studenti che avevano svolto presso il medesimo datore attività di alternanza scuola-lavoro o periodi di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale o in alta formazione. La manovra di bilancio per il 2019 ha abbandonato questo strumento e ha invece introdotto il Reddito di cittadinanza, che è un sussidio per individui e nuclei a reddito molto basso, o nullo, che non prevede limitazioni di età.

Al contempo, da più parti è stata proposta una revisione delle aliquote Irpef con l’obiettivo di ridurre la pressione fiscale sui percettori di reddito più giovani (si vedano ad esempio, Marchetti e Monti 2013; Micheletto 2017). Le argomentazioni a favore di queste proposte fanno riferimento sia alla diversa capacità contributiva di questa categoria di contribuenti (ampiamente argomentata nel paragrafo precedente), sia a motivazioni di efficienza riconducibili alla differente elasticità dell’offerta di lavoro nelle diverse fasi della vita. In particolare, poiché i giovani avrebbero elasticità all’offerta di lavoro più alta, la teoria della tassazione ottimale suggerirebbe di ridurre le aliquote marginali di questo gruppo (Micheletto 2017). Ad oggi nessuna di queste proposte è stata adottata, mentre alcuni ritengono che la differenziazione delle aliquote in funzione dell’età del contribuente andrebbe incontro a un giudizio di incostituzionalità da parte della Corte (si veda, ad esempio, Stevanato 2017).

Le misure di integrazione monetaria per le famiglie e il disegno di legge delega Delrio 

Le misure monetarie per il sostengo all’infanzia sono riconducibili a tre principali modalità: gli assegni familiari, le detrazioni fiscali e i bonus. Gli assegni famigliari sono destinati ai soli lavoratori dipendenti, o ai lavoratori con reddito assimilabile, e ai pensionati. Il reddito del nucleo famigliare del beneficiario deve essere al di sotto dei limiti stabiliti annualmente dalla legge e l’ammontare dell’assegno è commisurato sia al reddito del nucleo familiare sia al numero dei componenti. Guardando ai dati del 2017, l’ultimo anno disponibile, l’Istat (2019) ha stimato che il 21,6% delle famiglie italiane, pari a poco più di 5 milioni e 580 mila, ha beneficiato di questo tipo di sostegno per un valore medio annuo di 1.047 euro. In particolare, hanno beneficiato degli assegni il 57,5% delle coppie con figli minori e il 41,5% delle famiglie monogenitore con figli minori. La misura rappresenta di fatto un sostegno ai percettori di reddito da lavoro dipendente (il 69,4% delle risorse va a questa categoria) e da pensione (24,9% delle risorse). Dal momento che l’assegno è strettamente legato a una posizione lavorativa presente o del recente passato (disoccupato) del beneficiario, esistono in Italia quasi 271 mila famiglie senza reddito per le quali non è previsto alcun tipo di assegno familiare.

 L’attuale sistema di detrazioni prevede un ammontare potenziale pari a 950 euro per ciascun figlio, che aumenta se ci sono figli con disabilità, se ci sono figli di età inferiore ai tre anni e nel caso di famiglie con più di tre figli. La detrazione effettivamente spettante diminuisce al crescere del reddito fino ad annullarsi quando il reddito complessivo raggiunge i 95 mila euro, nel caso di un figlio. Quando ci sono più figli il reddito complessivo va aumentato di 15 mila euro per ogni figlio successivo al primo. Dal 2020 cessano di avere diritto a questa detrazione i genitori di giovani con meno di 24 anni, se questi ultimi percepiscono un reddito superiore a 4 mila euro, mentre per i figli di oltre 24 anni di età resta il limite di reddito di 2.841 euro oltre il quale essi non possono essere considerati a carico dei genitori. Sono inoltre detraibili le spese sostenute per la frequenza di scuole dell’infanzia, del primo ciclo di istruzione e della scuola secondaria di secondo grado del sistema nazionale di istruzione, per un importo annuo non superiore a 800 euro, indipendentemente dal reddito. Nel caso delle detrazioni, i nuclei con redditi nulli o molto bassi non possono beneficiare dell’intervento perché risultano incapienti. Per valutare l’impatto di questo tipo di integrazione monetaria si può comparare il carico fiscale di una coppia con un solo percettore di reddito e due figli, con il reddito netto di un single senza figli. Sulla base di questo raffronto, l’Istat (2019) ha calcolato un differenziale di carico fiscale positivo e pari a poco meno di 7 punti percentuali, inferiore di 10 punti percentuali rispetto alla Germania e in linea con quanto osservato in Francia e Spagna.

Infine, nei primi tre anni di vita del bambino la legislazione italiana prevede a partire dal 2016 l’erogazione di un buono pari a 1.000 euro annui, nel 2017 e 2018, e a 1.500 euro annui nel 2019. Il buono è finalizzato al pagamento delle rette per la frequenza di asili nido pubblici o privati. Inoltre, dal 2012, la legislazione italiana ha riconosciuto alla madre lavoratrice la possibilità di richiedere al termine del periodo di congedo di maternità e negli undici mesi successivi, in sostituzione, anche parziale, del congedo parentale, un contributo economico (pari a un importo massimo di 600 euro mensili, per un periodo complessivo non superiore a sei mesi) da impiegare per l’acquisto di servizi di baby-sitting, ovvero per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati.

A proposito delle risorse impiegate, le prestazioni sociali destinate alla famiglia assorbono il 5,9% della spesa per prestazioni sociali, che – come è noto – è per buona parte destinata alle misure per la vecchiaia (49,3%) e per la malattia (23,7%), mentre il restante 21% è indirizzato a prestazioni per superstiti, invalidità, disoccupazione, esclusione sociale, bisogni abitativi (dati riferiti al 2018, Istat 2019). In termini pro capite le prestazioni sociali destinate alla famiglia sono pari a 486 euro, rispetto a una media UE di 680 euro (Istat 2019).

Dalla sintetica descrizione della legislazione vigente emerge un quadro di interventi di importo piuttosto limitato, molto frammentato, da cui sono esclusi disoccupati e incapienti, e – aspetto da non sottovalutare – poco ‘visibile’ per gli stessi percettori. Da qui la necessità, tradotta nel disegno di legge di Delega al Governo per riordinare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e la dote unica per i servizi (giugno 2019, prima firma Delrio) di riordinare e potenziare il settore.

La razionalizzazione proposta prevede la soppressione delle detrazioni fiscali per minori, dell’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli a carico, del bonus bebè, del Fondo di sostegno alla natalità e del Premio alla nascita, e l’impiego delle risorse così reperite per istituire l’assegno unico e la dote unica per figli a carico. L’assegno unico dovrebbe essere una misura di sostegno economico per i figli a carico, applicato facendo riferimento al genitore con il reddito più elevato e progressivamente ridotto, fino all’azzeramento, quando il suddetto reddito supera 100 mila euro annui lordi. L’assegno può raggiungere un importo massimo di 240 euro per dodici mensilità. Dalla maggiore età fino al compimento del ventiseiesimo anno di età, l’importo massimo dell’assegno è fissato in 80 euro, mentre è maggiorato in misura non inferiore al 40% per i figli con disabilità. La misura è attribuita in forma di detrazione fiscale ovvero di erogazione mensile di una somma in denaro.

La dote unica dovrebbe ammontare al massimo a 400 euro per dodici mensilità per ogni figlio fino ai tre anni di età. La dote è utilizzabile per il pagamento di servizi per l’infanzia quali asili nido e personale direttamente incaricato. La dote è riconosciuta in forma ridotta per i figli a carico nella fascia di età compresa tra i 3 e i 14 anni compiuti, e maggiorata per i figli con disabilità. L’ammontare della dote dovrebbe essere calcolato facendo riferimento all’ISEE ed essere erogato mediante la Carta acquisti.

Il riordino si propone di contrastare la ridotta partecipazione delle donne al mercato del lavoro; promuovere la parità di genere; sostenere la natalità e combattere la povertà (anche minorile). A questo proposito è importante sottolineare che il sostegno alla natalità e alla partecipazione femminile al mercato del lavoro sono due obiettivi connessi. Come più volte argomentato, infatti, nelle società contemporanee la natalità è più alta laddove tutti e due i genitori lavorano (Rapallini 2012), essendo il secondo reddito la migliore garanzia contro la povertà (anche minorile). La scelta di commisurare l’assegno al reddito del genitore che percepisce il reddito più alto è quindi coerente con l’obiettivo di favorire la partecipazione al mercato del lavoro di tutti e due i genitori, e in particolare delle donne. Infatti, l’aggiunta – o l’aumento – del secondo reddito non comporta la rimodulazione dell’assegno, o la sua perdita, come invece può accadere con le detrazioni.

4. L’asset-welfare agenda: una dote universale

L’idea di redistribuire la ricchezza, e di guardare con particolare attenzione agli squilibri generazionali, è un’idea che ha animato il dibattito accademico a partire dal XVIII secolo, e che ancora oggi caratterizza sia la discussione tra studiosi, sia le proposte di policy maker, anche di schieramenti politici diversi. Thomas Paine (1797) è considerato l’antesignano dell’asset-agenda: egli proponeva l’istituzione di un fondo nazionale “to pay to every person, when arrived at the age of twenty-one years, the sum of fifteen pounds sterling, to enable him or her to begin the world”, e ipotizzava che potesse essere finanziato con la tassazione delle eredità. Secondo Paine, il diritto di proprietà sul frutto del proprio lavoro non persiste dopo la morte, specialmente se ci sono persone che, per mancanza di un capitale di partenza, si vedono negata l’opportunità di realizzare il loro progetto di vita.

Nei due secoli successivi, gli accademici si sono interrogati su quale dovesse essere l’età giusta per accordare questa somma; con quale gradualità dovesse essere introdotta la misura; chi dovesse averne diritto; a quanto dovesse ammontare; come finanziarla, se vincolarne o meno l’impiego e, in caso affermativo, per quali scopi.

Lo stake di Ackerman e Alstot (1999) (d’ora in poi AA), lo Start-up grants for young people di Le Grand e Nissan (2000; 2003) (d’ora in poi LGN) e il Capital Endowment di Atkinson (2015) (d’ora in poi A) sono tre proposte tra le più recenti che si ispirano alla dote di Paine. La proposta di stake di AA e lo start-up grant di LGN sono pensati in maniera tale da incoraggiare la responsabilità individuale. In particolare, l’assegnazione ai giovani di un fondo vorrebbe, da un lato, equiparare – per quanto possibile – le condizioni di partenza, dall’altro, incoraggiarli a preoccuparsi del proprio futuro fin da subito. Questi autori ritengono che uno degli obiettivi della misura sia provare a cambiare l’atteggiamento di chi si attende, in caso di disoccupazione o se il reddito familiare è scarso, continui trasferimenti di denaro da parte dello Stato. Avendo questa tra le priorità, preferiscono assegnare ai singoli un’unica somma al compimento della maggiore età, invece di attribuire una cifra più contenuta nell’arco della vita, come ad esempio il reddito di cittadinanza. A proposito dell’ammontare e del vincolo all’utilizzo, LGN suggeriscono di assicurare ai giovani – al compimento dei 18 anni di età – 10 mila sterline da utilizzare per finanziare la propria istruzione, per comprare un immobile (come somma iniziale[3]) o per iniziare un’attività imprenditoriale. Nella loro proposta questa somma deve essere depositata in un conto bancario, l’Accumulation of Capital and Education (ACE), che può essere gestito da amministratori fiduciari, incaricati di approvare il piano individuale di impiego. Gli autori considerano questa modalità di assegnazione e di gestione del denaro un “required minimal paternalism”. Su un vincolo alle modalità di impiego della dotazione di capitale concorda A, che stima l’ammontare del trasferimento tra le 5 mila e le 10 mila sterline. AA propongono di assegnare ai giovani adulti una somma pari a 80 mila dollari che, secondo le stime di A, equivalgono al doppio del reddito mediano negli Stati Uniti a fine anni Novanta. AA lo assegnerebbero al compimento del 21 esimo anno di età e prevedono che il giovane rimanga l’unico responsabile della gestione del denaro non stabilendo nessun vincolo all’impiego. Le sole due condizioni che pongono sono che il ricevente abbia conseguito il diploma di scuola superiore e che abbia la fedina penale pulita. Per coloro che non hanno ancora conseguito il diploma, lo stake viene assegnato con più gradualità negli anni e, finché non si diplomano, possono usare le risorse solo per tornare a scuola, comprare una casa o per spese mediche. Il rischio che il denaro venga impiegato male (the risk that someone “wastes the money in Las Vegas”) non è escluso dagli autori, che però sono fiduciosi che tra gli effetti della stakeholder society ci possa essere la promozione della responsabilità nell’impiego dello stake, anche con la cooperazione di scuole, genitori e tra pari (Ackerman e Alstot 1999, 75). Su quanto l’ammontare – più o meno consistente – del trasferimento possa influire sull’uso più o meno virtuoso non c’è accordo tra gli autori delle diverse proposte (Atkinson 2015, 171), né ci sono evidenze empiriche che testino i diversi comportamenti individuali.

AA sono i primi a indicare, tra le ragioni della loro proposta, la considerazione degli effetti della longevità sulla distribuzione delle risorse (Ackerman e Alstot 1999, 8). In effetti, la distribuzione della ricchezza genera enormi differenze di opportunità tra gruppi di giovani ma, anche tra i più abbienti, le successioni ereditarie tra genitori e figli avvengono oggi molto più tardi che nel passato. Se un tempo potevano arrivare quando i figli erano giovani adulti e influire in modo significativo su alcune loro scelte fondamentali, oggi riguardano per lo più cinquantenni e sessantenni. In Italia, il dato più preciso su questo aspetto risale all’indagine sui Bilanci dei redditi e della ricchezza delle famiglie italiane condotta nel 2002 dalla Banca d’Italia nella quale si chiedeva di indicare il valore dei trasferimenti di capitale (eredità e regali) fatti e ricevuti nel corso della vita, e quelli che si attendevano di fare e ricevere nel futuro. Da quell’indagine emerse che la fase della vita in cui è più alta la probabilità di ricevere eredità, pari al 43,5%, è tra i 51 e i 60 anni (Cannari e D’Alessio 2006).

Le tre proposte illustrate sono tutte e tre universali, ossia non sono vincolate al livello di reddito né del ricevente né della sua famiglia di origine e sono considerate come una sorta di dote di cittadinanza. La famiglia è, infatti, l’istituzione che ha il peso maggiore nel trasferimento della ricchezza, e più in generale nel definire le opportunità di ciascuno. Non tenere conto delle disponibilità della famiglia di origine sembra un modo per indebolirne il ruolo nel futuro dei giovani adulti, ma soprattutto può aiutare i più ricchi ad accettare l’idea di finanziarla.

A proposito del finanziamento, AA ipotizzano due fasi: nel primo periodo gli stakes sono finanziati con un’imposta che grava sui patrimoni superiori a 230 mila dollari con un’aliquota del 2%. In una seconda fase, il fondo può essere o meno accettato dal giovane che, se lo accetta, si impegna a restituirlo alla fine della propria vita. LGN ipotizzano un finanziamento con le imposte di successione, mentre A pensa a una tassazione del capitale i cui introiti siano vincolati a questo scopo.

Se si guarda alle principali innovazioni introdotte nei sistemi di welfare negli ultimi 30 anni, si può constatare – da un lato – che nessun Paese ha sperimentato la dote, così come pensata dagli autori citati, d’altra parte, l’asset-welfare agenda ha influenzato il dibattito politico, soprattutto nei Paesi anglosassoni, e politici sia di destra sia di sinistra hanno proposto, e talvolta adottato, misure che si ispirano alla dote. Se le misure proposte, o adottate, dalla destra e dalla sinistra differiscono perché sono concepite avendo in mente diversi tipi di società, un elemento condiviso è l’enfasi posta sulla responsabilità individuale. Si tratta di un’enfasi facilmente comprensibile nelle proposte della destra, ma è interessante guardare alle argomentazioni portate dagli esponenti del partito laburista inglese e tra i democratici americani. Ad esempio, l’ex Ministro degli Interni del Governo Blair, David Blunkett, sosteneva: “owning an asset helps develop individual character and responsibility; assets holding offer positive behavioural benefits. People who have material stake in society are more likely to plan ahead for themselves and their children and to care what happens in the community around them” (Prabhakar 2008). Lo stesso Bill Clinton nel 1999 aveva proposto l’apertura di conti di deposito individuali prevendendo la detassazione del risparmio con il chiaro intento di aumentare la propensione al risparmio degli statunitensi. Nel 2005 in Nuova Zelanda, il Primo Ministro laburista Helen Clark dichiarava “asset ownership is important for enabling people to participate fully in society. Assets provide people with greater security, control and independence” (Prabhakar 2008). Negli stessi anni, George W. Bush aveva fatto dell’idea della “ownership society” una parte centrale del suo programma elettorale, prevedendo conti di deposito detassati se destinati a far fronte alle spese sanitarie o alla pensione. In Australia il leader del Partito Laburista, Mark Latham, può essere considerato uno dei fautori di un programma di co-finanziamento del risparmio: in questo caso le persone erano incoraggiate a risparmiare assicurando loro una somma di co-finanziamento pubblico. Se forme di co-finanziamento del risparmio, o detassazione dello stesso se destinato alle spese sanitarie, previdenziali o per l’istruzione dei figli, si sono ormai diffuse in tutti i Paesi anglosassoni, la misura più vicina a un fondo per l’accesso alla vita adulta, così come discusso finora, è il Child Trust Fund (CTF) adottato dal Governo Blair nel 2003.

Il CTF era destinato a tutti i bambini nati dal 1° settembre 2002, che hanno ottenuto alla nascita 250 sterline, aumentate fino a 500 se nati in famiglie più povere. I soldi sono stati depositati dai genitori in un conto intestato al figlio nel quale genitori e altri famigliari potevano versare ogni anno fino a 1.200 sterline. La somma non poteva essere impiegata prima del compimento del 18° anno di età. Nel 2010-2011 il CTF è stato trasformato in Junior Individual Savings Accounts (ISA) che è definito dal governo britannico come un “long-term, tax-free savings accounts for children”. Mentre il CTF era universale, l’ISA è facoltativo, non è co-finanziato dal Governo e non ha tetti massimi di accumulo.

Negli stessi anni in cui il Governo laburista di Tony Blair introduceva il CTF, Livi Bacci (2004), allora Senatore, proponeva per l’Italia un fondo destinato a ogni nuovo nato, da alimentare con contributi pubblici e dei familiari (Livi Bacci 2004). In particolare, i genitori avrebbero potuto utilizzare fino al 50% del fondo per le spese di cura prima dei 18 anni, e il restante doveva essere speso al compimento della maggiore età, e/o nei successivi 10 anni, con precise finalità. Tra queste rientravano l’acquisto di beni strumentali, l’istruzione e la formazione, l’avvio di un’attività professionale, artigianale o imprenditoriale. In termini di finanziamento, una parte di questo fondo avrebbe dovuto essere inteso come un prestito e quindi restituito nel corso della vita adulta, mentre l’altra parte del finanziamento poteva essere assicurato abolendo la disordinata congerie di trattamenti erogati per il supporto delle famiglie con figli. Il principale obiettivo era supportare i giovani italiani a uscire dalla casa dei genitori, nell’idea di invertire la tendenza – prevalente della società italiana – di delegare alla famiglia le funzioni di protezione e di trasferimento del reddito. Questa tendenza ha, infatti, due effetti negativi: prolungare fino a tarda età la permanenza dei figli a casa dei genitori, impedendo lo sviluppo di un’indipendenza materiale e psicologica dei primi, e aumentare le diseguaglianze. La proposta era quella di articolare il fondo in relazione alle condizioni economiche della famiglia di origine, così da tener conto sia del vincolo di bilancio pubblico, sia della relazione che esiste in Italia tra numero di minori presenti nelle famiglie e diffusione della povertà. Nonostante la previsione di un’articolazione in base al reddito, la proposta di Livi Bacci è stata criticata per il suo possibile impatto distributivo, se fosse stata mantenuta la possibilità per genitori e parenti di integrare il fondo (Brandolini 2007). Detto altrimenti, si temeva che al compimento dei 18 anni di età il fondo avrebbe potuto essere molto diverso per i giovani nati in contesti familiari, e relazionali in senso ampio, più favorevoli rispetto ai nati in contesti svantaggiati. La proposta è stata dettagliata in un articolato di disegno di legge di iniziativa parlamentare, primo firmatario lo stesso Livi Bacci, nel 2007. Il disegno di legge è denominato Istituzione del Fondo per i neonati e dotazione di capitale per i Giovani (Atto Senato 1576 2007), e risulta – dal giugno 2007 – in discussione alle Commissioni permanenti Affari Costituzionali e Lavoro del Senato della Repubblica.

Di recente, in un’analisi volta a declinare le proposte di Atkinson (2015) per l’Italia, il Forum sulle Disuguaglianze e le Diversità (2019) ha riproposto la dote, e Granaglia e Morelli (2019) hanno integrato la proposta ipotizzando di finanziarla con un’imposta sui vantaggi ricevuti[4]. A parte questi contributi accademici, nel decennio passato dalla proposta di Livi Bacci ad oggi, l’unica istanza che è rimasta nell’agenda politica italiana è il riordino degli strumenti di supporto all’infanzia, descritto nel precedente paragrafo, mentre tra gli obiettivi che la dote si propone, il meno rappresentato nel dibattito pubblico riguarda la necessità di adottare misure che favoriscano l’uscita dei giovani dalle famiglie di origine. Il legislatore italiano ha fatto propria la prospettiva di larga parte dell’opinione pubblica, per cui il trasferimento delle risorse intergenerazionale avviene all’interno della famiglia, da quella di origine a quelle di nuova formazione. Continua così a preoccuparsi della riduzione dell’età pensionabile, nella convinzione che parte di quelle risorse – in denaro o in tempo a disposizione – possano essere passate ai più giovani. Come già sottolineato, questa prospettiva ha molti limiti. Il trasferimento di risorse tra generazioni che avviene all’interno della famiglia non è uguale per tutti, riduce l’autonomia materiale e psicologica dei giovani – non favorendone lo sviluppo autonomo come singoli e come coppie –, e – non sempre, ma spesso – tiene i giovani legati a luoghi con scarse opportunità di lavoro. Ne segue che questa redistribuzione delle risorse non solo non è equa, ma anche scarsamente utile alla crescita economica del Paese. La crescita richiederebbe, infatti, che i giovani italiani fossero dotati di eguali opportunità, che fossero mobili sul territorio per trovare le migliori opportunità di lavoro, e che fossero individui che si percepiscono come autonomi dalle loro famiglie di provenienza. 

5. Conclusione

L’Italia è un Paese con una distribuzione di risorse che si sono progressivamente concentrate nelle fasce di popolazione di età avanzata a discapito dei più giovani. Questo fenomeno da un lato deriva da una crescita ridotta dell’economia, dall’altro è la conseguenza delle riforme del sistema pensionistico degli inizi degli anni Novanta e delle trasformazioni avvenute nel mercato del lavoro da allora, che hanno inciso in maniera diversa sulle diverse coorti di lavoratori. Lo squilibrio evidenziato, infatti, è stato accentuato dalla crisi del 2008, ma era già emerso nel decennio precedente.

La misura che qui si propone, ossia l’assegnazione di una dote ai giovani al compimento del 18° anno di età, non deve essere intesa come alternativa a maggiori risorse impiegate per l’istruzione pubblica, o per disegnare nuove politiche per l’abitazione, per il credito ai giovani o di compensazione degli effetti negativi dell’incertezza generata dal mercato del lavoro, né è in contrasto con il progetto di riordino del sistema di supporto alle famiglie con figli. Si tratta di una misura che potrebbe essere disegnata secondo alcune delle varianti descritte, sia per importo, sia per modalità di finanziamento, sia per i possibili impieghi. L’obiettivo però dovrebbe rimanere quello di consentire ai giovani di iniziare il loro progetto di vita adulta, in autonomia dalla famiglia di origine. In questa prospettiva, potrebbero essere utili studi che approfondiscano gli aspetti comportamentali di uno strumento come questo che, ad oggi, non sono presenti nella letteratura economica o di psicologia economica. Ad esempio, sarebbe necessario investigare se, ai fini di un uso responsabile, sia più opportuno che il legislatore stabilisca i possibili utilizzi della dote (e preveda i costi e le modalità per controllarne il rispetto), o se la libertà di impiego non sia l’opzione da preferire per responsabilizzare gli individui. Potrebbe essere testata l’ipotesi, qui presa come valida, che una somma di denaro assegnato una volta per tutte contribuisca a un impiego più responsabile rispetto a un flusso di denaro più contenuto ma assegnato con continuità nel tempo, come il Reddito di cittadinanza. Anche le modalità di finanziamento dovrebbero essere oggetto di studio: ad esempio, bisognerebbe interrogarsi se la dote potrebbe raccogliere più consenso tra gli adulti se finanziata, come aveva ipotizzato Livi Bacci, con co-finanziamento pubblico del risparmio famigliare, o impiegando gli introiti – e aumentandoli – della tassazione sulle successioni. Si noti che queste due opzioni avrebbero un impatto redistributivo sostanzialmente differente, e solo la seconda favorirebbe senza dubbio l’uguaglianza delle opportunità.

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1

Il reddito familiare equivalente reale e disponibile è una misura che tiene conto della dimensione del nucleo familiare, ed è calcolato al netto delle imposte e a parità di potere di acquisto. I confronti sono generalmente fatti sulla base dell’età del capofamiglia. Questo significa che si tiene conto del numero di persone che fanno parte della famiglia ma non si tiene conto della diversa composizione della famiglia e ciò può alternare il confronto tra giovani della stessa generazione che vivono in Paesi diversi. In altre parole, se l’alta disoccupazione verificatasi nei Paesi del Sud dell’Europa ha comportato che molti giovani siano rimasti a vivere con i loro genitori, il cambiamento che si è verificato nella composizione delle famiglie, nella composizione della generazione più giovane e nel suo reddito mediano non viene così considerato.

2

Il confronto tra redditi mediani consente di considerare ipotetici individui rappresentativi della propria generazione proprio perché collocati nella parte centrale della distribuzione dei redditi.

3

Considerando la somma proposta, il fondo dovrebbe essere usato dal giovane per avere un credito più consistente da una banca.

4

Si tratterebbe di un tributo da pagare sulla somma di tutti i trasferimenti ricevuti in vita, che avrebbe una soglia di esenzione di 500 mila euro e sarebbe articolata con scaglioni e aliquote crescenti.