SINAPPSI

2019/3

Le politiche universitarie


Nel contributo si discutono le politiche universitarie in Italia (2008-2019), anche con riferimento al ruolo dell’istruzione terziaria come fattore abilitante della mobilità sociale. Ne viene data una valutazione molto critica, sia perché l’Italia ha fortemente disinvestito sull’università, sia perché le politiche hanno particolarmente colpito le regioni relativamente meno forti del Paese. Si conclude con la proposta di un intervento strutturale decennale di rilancio, in particolare delle università del Centro-Sud.

This paper deals with university policies in Italy (2008-19), partly with reference to their role in increasing social mobility in the country.  It is highly critical, for two main reasons: 1) because of the lack of funding for tertiary education; 2) because current policies severely hit universities located in more backward areas of the country. It concludes by recommending a 10-year structural plan to strengthen the universities in the center and south of the country, in particular. 

1. Introduzione

Il sistema universitario rappresenta una delle principali infrastrutture immateriali delle società e delle economie contemporanee. Come da tempo ben noto[1], esso svolge tre funzioni centrali per il progresso di ogni nazione: eroga l’istruzione superiore per i cittadini, con i conseguenti effetti sulle loro competenze e capacità; svolge attività di ricerca tanto di base quanto applicate, che nutrono anche i processi di innovazione tecnologica; interagisce con i contesti esterni, diffondendo in senso più ampio saperi e conoscenza. Con tutta probabilità, queste funzioni sono diventate negli ultimi decenni, e diventeranno nei prossimi, ancora più importanti, alla luce delle trasformazioni del mondo del lavoro e dei processi tecnologici (MIT 2019). Il sistema universitario svolge indirettamente una ulteriore funzione di capitale importanza: agevola la mobilità sociale. L’acquisizione di conoscenze è un fattore particolarmente importante per consentire a cittadini di estrazione sociale più modesta di accedere a lavori e funzioni di rango più elevato, e quindi migliorare, nel passaggio generazionale, la propria condizione.

La dimensione e l’intensità di questi effetti dipendono, oltre che dalle differenti condizioni strutturali, anche dalla dimensione dell’investimento che ciascun Paese effettua sul proprio sistema universitario, e dalla qualità con cui esso riesce a svolgere il proprio ruolo. Sul primo aspetto sono disponibili dati e informazioni completi su lunghi archi temporali[2], mentre le misure del secondo sono soggette ad ampia incertezza e a una intensa discussione. Un ulteriore, importante, elemento va sottolineato: l’impatto del sistema universitario ha tanto una dimensione nazionale e internazionale, quanto una dimensione locale (Valero e Van Reenen 2016): le sorti, economiche e sociali, delle regioni appaiono specificamente legate anche alla presenza sul proprio territorio di istituzioni universitarie; allo stesso modo i fenomeni di mobilità sociale mostrano anche una dimensione locale[3] – essendo differenti in diversi contesti infra-nazionali – e sono quindi collegati anche all’azione delle università.

Sotto tutti questi aspetti la situazione italiana rileva elementi di criticità; rimandando a più specifiche analisi comparative[4], va ricordato che l’investimento nell’università italiana è ben più piccolo di quello dei Paesi comparabili all’Italia: la spesa per l’istruzione terziaria è inferiore all’1% del PIL, contro una media dei Paesi OCSE superiore all’1,5% (Anvur 2018). Conseguentemente, i livelli di istruzione, tanto dell’insieme della popolazione quanto delle fasce più giovani, sono assai più modesti. È contenuta la mobilità sociale e insufficiente il ruolo che l’università svolge per favorirla. Inoltre, l’Italia soffre in maniera accentuata di disparità territoriali, che si riflettono in gap significativi sotto tutti questi aspetti.

Tutto ciò premesso, questo testo ha il fine di argomentare come, a partire dal 2008 siano in corso nel nostro Paese politiche universitarie che vanno, salvo modeste eccezioni, nella direzione opposta a quella desiderabile e necessaria; esse stanno contribuendo a una riduzione strutturale dell’università, e a una consistente accentuazione delle disparità territoriali. Rinviando a più complete analisi (Viesti 2016a; 2017b; 2018), in queste pagine ci si concentrerà su alcuni degli aspetti più rilevanti per il ruolo di ‘ascensore sociale’ dell’università, e in particolare sui nessi fra modalità di finanziamento dell’università, variazioni del corpo docente e immatricolazioni degli studenti. Il tutto con particolare riferimento alle disparità territoriali. In particolare, nel secondo paragrafo sarà tratteggiato il quadro d’insieme delle politiche; nel terzo paragrafo saranno sottolineati alcuni dei suoi aspetti selettivi su base territoriale. Alla luce di queste considerazioni, nel quarto paragrafo si formulerà una proposta di politica economica.

2. Il quadro d’insieme

Partiamo da alcuni principali elementi del quadro d’insieme. A partire dal 2008 il finanziamento dell’università italiana è radicalmente mutato: le risorse pubbliche disponibili si sono ridotte, è cresciuto il peso di quelle private e la contribuzione delle famiglie si è incrementata. Il fondo pubblico di finanziamento ordinario (FFO) delle università è sceso dai 7,3 miliardi del 2008 ai 7 del 2018 in valori nominali, corrispondente a una riduzione in termini reali di circa un sesto. Si consideri, per comparazione[5], che il finanziamento pubblico dell’università ammonta a 30,5 miliardi in Germania (2017) e a 20 in Francia (2016), in entrambi i casi con un aumento negli ultimi anni. Al minore finanziamento pubblico corrisponde una dimensione del sistema universitario italiano assai minore di quelle degli altri principali Paesi OCSE per tutte le variabili più rilevanti (Viesti 2017a). L’Italia ha deciso di ridurre l’investimento, già esiguo, in una delle sue principali infrastrutture immateriali.

La riduzione del FFO si è accompagnata a un aumento del peso delle risorse private sulle entrate degli atenei, tali che il finanziamento statale oggi rappresenta solo i 2/3 del totale: una quota inferiore alla media dell’OCSE, che comprende anche Paesi nei quali la formazione universitaria è largamente finanziata dal privato. Il contributo delle famiglie supera ormai il 30% del totale (Anvur 2018), percentuale ampiamente superiore alla media OCSE. Stando all’Unione degli Universitari (UDU 2018) il suo importo era superiore a 1,5 miliardi nel 2015, con un incremento del 17% rispetto al 2008. Ad esso corrisponde un investimento in borse e servizi per gli studenti largamente insoddisfacente (Viesti 2016a; 2017a).

Alla contrazione dell’investimento pubblico e all’incremento della contribuzione delle famiglie è corrisposto un sensibile calo delle immatricolazioni e poi delle iscrizioni negli atenei, per la prima volta nella storia d’Italia (Viesti 2016a). Gli iscritti alle università italiane sono costantemente cresciuti nella storia del Paese, superando la cifra di 1 milione 800 mila per gli anni fra il 2003 e il 2008. Successivamente si sono ridotti, scendendo a meno di 1 milione e 700 mila, con un minimo di 1.654.000 nel 2015-16 e una successiva lieve ripresa; con tassi di iscrizione all’università (calcolati tanto rispetto alla popolazione giovane quanto ai diplomati) inferiori rispetto agli altri Paesi OCSE (Anvur 2018). Le immatricolazioni sono influenzate anche dalle dinamiche demografiche, che in Italia stanno comportando, e comporteranno sempre più, una diminuzione della consistenza delle classi di età più giovani. Tuttavia, il calo delle iscrizioni è stato dovuto in maniera rilevante anche alla riduzione dei tassi di passaggio dalla secondaria; esso sembra poi concentrato nelle fasce di popolazione più debole, come testimoniato da un calo delle immatricolazioni dei diplomati degli istituti tecnici e professionali (Cersosimo et al. 2016b). Al riguardo va ricordato come già le probabilità di immatricolazione all’università in Italia fossero maggiori per gli studenti provenienti da famiglie a maggior reddito e a maggiore istruzione. Elaborazioni della Banca d’Italia mostrano che l’aumento del costo delle università – specie in un periodo di grave crisi economica come quello attraversato dal nostro Paese – ha influenzato negativamente le iscrizioni, in particolare per le famiglie più deboli (De Angelis et al. 2016). La politica universitaria ha comportato dunque una riduzione delle possibilità di mobilità sociale – per mezzo dell’istruzione superiore – nel nostro Paese.

Nel periodo più recente, vi è stato qualche segnale di allentamento della stretta. Particolarmente interessante sembra essere stata la disposizione che esenta integralmente dal pagamento della contribuzione universitaria i giovani provenienti da famiglie di condizione economica più modesta (no-tax area). La disposizione riguarda nel 2017-18 circa il 10% degli iscritti (Pizzella 2019b) e ha certamente contribuito all’incremento delle immatricolazioni negli anni più recenti[6]. È inoltre notevolmente migliorata in tutte le regioni, con la significativa eccezione della Sicilia, la capacità di erogare borse di studio a tutti gli iscritti idonei a riceverle, riducendo il triste fenomeno italiano degli “idonei senza borsa” (Pizzella 2019a).

Alla riduzione del finanziamento ha corrisposto anche un prolungato blocco degli ingressi di nuovo personale nelle università. A partire dal 2012 sono state concesse agli atenei possibilità di reclutamento assai inferiori alle uscite; in termini di punti organico[7] a fronte di oltre 16.500 cessazioni fra il 2012 e il 2019 ci sono state solo poco più di 9.500 nuove disponibilità: se ne parlerà più ampiamente nel prossimo paragrafo. Ad esse ha corrisposto un’esplosione delle posizioni precarie e sottopagate per far fronte alle necessità didattiche (Azzolina e Pavolini 2016). Anche questo ha contribuito alla riduzione della mobilità sociale nel nostro Paese, tenendo chiuse le porte degli atenei per un’intera generazione di giovani (Cersosimo et al. 2018), in particolare quelli di estrazione sociale più modesta, non in grado di sopportare lunghi anni di precariato e favorendo l’emigrazione dei cervelli.

3. La compressione selettiva e cumulativa

L’insieme delle decisioni dell’ultimo decennio disegna un quadro preoccupante del sistema universitario italiano. Ma tale preoccupazione si accresce notevolmente se si considera che le politiche hanno comportato un impatto selettivo sul piano geografico assai più forte della media nazionale nel Mezzogiorno (e in particolare nelle Isole), nelle regioni del Centro e nel Nord periferico (Banfi e Viesti 2016; Viesti 2017b); e che esse hanno messo in moto meccanismi cumulativi nel tempo, per cui gli scarti che si sono creati all’interno del sistema tendono automaticamente ad ampliarsi.

Questo effetto è frutto di un complesso insieme di decisioni prese prevalentemente in sede regolamentare, in mancanza di una discussione trasparente nel Paese e nel Parlamento (Viesti 2018), tanto sulla loro portata quanto sui loro effetti. Decisioni sostenute da una campagna politico-culturale volta a una vera e propria demonizzazione di una parte del sistema universitario nazionale (Pasimeni 2016); dalla prima pagina del Corriere della Sera si è arrivati a chiedere al Governo la chiusura delle università di Urbino, Bari e Messina, considerate ‘fabbriche di illusioni’ e a invocare un aumento della tassazione universitaria[8].

È possibile fornire qualche elemento conoscitivo su questo processo analizzando le dinamiche dei 15 maggiori atenei italiani, con dati sull’assegnazione del FFO (a partire dal 2008) e dei punti organico (a partire dal 2012), tratti dai decreti del MIUR.

La tabella 1 mostra i dati sul FFO. A fronte di una riduzione su scala nazionale del 4%, fra il 2008 e il 2018 si registrano incrementi nominali per alcuni atenei del Nord (equivalenti a riduzioni in termini reali) a fronte di diminuzioni superiori al 20% per Messina e Palermo: cioè una riduzione in termini reali intorno a un terzo. In un solo decennio si è ridotta di un terzo la dimensione di atenei plurisecolari come quelli siciliani.

 

Tabella 1 Il finanziamento pubblico delle principali università italiane FFO, 2008 e 2018, milioni di euro

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Fonte: elaborazioni dell'Autore su decreti MIUR

Le dinamiche del FFO collocano le università in una graduatoria largamente corrispondente al reddito pro-capite dei territori di insediamento. In Banfi e Viesti (2016), cui si rimanda, si è documentato dettagliatamente come questo sia avvenuto in seguito alle modifiche dei meccanismi di riparto del finanziamento[9] e a ripetuti e mirati cambiamenti nei parametri di calcolo. Per le finalità di questo scritto vale ricordare che uno dei parametri utilizzato è relativo alla velocità degli studenti nell’arrivare alla laurea triennale: un parametro cioè che premia anche le diverse competenze di partenza degli immatricolati, piuttosto diverse sul territorio nazionale.

I grandi scarti nel finanziamento alle università sono anche dovuti a un utilizzo sempre più esteso dei risultati degli esercizi di valutazione della qualità della ricerca (VQR)[10] ai fini della determinazione del riparto delle decrescenti risorse disponibili, attraverso la cosiddetta ‘quota premiale’ del FFO[11]. A ciò va aggiunto che nel 2017 si è deciso di varare un provvedimento di finanziamento straordinario a ‘dipartimenti di eccellenza’ (Viesti 2017c): individuati con gli stessi criteri della quota premiale e dopo che gli esiti dell’ultima VQR erano già noti; utilizzando cioè due volte gli stessi dati per segmentare ulteriormente il sistema universitario. Naturalmente, come del tutto ovvio, 106 dipartimenti di eccellenza su 180 sono negli atenei del Nord, 49 in quelli del Centro e 25 in quelli del Sud; nell’area della medicina nel Mezzogiorno vi è un solo dipartimento di eccellenza sui 20 complessivi, con conseguenti prevedibili effetti di incremento dei divari nei sistemi sanitari regionali. Lo squilibrio territoriale nell’università è stato accompagnato da decisioni localizzative nell’ambito delle politiche per la ricerca, come quella relativa allo Human Technopole a Milano (Viesti 2018).

La riduzione del personale universitario[12] è stata un complemento indispensabile al calo del finanziamento delle università: gli stipendi del personale, in Italia come altrove, rappresentano una quota largamente preponderante dei costi degli atenei (Cersosimo et al. 2018). In questa sede può essere interessante concentrare l’attenzione sull’esito, sempre per i principali 15 atenei del Paese, dei meccanismi di allocazione dei già citati punti organico per il reclutamento. A tal fine sono state calcolate le complessive cessazioni e le nuove disponibilità, per il periodo 2012-2019 (prime tre colonne della tabella 2).

 

Tabella 2 ll turnover nelle principali università italiane. Cessazioni e nuove disponiblità, in termini di punti organico, 2012-2019

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Fonte: elaborazioni dell'Autore su decreti MIUR

La situazione ricalca e accentua quanto già visto per il FFO. A fronte di un turn over (disponibilità in percentuale delle cessazioni) nazionale pari al 57,6%, il Politecnico di Milano supera il 120%; il turn over si colloca per gli altri maggiori atenei del Nord fra il 66% e il 77%; scende fra il 40% e il 50% per quelli del Centro, Genova, Napoli e Bari e sotto il 40% per le università siciliane. Ma perché queste differenze così forti?

Coerentemente con la scelta politica di selettività geografica dei tagli, nel 2012 l’allora ministro dell’Istruzione, università e ricerca decise che il tasso di turn over dovesse essere diverso per i singoli atenei. Come calcolarlo? Fu costruito un algoritmo piuttosto complesso[13], poi costantemente riconfermato. Il principale indicatore misura il costo del personale ‘a carico ateneo’[14], e altri costi (ammortamenti e fitti) in relazione alle entrate complessive, date dal FFO e dalle tasse pagate dagli studenti[15]. Si noti subito che, con le dinamiche di riduzione selettiva su base territoriale del FFO in corso già dal 2008, l’indicatore era già peggiorato (ed è ulteriormente peggiorato negli anni successivi) per gli atenei delle aree più deboli del Paese: a fronte di costi incomprimibili per il personale in servizio si erano ridotti i finanziamenti pubblici, peggiorando il valore dell’indicatore e quindi le possibilità di nuove assunzioni. La politica selettiva sul FFO ha influenzato direttamente la politica del turn over.

Ma, come appena ricordato, tale indicatore considera nelle entrate degli atenei anche il gettito delle tasse degli studenti. Esso assume un valore positivo: chi incassa più tasse dagli studenti ‘merita’ maggiori possibilità di turn over. Indirizzo che appare in aperto contrasto con la normativa allora e ancora oggi vigente che pone un tetto alle entrate contributive[16], ritenendo evidentemente il legislatore che nel sistema universitario pubblico italiano il contributo delle famiglie – anche se necessario per le difficili condizioni della finanza pubblica – dovesse essere calmierato. Non è più così: nel 2016 per ben 33 atenei (su 59) tale limite risultava superato (UDU 2018).

Le politiche di tassazione delle università sono basate su importi crescenti per scaglioni di reddito familiare. Tali importi sono stati notevolmente incrementati, così che fra il 2008 e il 2015 il gettito della contribuzione studentesca è aumentato del 33% nel Mezzogiorno, del 24% al Nord, e ‘solo’ del 17% negli atenei del Centro (UDU 2018). Ma il gettito, oltre che dalle scelte degli atenei, dipende in misura cruciale dal reddito medio delle famiglie degli studenti. Come si vede dalla tabella 3, tale reddito è assai diverso per i singoli atenei: al Politecnico di Milano è quasi il doppio rispetto alle università del Mezzogiorno; e conseguentemente, nonostante l’aumento delle tasse, lo è la contribuzione media per studente.

 

Tabella 3 Redditi delle famiglie e contribuzione media studentesca

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(a) reddito medio dei genitori, migliaia di euro, (valore mediano), a.a. 2014-15.

Fonte: Istat 2016, tav. 2.8

(b) contribuzione media per studente, euro, a.a. 2013-14.

Fonte: Anvur 2016, tab 1.2.2. A2 e a.a. 2016-17 Anvur 2018, tab A.1.3.2.1

La contribuzione studentesca vale nel 2015 intorno al 20% del FFO per le università del Centro-Sud e dal 29 al 37% per quelli del Nord (tabella 4). Questo gettito accresce il totale delle entrate degli atenei, sommandosi al FFO (che diminuisce più intensamente nel Centro-Sud), determinando un turn over molto diverso.

 

Tabella 4 Entrate universitarie, 2015, milioni di euro

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Fonte: elaborazioni dell’Autore su decreti MIUR (a) e UDU (2018) (b)

Pur essendo norme che dovevano ripartire fra gli atenei il ‘sacrificio’ in termini di mancato turn over, esse hanno anche permesso a quelli posizionati meglio di superare il 100%, riducendo ancor più le possibilità di reclutamento per quelli collocati peggio. Nel 2018 e nel 2019 si è tornati a un turn over di sistema pari al 100% ma (come si vede dalle ultime due colonne della tabella 2, antea) esso è stato addirittura del 237% nel 2018 e 262% nel 2019 per il Politecnico di Milano, superiore al 100% per gli altri atenei del Nord; inferiore al 100% per quelli del Centro-Sud e per Genova, con punte anche sotto il 70%.

Questi ultimi dati hanno un significato molto importante. Essi mostrano che questa politica non ha determinato una correzione una tantum nei flussi di entrata di nuovo personale universitario, in connessione con le politiche di austerità. Essa determina – insieme e in combinazione con le regole di attribuzione del FFO – una frattura strutturale nel sistema. Alcune sedi universitarie, tutte al Nord, hanno permanentemente un maggiore turn over, e la conseguente possibilità di ricostituire quantitativamente, rinnovare e poi far crescere scientificamente il proprio corpo docente. In altre sedi questo non avviene. Un congruo numero di punti organico consente di mantenere o incrementare il numero dei corsi di studio, di immettere in servizio giovani docenti, più rapide progressioni di carriera al personale già in servizio[17].

Tutto ciò crea potenti effetti indotti. I ricercatori più giovani normalmente producono un miglioramento nella VQR delle sedi che li reclutano, anche perché ‘allenati’ a condurre la propria attività scientifica e a pubblicare in modo da massimizzare la valutazione dei propri lavori (Cassese 2013). Migliorando la VQR si accresce il FFO; accrescendosi il FFO aumentano i punti organico.

Le politiche universitarie hanno contribuito, con l’aumento della tassazione, al calo delle immatricolazioni nel sistema universitario italiano. Tale calo è stato decisamente più forte per i residenti nel Mezzogiorno (Cersosimo et al. 2016b). Certo, esso è influenzato da peggiori dinamiche demografiche, mancando al Sud gran parte del contributo positivo fornito dalla popolazione immigrata. Ma è conseguenza anche di una maggiore riduzione dei tassi di passaggio dalle scuole superiori all’università, connessa all’aumento del costo degli studi. Ancora più forte è stato il calo delle iscrizioni per gli atenei del Mezzogiorno (tabella 5), dato che è cresciuto il flusso dei residenti al Sud che si immatricolano negli atenei del Centro-Nord (Cersosimo et al. 2016a e 2018; Viesti 2019c), in particolare del Nord e soprattutto a partire da alcune regioni e per i corsi magistrali. Tali flussi di mobilità hanno cause molteplici e contemporanee, a partire dalle opportunità di lavoro e retribuzione ben diverse esistenti nelle diverse circoscrizioni del Paese. Tuttavia, sono stati incentivati dalle politiche universitarie dell’ultimo decennio: fatto testimoniato dal calo ben maggiore nel Mezzogiorno dell’offerta didattica disponibile per gli studenti (Viesti 2019c), conseguente alle dinamiche del corpo docente.

 

Tabella 5 Iscritti nelle università, 2010-11 e 2017-18

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Fonte: elaborazioni su dati MIUR-ANS

Riduzione del FFO e insufficiente turn over influenzano le iscrizioni, attraverso la contrazione dell’offerta didattica; ma la riduzione delle iscrizioni a sua volta influenza e influenzerà sempre più il FFO (quindi il turn over e quindi l’offerta didattica), dato che una quota crescente dello stesso fondo è parametrata al numero di iscritti. Un ennesimo circolo vizioso, impossibile da spezzare.

4. Una proposta

Per quanto si è potuto qui brevemente argomentare, le politiche universitarie italiane dell’ultimo decennio appaiono assolutamente discutibili. Esse tendono a configurare un sistema sempre più piccolo, non in grado di far recuperare all’Italia gli scarti nell’istruzione terziaria dei più giovani, esistenti con gli altri Paesi, anche dell’Est Europa; di contribuire allo sviluppo delle attività di ricerca; di diffondere nella società cultura e conoscenza.

Ma è un sistema anche molto più squilibrato al suo interno, fra sedi e territori. Come è possibile vedere anche dai pochi elementi presentati in precedenza, perdurando queste politiche, il sistema tende a squilibrarsi sempre più. Da un lato, vi è un numero limitato di università in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna (più Torino e Trento), meglio protette dai tagli al finanziamento e al personale docente e in grado di recuperare gli effetti degli anni di maggiore riduzione delle risorse finanziarie e umane. Esse sono favorite anche dalla loro collocazione geografica, in aree in cui i redditi sono più alti e quindi è più facile finanziarsi con la tassazione; in cui il sistema imprenditoriale è più denso, e quindi è possibile rafforzare collaborazioni università-imprese; in cui le dinamiche del mercato del lavoro sono relativamente migliori, potente fattore di attrazione di studenti. Dall’altro vi è il resto del sistema: tutte le università da Firenze in giù, ma anche quelle del Nord periferico, con difficoltà persistenti, per quanto differenziate, e le università delle Isole e alcune delle più piccole del Centro-Sud, alle prese con un vero e proprio tracollo di risorse umane e finanziarie. Sono in atto circuiti virtuosi da un lato, e viziosi dall’altro che paiono inarrestabili e che possono essere condizionati solo marginalmente, e certamente non invertiti, dalla gestione degli atenei. Anzi, vengono avanzate proposte (Casalone e Checchi 2018) per segmentare ulteriormente il sistema fra ‘università di ricerca’ e ‘università di insegnamento’, o per organizzare il sistema universitario su base regionale, con le proposte di ‘autonomia regionale differenziata’ (Viesti 2019a).

Il ruolo decrescente del finanziamento pubblico, l’accrescersi della contribuzione studentesca in presenza di modeste politiche di diritto allo studio, la differenziazione quali-quantitativa del sistema, l’emergere di un ristretto nucleo di atenei ‘di punta’, tendono a rendere l’università italiana più simile al modello anglosassone, allontanandosi da quello continentale. Questo potrebbe avere conseguenze rilevanti sul ruolo dell’università come ascensore sociale. Non è questa la sede per argomentare compiutamente su questi temi, ma vale la pena ricordare le recenti analisi di Branko Milanovic (2019, 59-62)[18] sui nessi fra configurazione degli atenei e mobilità sociale negli USA, e la sua avvertenza che tali processi si stanno avviando anche in Europa, come sembra evidente nel caso italiano.

Una riflessione a sé merita il Mezzogiorno. In un quadro nazionale di grandi difficoltà economiche, le dinamiche recenti delle regioni del Sud – cui purtroppo è sempre più possibile assimilare parti dell’Italia centrale – sono preoccupanti. Il Sud soffre in maniera accentuata delle difficoltà delle aree europee a sviluppo intermedio (Viesti 2019b), meno competitive sui costi rispetto all’Est, ma meno innovative rispetto al Nord Europa. In questa situazione è evidente che l’innalzamento dei livelli di istruzione delle forze di lavoro, e della popolazione in generale, oggi assai modesti, così come la diffusione delle conoscenze e delle innovazioni rappresentano fondamentali pre-requisiti per qualsiasi politica di sviluppo. Le politiche universitarie stanno però andando in direzione opposta; stanno determinando un depauperamento cumulativo della capacità del sistema universitario di contribuire, attraverso didattica, ricerca e ‘terza missione’ allo sviluppo regionale.

Rimediare a queste politiche e impedire il rafforzamento cumulativo dei loro effetti non è affatto facile; come si è provato ad argomentare, infatti, non si è trattato di tagli una tantum, ma di una profonda modifica dei meccanismi di funzionamento del sistema, volta a determinarne una configurazione assai diversa da quella di partenza. Sembra indispensabile una discussione aperta e documentata sulle sue principali regole, tanto relative alla definizione e al riparto del FFO, nella sua quota base e in quella cosiddetta premiale, quanto relative alla definizione delle possibilità di reclutamento attraverso i punti organico. Si dovrebbe quantomeno rivedere il peso spropositato attribuito ai dati che scaturiscono dalla valutazione della qualità della ricerca ed eliminare i riferimenti al gettito contributivo come criterio premiale per il reclutamento. Discussione estremamente difficile: in mancanza di un deciso incremento di risorse per l’intero comparto universitario, ogni modifica dei criteri non può che determinare una redistribuzione di risorse fra atenei in senso inverso a quanto avvenuto nell’ultimo decennio; essa si prospetta assai difficile dato il notevole potere di influenza, tanto nella associazione dei rettori, quanto sulla politica e sull’opinione pubblica, degli atenei relativamente beneficiati negli ultimi anni.

Per rompere i circoli viziosi di cui si è detto, appare indispensabile un intervento strutturale di potenziamento del sistema universitario dell’intero Centro-Sud, esteso alle regioni del Mezzogiorno ma quantomeno anche a Lazio, Umbria e Marche.

Una strategia decennale di progressivo potenziamento di dipartimenti universitari in queste regioni potrebbe vertere su un sistema di bandi per progetti di sviluppo ripetuti nel tempo, con meccanismi di verifica delle attività, e con una copertura territoriale e disciplinare crescente. Potrebbero essere finanziati sia il reclutamento sia le borse di studio. Il reclutamento dovrebbe riguardare in primo luogo nuovi ricercatori (RTD-B con abilitazione di seconda fascia), con normali concorsi e per posizioni permanenti. Possono anche essere immaginate forme di mobilità incentivata per personale docente italiano e straniero proveniente sia da altre sedi italiane sia, soprattutto dall’estero; su base permanente o con contratti pluriennali. L’attuale personale, rafforzato con i giovani ricercatori permanenti e i nuovi docenti, potrebbe progressivamente potenziare l’offerta formativa, sino a lauree magistrali e dottorati di riconosciuta qualità. Tali corsi potenzierebbero l’università italiana nel suo insieme e favorirebbero una mobilità circolare, e non solo unidirezionale verso il Nord, degli studenti. La strategia potrebbe puntare anche, molto, sull’apertura internazionale, con una parte dei nuovi corsi in inglese. A tutto ciò dovrebbe accompagnarsi un cospicuo potenziamento delle borse di studio, per gli studenti italiani e per gli studenti stranieri, attraverso un programma permanente per attrarli in queste università, preferibilmente dell’area mediterranea, balcanica e africana. Una importante misura di politica di cooperazione internazionale, con riflessi positivi sull’intero Paese.

Le risorse per finanziarlo dovrebbero provenire dal FFO, attraverso un suo aumento costante, e mirato a questo fine. Per consentire un suo ampio dimensionamento, sin dall’inizio si potrebbe anche pensare a un intervento di cofinanziamento nelle fasi iniziali con risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione (FSC). In Italia esiste formalmente, anche se ormai debole e trascurata, una politica nazionale per lo sviluppo territoriale; essa si alimenta delle risorse del FSC, destinate per l’80% al Mezzogiorno e per il 20% al Centro-Nord (Viesti 2016b). Esse vengono destinate a finanziare interventi in conto capitale, tanto per contributi agli investimenti privati quanto per le infrastrutture. Potrebbero essere estese a finanziare questo intervento strategico, considerando che un potenziamento strutturale del sistema universitario è del tutto assimilabile a una spesa per investimento. Si potrebbe così accedere a significative risorse aggiuntive pluriennali, sia a valere sulle cospicue risorse sinora inutilizzate del FSC (ancora del 2007-2013 e soprattutto del 2014-2020), sia programmando a tal fine quelle del prossimo periodo di programmazione 2021-2027. L’intervento di cofinanziamento dovrebbe essere decrescente nel tempo e dopo alcuni anni azzerarsi, essendo inteso come un contributo allo sviluppo; esso potrebbe rendere questa strategia più facilmente accettabile dall’intero sistema universitario e non solo dalle regioni beneficiarie.

Il tutto va naturalmente meglio dettagliato, precisato, verificato nelle sue compatibilità finanziarie e nel dimensionamento. Ma l’obiettivo finale è evidente: rafforzare in tutte le regioni italiane, anche al Centro-Sud, poli universitari differenziati e plurali, aperti al contributo di docenti esterni e alimentati da un numero crescente di giovani ricercatori permanenti, volti a fornire un’ampia offerta formativa agli studenti italiani e ad attrarne dall’estero.

La grande questione non è tanto come farlo, questione cui non può non essere dedicata la necessaria attenzione. Ma convincersi della sua necessità politica. Il che equivale a riaffermare la centralità di due grandi obiettivi per il sistema Paese nel XXI secolo: avere un sistema universitario forte in tutti i suoi territori; puntare sul rafforzamento dell’istruzione e della ricerca come leva competitiva per il rilancio economico e sociale del Mezzogiorno e delle aree più deboli.

Bibliografia

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1

L’Autore desidera ringraziare Domenico Cersosimo e Rosanna Nisticò dell’Università della Calabria e Francesco Prota dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro per gli utili commenti su una prima stesura.

Della enorme letteratura disponibile si può fare riferimento, per tutti, a Visco (2014).

2

Si vedano gli annuali rapporti Education at a glance dell’OCSE, o i dati della European University Association su www.eua.eu.

3

Per riferimenti bibliografici, anche sul caso italiano, si veda l’interessante, recentissimo, Bloise (2019).

4

Per una recente analisi comparata della situazione italiana sia consentito rimandare a Viesti (2017a).

5

I dati sono stati estratti da www.eua.eu il 31.10.2019.

6

Tuttavia, come nota il CUN (2019), “dal punto di vista della tassazione ha avuto effetti quasi esclusivamente redistributivi a causa dell’esiguità del fondo messo a disposizione delle università per compensare gli esoneri”.

7

I punti organico sono una misura che standardizza il costo delle diverse figure presenti nelle università italiane, con valore pari a 1 per i professori ordinari, e proporzionalmente minori per associati e ricercatori. Si tenga presente che essi vengono utilizzati tanto per i nuovi reclutamenti quanto per le progressioni di carriera del personale in servizio.

8

L’affermazione sulle fabbriche di illusioni è di Francesco Giavazzi, sul Corriere della Sera del 19 agosto 2013. In ripetuti interventi tanto Alberto Alesina e Francesco Giavazzi quanto Roger Abravenel hanno sostenuto l’opportunità di un incremento della tassazione. Per una ampia documentazione si veda www.roars.it.

9

Per un quadro aggiornato di queste regole si può vedere CUN (2019).

10

Una discussione della VQR è al di là degli scopi di questo scritto. Però va quantomeno ricordato che: a) in altri Paesi europei meccanismi premiali sono aggiuntivi al finanziamento ordinario e non utilizzati come in Italia per ripartire il FFO; b) le opportune attività di valutazione dovrebbero avere come obiettivo il miglioramento di tutti gli atenei, mentre in Italia essi, comportando una drastica riduzione di finanziamenti per quelli ritenuti più deboli, lo rendono quasi impossibile; c) nell’utilizzare i dati della VQR per il FFO si sono utilizzati algoritmi che hanno notevolmente ampliato le differenze fra atenei. Quanto ai meccanismi della VQR, sono stati espressi molti e convincenti dubbi: essi dovrebbero suggerire di non utilizzarli, specie in misura così incisiva, come chiavi di riparto. Una amplissima e approfondita documentazione è su www.roars.it. Si vedano ad esempio Baccini e De Nicolao (2016), Baccini et al. (2019).

11

Nel 2018 il 13,8% del FFO è allocato in base alla VQR (il 60% della cosiddetta quota premiale).

12

Insieme al blocco degli incrementi stipendiali per i docenti nel 2011-2015.

13

Per il 2012 è stato costruito un foglio di calcolo con 23 colonne.

14

Già questa definizione induce distorsioni dato che per quell’anno per gli atenei toscani, sardi, lucani figuravano contabilmente significativi “finanziamenti esterni per spese di personale” che ne miglioravano significativamente la posizione relativa rispetto agli altri.

15

Vi è anche un indicatore riferito all’indebitamento degli atenei, ma con un ruolo minore, rilevante solo in alcune situazioni.

16

Il D.P.R. 25 luglio 1997, n. 306, pone un limite del 20% alle entrate contributive rispetto al FFO. La normativa è stata modificata escludendo prima il gettito dei fuoricorso e poi quello degli studenti internazionali, ma vi sono incertezze in merito per i ricorsi avviati da organizzazioni studentesche presso la giustizia amministrativa. Si veda UDU (2018).

17

I dati sull’utilizzo dei punti organico e sulle dinamiche del corpo docente mostrano (Cersosimo et al. 2018) che nell’università italiana i punti organico sono stati prevalentemente utilizzati per progressioni di carriera; in misura minore ma crescente, per l’immissione di nuovo personale. La mobilità fra sedi del personale docente, fenomeno positivo per molte ragioni, si è ridotta ai minimi termini. Certamente, con queste regole, la mobilità del personale verso le sedi del Centro-Sud non ha alcuna possibilità di crescere.

18

Ad esempio: “the cost of private education, which has increased several times faster than the general cost of living or the real income of households in the United States, makes it very difficult for middle-class families to afford to educate their children” (p. 59). Il rafforzamento degli atenei più prestigiosi “sends a strong signal that those who have studied at such schools are not only from the rich families but must be intellectually superior” (p. 60) così che “ten years after starting college, the top decile of earners from all colleges had a median salary of $68,000, while graduates from the ten top colleges had a median salary of $220,000” (p. 61). E così “as the rich realize the advantages of expensive private education, their willingness to pay high tuition enables those schools to attract the best professors” e “as the rich continue to separate themselves, their willingness to pay taxes for public education diminishes”.