SINAPPSI

2019/3

La diseguaglianza generazionale legata ai meccanismi che regolano il mercato del lavoro italiano affonda le radici nella bassa mobilità sociale, nella mancata propensione del sistema produttivo a investire nell’innovazione, nella domanda di lavoro flessibile e a basso costo espressa dalle imprese, ma trova alimento nella debolezza e inadeguatezza delle politiche pubbliche. L’articolo analizza il sistema di regole che determina l’accesso al sostegno economico previsto per i lavoratori e le lavoratrici dipendenti che perdono involontariamente il lavoro. L’analisi evidenzia l’effetto discriminatorio di tali regole sui giovani. Attraverso i microdati di fonte CICO, Campione integrato delle comunicazioni obbligatorie, predisposto e messo a disposizione dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, viene verificata e quantificata la difficoltà dei giovani disoccupati ad accedere ai trattamenti di sostegno al reddito della Nuova assicurazione sociale per l’impiego.

The generational inequality linked to the mechanisms governing the Italian labor market has its roots in low social mobility, in a production system disinclined to invest in innovation, and in companies’ demand for flexible and low-cost labor—and it is fed by weak and inadequate public policies. The article analyzes the rules that determine access to financial support provided for dependent workers who involuntarily lose their jobs. It highlights the discriminatory effects of these rules on young people. Using micro-data from CICO sources (Campione integrato delle comunicazioni obbligatorie), by the Ministry of Labor and Social Policies, the paper checks and quantifies the difficulty of unemployed youth in accessing Italian unemployment insurance (Nuova assicurazione sociale per l’impiego). 

1. Introduzione

La diseguaglianza è un fenomeno complesso che genera l’alterazione dei principi di equità su cui si fondano le democrazie occidentali. “È compito della Repubblica” – recita l’articolo 3 della Costituzione italiana – “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In termini generali, la diseguaglianza si evidenzia nei diversi trattamenti che lo Stato riserva a cittadini che, essendo tutti uguali, meriterebbero lo stesso trattamento. Le differenze esistenti tra i gruppi di una collettività sono definite diseguaglianze quando evidenziano il possesso maggiore o minore di risorse rilevanti, quale esito di una discriminazione negativa o positiva subita da un gruppo sociale in confronto con altri gruppi sociali (Ferragina 2013). Il termine diseguaglianza andrebbe riservato alle situazioni in cui l’accesso differenziato alle risorse e alle opportunità sociali è il frutto dell’azione di meccanismi sociali istituzionalizzati più che del merito o delle doti degli individui. Nel concetto di diseguaglianza, infatti, è del tutto implicito il riferimento a un’idea di giustizia coincidente con l’uguaglianza di opportunità.

Adottando una prima parziale schematizzazione, le diseguaglianze si declinano su tre livelli: quello del trattamento, quello delle opportunità e quello della condizione. Nella realtà quotidiana questi tre livelli tendono a interagire costantemente e, proprio in quanto fenomeno complesso, l’analisi della diseguaglianza deve interrogarsi sulle cause culturali, economiche e sociali che la originano. Occorre, infine, riflettere sulle politiche più appropriate per favorire la realizzazione dei singoli e una crescita più inclusiva (Franzini e Raitano 2011).

Questo lavoro affronterà il tema della diseguaglianza generazionale intesa come distanza tra giovani e non giovani in una stessa categoria sociale: i lavoratori e le lavoratrici che perdono involontariamente il lavoro. In particolare, concentreremo la nostra attenzione sul diritto dei giovani a godere di un aiuto economico, un sussidio al reddito in caso di disoccupazione involontaria, in modo uguale al resto della popolazione attiva.

Nel paragrafo successivo (paragrafo 2) verranno esaminate sinteticamente alcune selezionate questioni connesse alla diseguaglianza intergenerazionale allo scopo di dare evidenza al crescente meccanismo di marginalizzazione degli attuali giovani lavoratori e lavoratrici rispetto a quelli afferenti alle generazioni precedenti. A seguire verrà affrontato il tema più specifico delle durate dei rapporti di lavoro cessati involontariamente nel 2018 e del numero medio rapporti per lavoratore rispetto alle diverse classi d’età (paragrafo 3); e sarà illustrato il sistema di regole che disciplinano l’accesso all’attuale sostegno economico dedicato agli individui che perdono involontariamente il lavoro (paragrafo 4)[1]. Tutto ciò è finalizzato a introdurre l’analisi empirica riguardante la verifica della condizione di disparità (dei giovani disoccupati involontari rispetto agli adulti che si trovano nelle stesse condizioni) nell’accesso alla Nuova assicurazione sociale per l’impiego (d’ora in poi NASpI). Attraverso l’utilizzo dei microdati di fonte CICO, ossia del Campione integrato delle comunicazioni obbligatorie, predisposto e messo a disposizione dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali[2], verrà esplorata la distanza esistente tra giovani e adulti disoccupati circa le reali opportunità di accesso all’indennità di disoccupazione e alla sua entità.

Un’ultima annotazione introduttiva riguarda le classi di età utilizzate in questo lavoro. Benché esista una definizione amministrativa di ‘individuo giovane’[3], nell’identificazione dell’età di riferimento si è optato per l’utilizzo della definizione statistica connessa all’analisi dei fenomeni e delle politiche collegate al mercato del lavoro.

A livello internazionale Eurostat, sulla base delle definizioni proposte dall’International Labour Organization (ILO), individua i giovani occupati o disoccupati con le persone in età compresa tra i 15 e i 24 anni[4]; ciononostante è stato qui ritenuto opportuno ricomprendere nella categoria dei giovani anche la fascia d’età dei 25-29enni. Alla base di questa scelta ci sono diverse ragioni di carattere generale, per lo più legate al ritardo con il quale le giovani generazioni entrano nel mercato del lavoro e raggiungono l’autonomia dalla famiglia d’origine. Tali ragioni hanno indotto il legislatore e di conseguenza anche l’Istat a spostare il limite superiore dell’età di riferimento da 24 a 29 anni riguardo alla popolazione giovane attiva o da attivare sul mercato del lavoro. Così, ad esempio le politiche rivolte ai NEET e le statistiche che accompagnano la loro attuazione prendono in considerazione i giovani che non studiano, non lavorano e non partecipano a un intervento di politica attiva in età compresa tra i 15 e i 29 anni. Oppure ancora, le politiche di incentivazione dell’occupazione attraverso gli sgravi fiscali per i datori di lavoro[5] fanno riferimento a ‘giovani under 30’ se non addirittura, relativamente alle aree del Paese con maggiori difficoltà occupazionali, agli ‘under 35’[6].

Nei grafici e nelle tabelle successive le classi d’età utilizzate – siano esse più dettagliate (15-19, 20-24 e 25-29 anni) o meno dettagliate (15-29 anni) – rispettano la scelta sopra argomentata.

2. Alcune considerazioni sulla diseguaglianza intergenerazionale

Sebbene rappresenti solo parzialmente il benessere di una persona, il reddito pro capite è la misura preferita dagli economisti per quantificare la diseguaglianza. L’elaborazione più recente della dinamica storica del reddito pro capite per fasce d’età è quella proposta nell’ultimo Rapporto annuale dell’Inps (Inps 2019, 120) e ripresa nel grafico 1.

 

Grafico 1 Serie storica degli andamenti delle medie annue dei redditi per classi di età e linea di tendenza previsionale per la classe 15-29 anni (numero indice: media Italia = 100)

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Redditi in termini reali (anno base = 2018)

Fonte: Inps - XVIII Rapporto annuale

Dalla serie storica prodotta dall’Istituto di previdenza si nota come per la fascia dei più giovani la contrazione del reddito, a differenza delle altre fasce d’età, sia costante, passando da una differenza di -20 punti dalla media complessiva del 1975 a un valore di -43 punti dalla media nel 2017[7].

In realtà la persona, rispetto alla quale si misura il reddito pro capite, può godere o meno di ‘condizioni famigliari di partenza’ di tipo economico, ma anche di tipo culturale, particolarmente vantaggiose o, al contrario, fortemente problematiche. Ciononostante, le diseguaglianze economiche hanno effetti di tipo sociale molto forti come quello dell’aumento della vulnerabilità e dell’esclusione sociale che, almeno in parte, possono prescindere dalle stesse condizioni famigliari (Narayan et al. 2018). Dunque, qual è il rapporto tra reddito personale e reddito familiare? In un recente lavoro Banca d’Italia (Cannari e D’Alessio 2018) esamina attraverso quali canali si realizza la trasmissione intergenerazionale del reddito. Le stime presentate dagli autori mettono in luce gli effetti significativi che le ‘condizioni economiche e sociali di partenza’, le caratteristiche della famiglia di origine e alcuni fattori, come il luogo di nascita e il sesso, determinano ‘in media’ sul livello d’istruzione e sulle condizioni economiche dei figli.

Una forte rilevanza di queste variabili nello spiegare il successo dei singoli è un segnale che l’organizzazione sociale ha difficoltà nell’assicurare uguaglianza di opportunità. Confermando i risultati di precedenti studi (Schizzerotto 2002), le stime più recenti dell’elasticità dei redditi da lavoro collocano l’Italia nel novero dei paesi a bassa mobilità intergenerazionale (Ballarino e Bernardi 2016; Barbieri, Bloise e Raitano 2018). Il profilo temporale dell’elasticità dei redditi da lavoro restituisce l’immagine di una società che, in modo particolare negli anni più recenti, tende a divenire meno mobile. Questo risultato si riscontra in particolare per gli anni dal 2010 al 2016 che presentano valori di elasticità intergenerazionale (IGE)[8] superiori a quelli degli anni precedenti (Bloise 2018).

La letteratura sulla diseguaglianza generazionale, pur copiosa, ha prestato minore attenzione agli aspetti e ai meccanismi che riguardano il mercato del lavoro il cui ruolo, rispetto alla diseguaglianza economica e sociale, nel corso degli ultimi tre decenni appare notevolmente cresciuto (Chen et al. 2018). Nell’analizzare la tendenza alla riduzione o all’ampliamento delle diseguaglianze oltre a scandagliare il rapporto con le cause più tradizionali, come l’appartenenza ad una classe sociale debole o al genere femminile, la ricerca economico-sociale ha progressivamente indagato la dimensione generazionale fino ad affrontarla sistematicamente e da più prospettive (Schizzerotto et al. 2011).

Più di recente (Bazzoli et al. 2018a), quest’ultima dimensione è stata indagata attraverso l’analisi di due coorti di giovani trentini nati tra il 1959 e il 1966 (entrati nel mercato del lavoro tra i 15 e 20 anni, ossia tra il 1974 e il 1995) e quelli nati tra il 1975 e il 1982 (entrati nel mercato del lavoro tra il 1990 e il 2011). Gli individui afferenti a ciascuna coorte sono stati osservati per otto anni a partire dall’effettivo ingresso a lavoro[9].

Il primo aspetto problematico dell’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro è il tempo di ricerca del primo lavoro dopo l’uscita dal sistema formativo che è di tipo lineare: da una coorte alla successiva i tempi di ricerca si allungano, soprattutto per i diplomati e i laureati e le difficoltà di trovar lavoro si acuiscono sensibilmente per le ultime due generazioni. Partendo dalla constatazione che né le caratteristiche ereditate (la classe sociale di origine), né quelle acquisite (il titolo di studio) incidono sulla velocità con cui i giovani trovano la prima occupazione, gli autori della ricerca deducono, confermando peraltro i risultati di una pluralità di ricerche precedenti (Reyneri 2004), che in Italia esiste un sistematico meccanismo di esclusione delle giovani generazioni dal mondo del lavoro con una forte ricaduta sul dilatamento della diseguaglianza generazionale (Naticchioni et al. 2014).

Le cause di questo progressivo rallentamento nella capacità delle giovani generazioni di uscire dalla inoccupazione e dalla disoccupazione sono da rintracciare: nelle riforme delle regole e istituzioni del mercato del lavoro che si sono susseguite dagli anni Novanta in poi[10]; nel mantenimento delle norme di tutela del posto di lavoro degli individui adulti; e, infine, nei meccanismi di regolazione delle carriere che rendono molto difficile la mobilità ascendente nel corso della vita lavorativa (Fullin e Reyneri 2015).

Guardando alla dimensione della tutela e della sicurezza delle relazioni di lavoro, possono essere identificate tre fasi. Per le generazioni entrate nel mercato del lavoro sino agli anni Cinquanta le prime occupazioni sono state molto spesso irregolari, cioè prive di ogni protezione, mentre quelle entrate negli anni Sessanta e Settanta quasi sempre hanno potuto avere, fin dall’inizio, rapporti di lavoro subordinati a tempo indeterminato, cioè con le più elevate garanzie. L’accesso a rapporti di lavoro con più alti livelli di protezione torna a ridursi per le generazioni che entrano nel mercato del lavoro negli ultimi tre decenni, quando in numero crescente i giovani iniziano a lavorare con contratti di lavoro a tempo determinato o con rapporti di lavoro del tutto atipici, quali le collaborazioni coordinate e continuative e, successivamente a progetto (Bubbico 2016).

Invece di porre l’attenzione sul miglioramento delle condizioni delle nuove generazioni nel mondo produttivo, le norme entrate in vigore negli ultimi trent’anni hanno consentito alle imprese di offrire contratti al ribasso e con facile disimpegno verso i neoassunti (Rosina 2018). Al posto di creare crescita e sviluppo, miglioramento di prodotti e dei servizi attraverso il capitale umano e la capacità di innovazione delle nuove generazioni, le aziende sono state incentivate a resistere sul mercato tenendo basso il costo del lavoro e sfruttando il più possibile i nuovi entranti. In altri termini è stato favorito un sistema che si è avvitato verso il basso, producendo allo stesso tempo scarse opportunità per i giovani, poca crescita e ampliamento della distanza tra giovani e adulti. Con la crisi e la crescente competizione sui bassi salari dei paesi emergenti questa soluzione ha mostrato tutta la sua negatività (Saraceno 2015) andando a creare un esercito sempre più numeroso di cosiddetti outsider (Lindbeck e Snower 1989).

A prescindere dall’età, le carriere lavorative discontinue causate dalla maggiore diffusione di contratti a tempo determinato e part time involontario rappresentano la principale determinante della contrazione dei redditi dei lavoratori dipendenti. Ne sono una prova i dati dell’Inps (tabella 1) che mostrano come nel corso di un decennio (dal 2005 al 2016) la quota di dipendenti con retribuzioni annuali lorde più basse della soglia di povertà (ossia, del 60% della mediana del reddito disponibile equivalente) – dunque individui che verrebbero etichettati come working poor qualora fossero l’unico componente del nucleo familiare e non disponessero di altre fonti di reddito – è passata dal 27,7% al 30,5% (Inps 2019).

 

Tabella 1 Incidenza dei working poor calcolata sui redditi che si collocano sotto il 60% del valore mediano del reddito dei lavoratori italiani distinti in professionisti, collaboratori e dipendenti

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Soglia del 60% del reddito mediano anno 2016 = 11.600 euro

Fonte: Inps - XVIII Rapporto annuale

E di nuovo, il reddito e le caratteristiche del nucleo familiare sono un fattore che determina fortemente l’esposizione al rischio di povertà (Barbieri et al. 2018). Poiché i lavoratori giovani risiedono spesso con la famiglia di origine, l’incidenza dei working poor è leggermente inferiore per i lavoratori compresi nella fascia di età 18-24 (12,3% nel 2017), nonostante siano soliti ricevere salari più bassi, rispetto a quelli che hanno più di 25 anni (12,8%). “Sembra che la crisi, inoltre, abbia contribuito a procrastinare ulteriormente il momento di uscita dei giovani lavoratori dalla famiglia di origine, facendo di fatto registrare una riduzione dell’incidenza (dei working poor) per i lavoratori tra i 15 e i 24 anni nel periodo 2012-2017 (-0,9%), mentre l’incidenza è, al contrario, cresciuta per i lavoratori che ricadono nelle altre due classi di età (+1.4% e +1.8%, rispettivamente per le classi di età 25-54 e 55-64 anni)” (Jessoula et al. 2019, 6).

3. I rapporti di lavoro cessati nel 2018: due caratteri salienti

Malgrado gli interventi normativi degli ultimi anni volti a contrastare la diffusione delle forme contrattuali del lavoro estremamente flessibili del parasubordinato e del lavoro accessorio[11] e a favorire l’utilizzo del contratto di lavoro a tempo indeterminato (per altro reso più flessibile con l’abrogazione dell’art. 18 e con l’introduzione delle tutele crescenti)[12], la domanda di lavoro delle imprese italiane continua a rimanere la stessa.

Nel 2018 i rapporti di lavoro subordinati cessati involontariamente sono stati circa 5,8 milioni (la metà del totale delle cessazioni registrate nell’annualità considerata), per un totale di circa 3 milioni di lavoratori e lavoratrici coinvolti in tali cessazioni. Rispetto al totale dei rapporti di lavoro cessati, il 60% erano contratti della durata inferiore ai tre mesi e di questi gran parte non superava il mese di lavoro.

Prendendo in considerazione le classi d’età dei più giovani il numero dei rapporti di lavoro brevi o brevissimi diventa molto più alto (grafico 2). Per i giovani fino a 19 anni i contratti cessati nel corso del 2018 nell’85% dei casi non superavano i novanta giorni di durata, con una quota, sempre sul totale dei contratti cessati, del 18,5% di quattro-trenta giorni e addirittura del 33,9% di uno-tre giorni. È invece del 67,5% la percentuale di contratti di lavoro non superiori ai tre mesi per la classe d’età dei 20-24enni, con una quota del 16,3% non superiore al mese di lavoro e del 31,1%, sempre sul totale, di contratti brevissimi di uno-tre giorni.

 

Grafico 2 Classi di durata effettiva dei rapporti di lavoro cessati involontariamente (espressa in giorni), composizione % per classi d’età - Media annuale 2018

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Fonte: elaborazioni su microdati CICO – Ministero del Lavoro e delle politiche sociali

Come evidenziato nel grafico, all’aumentare dell’età la quota di contratti brevi e brevissimi diminuisce, mentre aumentano progressivamente i contratti di durata più lunga come, nella fattispecie, i contratti di lavoro superiori all’anno che passano dallo 0,7% per i giovani fino a 19 anni all’8,7% per quelli in età compresa tra i 25 e 29 anni, mentre per gli adulti i contratti lunghi riguardano una quota compresa tra l’11% (per gli adulti più giovani) e il 21% (per i lavoratori in età avanzata).

Episodi lavorativi così brevi determinano la mancata maturazione dei requisiti di accesso alla disoccupazione che analizzeremo in dettaglio nel paragrafo successivo. La marcata parcellizzazione degli eventi lavorativi, inoltre, non appare associata a una loro rapida successione. Così, ad esempio, relativamente ai rapporti di lavoro di durata effettiva brevissima (uno-tre giorni), il numero medio di rapporti di lavoro sottoscritti in un anno dai giovani (15-29 anni) si attesta intorno ad un valore annuo di 5,6 (tabella 2). In altri termini, nel 2018, poco meno di 85 mila lavoratori e lavoratrici hanno sottoscritto circa 474.750 contratti di lavoro della durata massima di tre giorni, ossia meno di sei contratti di lavoro in un anno, per un numero totale di diciotto giornate di lavoro effettivo.

 

Tabella 2 Giovani 15-29enni: distribuzione dei rapporti di lavoro e dei lavoratori per classi di durata effettiva dei rapporti di lavoro cessati involontariamente nell’annualità 2018 (v.a. e val %) e numero medio di rapporti di lavoro per singolo lavoratore

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Fonte: elaborazioni su microdati CICO – Ministero del Lavoro e delle politiche sociali

Tale valore si pone sensibilmente al di sotto della soglia minima definita come requisito lavorativo (trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi precedenti) necessario per accedere al sostegno al reddito per disoccupazione.

Come vedremo, al requisito lavorativo si aggiunge anche un requisito di tipo contributivo, concernente l’accumulo di almeno tredici settimane di contribuzione obbligatoria contro la disoccupazione nei quattro anni precedenti che rende l’accesso al sostegno al reddito ancora più difficile discriminando, di fatto e soprattutto, la forza lavoro più giovane.

La diseguaglianza non è, quindi, il risultato esclusivo di ‘forze naturali’ come la globalizzazione e lo sviluppo tecnologico, ma è senz’altro il prodotto delle scelte politiche e delle regolamentazioni nazionali e sovranazionali (Franzini e Raitano 2018; Atkinson 2015)[13].

Nel caso concernente l’accesso al sostegno economico contro la disoccupazione involontaria è necessario fare riferimento alle già richiamate riforme del mercato del lavoro e della disciplina dei contratti, ma anche all’assenza di misure di sicurezza sociale che avrebbero dovuto accompagnare l’introduzione massiccia della flessibilità nel lavoro. Le ‘regole del gioco’, cioè le modalità di funzionamento del mercato del lavoro (e dei mercati in generale) e le politiche di ridistribuzione rappresentano i due ambiti sui quali agire per tentare di ridurre le diseguaglianze, ivi compresa quella generazionale.

I meccanismi regolativi del nostro mercato del lavoro e l’assetto del nostro sistema di welfare mettono le ultime generazioni in condizioni di disparità: il primo lavoro lo si attende a lungo, è tendenzialmente a termine, qualche volta è a tempo parziale e non per scelta, è sostanzialmente meno retribuito e spesso ha diritto a minori tutele.

4. Il sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria: requisiti di accesso, durata e consistenza della prestazione

L’erogazione dei sussidi di disoccupazione, come è noto, corrisponde a una funzione di tipo assicurativo. In termini generali ciò significa che tutti i soggetti esposti al rischio di disoccupazione versano dei premi economici che servono a indennizzare (almeno parzialmente) i soggetti per i quali il rischio si materializza in danno effettivo. Nell’ordinamento italiano l’assicurazione contro la disoccupazione è a totale carico delle aziende. Infatti, dal 1935 e con successive modificazioni, le imprese private (e dal 2009 anche quelle pubbliche)[14] versano all’Inps, per i propri dipendenti a tempo determinato e indeterminato, un importo equivalente (dal 1978) all’1,31% del monte retribuzioni quale contributo obbligatorio contro la disoccupazione involontaria[15]. Dal 2013 al contributo obbligatorio sono state affiancati altri due contributi che i datori di lavoro versano all’Inps nel caso di utilizzo di rapporti di lavoro a tempo determinato[16] e in caso di licenziamento[17].

L’insieme di queste entrate contributive – per motivi diversi legati principalmente alla necessità di non aumentare il costo del lavoro e agli effetti prodotti dalle disparate misure di incentivazione (attraverso sgravi contributivi) alle assunzioni – non è sufficiente a coprire la spesa sostenuta con l’erogazione dei trattamenti di sostegno al reddito per disoccupazione. Negli ultimi anni, rispetto a una spesa media annuale di circa 15 miliardi di euro, comprensiva oltre che del sussidio erogato anche della contribuzione figurativa, le entrate hanno raggiunto a stento i 5 miliardi di euro. Ciò costringe ogni anno lo Stato a intervenire per compensare un deficit in media di circa 10 miliardi annui (Cnel 2018; Inps 2019).

Ogni anno in Italia, a fronte di un numero di lavoratori cui cessa involontariamente almeno un contratto di lavoro subordinato che oscilla tra i 2,6 (nel 2015) e i 3 milioni (nel 2018)[18], vengono avviati mediamente circa 1,6 milioni di trattamenti (tabella 3) per un tasso di copertura complessivo di poco superiore al 60% (De Blasio e De Vincenzi 2019); copertura che diminui­sce di 25 punti percentuali se si considerano i lavoratori disoccupati più giovani. Molto sinteticamente è necessario ricordare che, dal 2012 al 2015, le misure di sostegno al reddito per disoccupazione sono state oggetto di revisione normativa (e definitoria) che ha condotto a una loro oggettiva razionalizzazione. L’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) e la sua forma ridotta, mini-Aspi, sono state introdotte dall’art. 2 della L. 28 giugno 2012, n. 92, quali istituti sostitutivi degli ammortizzatori precedentemente vigenti in materia di disoccupazione, ossia le indennità di disoccupazione ordinaria (a requisiti normali o ridotti) e, con un percorso più lungo, l’indennità di mobilità. A partire dal 1° maggio 2015 Aspi e mini-Aspi sono state sostituite dalla NASpI, introdotta con il D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22.

 

Tabella 3 Numero di percettori NASpI (coorte annuale – decorrenza prestazione da luglio 2015 a giugno 2016) e numero di lavoratori cessati (da luglio 2015 a giugno 2016), per classi d’età e relativo tasso di copertura

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Fonte: elaborazioni su microdati Inps – Prestazioni Sostegno al Reddito

E dunque, al fine di analizzare l’esistenza e la dimensione del fenomeno di discriminazione dei giovani rispetto alle opportunità di accesso alle misure di sostegno al reddito per disoccupazione, appare necessario illustrare dettagliatamente gli elementi che regolano la NASpI in termini di requisiti per l’accesso effettivo al sostegno economico e alla sua durata e consistenza.

Requisiti di accesso alla NASpI

Il processo di individuazione delle cessazioni dei contratti di lavoro subordinati eleggibili all’indennità NASpI realizzato dall’Inps prende in considerazione e analizza il sottoinsieme delle cessazioni di contratti subordinati che rispondono a tre requisiti:

  1. il requisito della non volontarietà della cessazione del contratto di lavoro[19];
  2. il requisito lavorativo;
  3. il requisito contributivo.

 

Per accedere al trattamento di NASpI i tre requisiti devono essere tutti soddisfatti al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Di seguito si riporta la descrizione dei criteri operativi utilizzati dall’Istituto di previdenza sociale per la verifica dei requisiti lavorativi e contributivi.

Requisito lavorativo

Rientrano nel requisito lavorativo i disoccupati involontari che, a prescindere dal minimale contributivo, possano far valere almeno trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione. La definizione operativa del requisito lavorativo è specificata dall’Inps[20] nel seguente modo: le giornate contrattualizzate che vanno dalla data di cessazione all’anno precedente vengono divise per 365 e moltiplicate per 253. In caso di lavoro domestico diverso dal full time, le giornate vengono moltiplicate per un coefficiente (pari a circa 0,54) ricavato dal rapporto della retribuzione mediana full time con la retribuzione mediana non full time. La cessazione è identificata come eleggibile in base al requisito lavorativo se le giornate di lavoro effettivo così conteggiate nell’ultimo anno sono maggiori di ventinove.

Requisito contributivo

Rientrano nel requisito contributivo tutti i disoccupati involontari in possesso del requisito lavorativo che possano far valere, nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione contro la disoccupazione. La definizione operativa di Inps[21] è la seguente: il requisito contributivo è soddisfatto se le settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti la data di cessazione sono maggiori di tredici, compresi gli eventuali contributi figurativi accreditati per maternità obbligatoria[22].

Calcolo della durata del trattamento

Anche la durata del trattamento varia in base alla storia contributiva di ogni soggetto. Il trattamento, infatti, è corrisposto per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni, fino a un massimo di ventiquattro mesi. In altri termini, minore è la storia contributiva del lavoratore minore sarà la durata del sostegno al reddito per disoccupazione[23].

Calcolo dell’importo del sussidio al reddito

L’importo dell’indennità di disoccupazione è dato dalla somma di tutte le retribuzioni imponibili ai fini previdenziali ricevute negli ultimi quattro anni, diviso il numero di settimane di contribuzione, moltiplicato per un coefficiente di 4,33. Se dal risultato di tale calcolo la retribuzione mensile è pari o inferiore al minimale mensile fissato dall’Inps annualmente (nel 2019 pari a 1.221,44 euro), l’importo della NASpI sarà pari al 75% della suddetta retribuzione. Se supera tale soglia, viene aggiunto un ulteriore importo pari al 25% del differenziale tra la retribuzione mensile e l’importo calcolato. In ogni caso, l’importo massimo dell’indennità non può superare i 1.328,76 euro al mese (importo aggiornato al 2019) e, in ogni caso, a partire dal 91° giorno di trattamento si riduce del 3% al mese.

In conclusione, la verifica della copertura assicurativa contro la disoccupazione si limita al conteggio delle settimane di contribuzione maturate dai richiedenti la prestazione di sostegno al reddito per disoccupazione. Lo stesso vale per il successivo calcolo della durata del trattamento e dell’importo spettante al disoccupato richiedente; durata e importo della prestazione NASpI non risultano in alcun modo condizionati dall’ammontare finanziario dei contributi effettivamente versati dai datori di lavoro, ma solo dal numero di settimane di contribuzione. Come già anticipato all’inizio del presente paragrafo, infatti, l’entità della spesa complessiva dalle misure di sostegno al reddito ogni anno supera di gran lunga l’ammontare complessivo dei contributi versati dalle aziende contro la disoccupazione.

5. Discriminazione, diseguaglianza e politiche del lavoro: le evidenze empiriche

L’utilizzo dei microdati messi a disposizione dal Ministero del Lavoro con il Campione integrato delle comunicazioni obbligatorie permette di ricostruire la storia lavorativa pregressa di ciascun individuo che forma il campione e, grazie al coefficiente di riporto all’universo (De Blasio 2014), consente di individuare due distinte sottopopolazioni di lavoratori e lavoratrici cui è cessato involontariamente un contratto di lavoro subordinato:

  • la sottopopolazione che risulta in possesso dei requisiti lavorativi e contributivi necessari all’accesso alla NASpI, ossia all’unica misura di sostegno al reddito rivolta ai disoccupati involontari che hanno perduto un lavoro di tipo subordinato;
  • la sottopopolazione dei disoccupati involontari priva dei requisiti necessari per l’accesso concreto alla NASpI.

 

Come già esposto con la tabella 3, sul totale dei lavoratori che – nei dodici mesi a cavallo tra il 2015 e il 2016 – hanno perso involontariamente il lavoro, circa il 60% è risultato in possesso dei requisiti lavorativi e contributivi necessari per presentare la domanda di accesso alla NASpI diventando percettore dell’assegno di disoccupazione, il restante 40% era privo dei requisiti[24]. Il tasso di copertura, cioè il rapporto tra il numero di percettori di NASpI e la platea dei disoccupati involontari, calcolato esclusivamente con i dati di fonte amministrativa (De Blasio e De Vincenzi 2019), varia annualmente di qualche punto percentuale soprattutto a causa della variazione della platea complessiva di lavoratori che perdono involontariamente il lavoro.

La figura combinata che segue (figura 1) mostra l’andamento mensile (da gennaio 2016 a dicembre 2018) delle cessazioni involontarie di un contratto di lavoro subordinato concernenti le due sottopopolazioni, a loro volta distinte in base a due ulteriori raggruppamenti individuati considerando l’età anagrafica: i giovani dai 15 ai 29 (le linee continue) e gli adulti da 30 a 64 anni (le linee tratteggiate)[25].

 

Figura 1 Serie mensile delle cessazioni involontarie dei rapporti di lavoro subordinati per sottopopolazioni in possesso o meno dei requisiti necessari all’accesso alla NASpI e classi d’età (15-29 e 30-64 anni)

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Fonte: elaborazioni su microdati CICO – Ministero del Lavoro e delle politiche sociali

Rispetto al possesso o meno dei requisiti necessari all’accesso al trattamento di NASpI i due gruppi mostrano valori completamente opposti. Mentre per i giovani (15-29enni) la popolazione esclusa dai trattamenti perché privi dei requisiti necessari è decisamente maggiore, per gli adulti (30-64enni) la popolazione preponderante è quella in possesso dei requisiti necessari.

In termini di media annuale, la distribuzione delle due sottopopolazioni per classi d’età più dettagliate mostra un’accentuata variabilità, con percentuali fortemente al di sotto delle medie complessive (del 60% per la sottopopolazione in possesso dei requisiti e del 40% per quella priva di requisiti) proprio per le classi dei più giovani (grafico 3).

 

Grafico 3 Distribuzione % dei disoccupati involontari con o senza requisiti per l’accesso alla NASpI per classi di età. Media annuale sul periodo 2016-2018

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Fonte: elaborazioni degli autori su microdati CICO – Ministero del Lavoro e delle politiche sociali

Per i disoccupati involontari che alla data di cessazione del contratto di lavoro subordinato non avevano raggiunto i 20 anni, il possesso dei requisiti per l’accesso alla NASpI riguardava una percentuale estremamente bassa (6,8%).

La quota di disoccupati involontari in possesso dei requisiti cresce all’aumentare dell’età anagrafica passando al 34,1% per la fascia dei 20-24enni (quasi 30 punti percentuali in meno rispetto alla media complessiva) e al 56,8% (-3,4% rispetto alla media) per i giovani in età compresa tra i 25 e i 29 anni[26].

Oltre a rendere improbabile l’accesso dei lavoratori più giovani e con meno esperienze di lavoro, i requisiti di accesso alla NASpI hanno un effetto diretto anche sull’effettiva dimensione economica e temporale del trattamento riconosciuto.

Le durate medie teoriche, cioè la media delle durate riconosciute ai disoccupati richiedenti rispetto ai requisiti lavorativi e contributivi presentati all’atto della domanda di accesso alla prestazione e certificati dall’Inps, variano in modo significativo in base all’età del disoccupato. Più elevate per le classi di età avanzate e meno per quelle dei più giovani (grafico 4).

 

Grafico 4 Durata media teorica e durata media effettiva (espresse in mesi) dei trattamenti di NASpI, per età dei percettori al momento della cessazione (coorte annuale luglio 2015 – giugno 2016)

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Fonte: Inps – XVII Rapporto annuale

Considerando i trattamenti avviati nei primi dodici mesi di applicazione della NASpI (coorte annuale da luglio 2015 a giugno 2016), per i quali si dispone del tempo necessario all’osservazione dei ventiquattro mesi successivi ossia della eventuale durata massima dei trattamenti[27], è possibile prendere in considerazione anche la durata media effettiva del trattamento (Inps 2018; De Blasio e De Vincenzi 2019). Quest’ultima, soprattutto per effetto dell’uscita di una quota di percettori dalla disoccupazione durante il periodo di trattamento (per la sottoscrizione di un contratto di lavoro di almeno sei mesi di durata) risulta inferiore alla media della durata teorica di circa tre mesi.

Infine, prendendo ancora in considerazione una coorte annuale di percettori (pari a 1,6 milioni di individui entrati in trattamento NASpI dal luglio 2015 al giugno 2016), la quota di percettori che ha avuto un trattamento dalla durata teorica (riconosciuta nella fase istruttoria, di accertamento dei requisiti contributivi) non superiore ai quattro mesi è pari in media al 23%. La distribuzione di questo valore per classi di età (tabella 4) e per ripartizione geografica di residenza del percettore conferma quanto illustrato fino ad ora.

 

Tabella 4 Quota % di percettori NASpI (coorte annuale dal luglio 2015 al giugno 2016 pari a 1,5 milioni di individui) con durata teorica dei trattamenti non superiore o superiore alla soglia dei quattro mesi per classi d’età e per ripartizione geografica

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Fonte: elaborazioni su microdati Inps – Prestazioni Sostegno al Reddito

Il 43,9% dei giovani percettori di sussidio al reddito con non più di 24 anni – che nel complesso ammontano a 135 mila unità (pari a circa il 9% della coorte) – ha avuto riconosciuto un trattamento non superiore a quattro mesi. Tale percentuale raggiunge o supera il 50% se si prendono in considerazione i giovani fino a 24 anni residenti nelle aree del Paese con maggiori difficoltà economiche e occupazionali (50,3% se residente al Sud e 52,3% se residenti nelle due grandi Isole).

Considerando i giovani nella classe d’età 25-29 anni – che rappresentano il 13,6% dell’intera coorte analizzata – queste percentuali si riducono di 20 punti percentuali, con una quota del 26,2% di percettori con trattamenti inferiori ai quattro mesi. I dati, anche in questo caso, confermano un forte divario territoriale tra il Nord Italia e il Meridione con differenze percentuali di 5-8 punti percentuali.

Il dato concernente la durata teorica dei trattamenti è particolarmente significativo. Oltre a dare una misura diretta della dimensione temporale e indiretta della dimensione economica del sussidio, nei diversi contesti territoriali la durata teorica del trattamento è diffusamente utilizzata per selezionare la popolazione alla quale rivolgere, in via prioritaria e qualche volta in via esclusiva[28], le politiche attive del lavoro (Anastasia e Santoro 2018).

6. Conclusioni

A partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, per fronteggiare il fenomeno della disoccupazione giovanile e creare ulteriori opportunità di lavoro e migliori prospettive occupazionali, le politiche europee hanno incentivato la deregolamentazione dei contratti a tempo determinato e l’introduzione di altre forme di occupazione flessibile di tipo non standard.

L’immissione massiccia di flessibilità nei contratti e nell’orario di lavoro – suffragata dal successo delle teo­rie liberiste e dalla sopravvalutazione del cosiddetto springboard effect generato dall’occupazione a termine – non accompagnata da un sufficiente sistema di sicurezza sociale, né da un efficace sistema di presa in carico e accompagnamento al re-inserimento lavorativo ha prodotto un mercato del lavoro frammentato, con un segmento secondario di posti di lavoro all’interno del quale è diventato sempre più evidente il rischio di ‘intrappolamento nella precarietà’.

Le scarse possibilità di transitare dal lavoro temporaneo a quello permanente determinano carriere lavorative caratterizzate da bassi livelli salariali e dall’alternanza tra periodi di lavoro brevi e periodi di disoccupazione non altrettanto brevi. Malgrado ciò, le regole per l’accesso alle indennità di disoccupazione risultano modellate su un mercato del lavoro che tende a ignorare tutto questo.

I requisiti d’accesso ai trattamenti di sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria attualmente in vigore (per altro in sostanziale continuità con le regole definite per le misure precedenti sostituite dall’attuale NASpI) limitano fortemente l’inclusione dei giovani all’interno della principale politica di contrasto agli effetti economici che la disoccupazione genera e tendono a creare, se possibile, una sottocategoria del disagio, quella della ‘disoccupazione ineguale’. A causa della natura assicurativa delle prestazioni di sostegno alla disoccupazione involontaria, l’accesso alle prestazioni e la loro entità sono subordinati alle verifiche della durata della precedente occupazione e delle settimane di contribuzione (effettiva o figurativa) maturate dal lavoratore.

Tutto ciò tende a perpetuare una delle principali criticità del nostro sistema di sicurezza sociale dedicato al lavoro e alle politiche pubbliche passive e attive connesse con lo stesso tema, che consiste nella scarsa capacità di coinvolgere le persone che esprimono una debolezza maggiore[29].

L’aumento dell’insicurezza sociale legato alla instabilità e alle condizioni precarie di vita e lavoro è la causa principale del crescente ritardo con il quale le generazioni che si susseguono avviano un percorso di vita indipendente rispetto alla famiglia d’origine. Questa dinamica alimenta una pluralità di problemi di carattere socio-demografico e di sostenibilità economica del welfare e più in generale degli investimenti pubblici.

In conclusione, la diseguaglianza generazionale affonda le radici nell’elevata disoccupazione e nella bassa mobilità sociale, nella mancata propensione del sistema produttivo a investire nell’innovazione, nella domanda di lavoro a basso costo, ultra flessibile e rivolta, principalmente, verso professioni non qualificate, ma trova alimento nella debolezza e inadeguatezza delle politiche pubbliche. Le politiche del lavoro e le regole di attuazione delle misure d’intervento che attuano tali politiche modificano il funzionamento dei mercati e, più o meno consapevolmente, determinano un aumento o una diminuzione della diseguaglianza economica tra generazioni. L’incremento di diseguaglianze sociali, per altro, implica la necessità di nuovi sistemi di welfare, nuovi modelli di distribuzione della ricchezza e più adeguati percorsi d’istruzione e formazione professionale.

Affrontare l’insieme di questi problemi può comportare compromessi inter e intra generazioni; compromessi necessari all’adozione di un nuovo contratto sociale che abbia l’obiettivo di offrire a tutti le stesse opportunità di acquisire un bagaglio di competenze sufficiente ad affrontare le rapide trasformazioni del lavoro e del mercato del lavoro. Il sostegno allo sviluppo delle nuove generazioni, già dai primi anni di vita, è la modalità più diretta per costruire l’uguaglianza. Solo garantendo a ogni bambino l’accesso a un’adeguata nutrizione, salute, istruzione e protezione è possibile porre basi solide a sostegno dello sviluppo delle competenze dell’adolescente e del giovane adulto. Il nuovo contratto sociale dovrebbe includere anche elementi di protezione sociale dedicati alle nuove generazioni che si affacciano sul mercato del lavoro. I rischi crescenti che accompagnano la trasformazione del lavoro esigono un intervento coraggioso di adeguamento in materia di protezione dei giovani lavoratori che preveda, attraverso risorse aggiuntive, di svincolare definitivamente il sostegno economico riconosciuto nei periodi di non lavoro dalla quantità di esperienza lavorativa maturata. Si tratta, in ultima analisi, del coraggio di investire risorse per ridisegnare una società più giusta, inclusiva ed equilibrata.

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Schizzerotto A., Trivellato, U., Sartor N. (a cura di) (2011), Generazioni disuguali, Bologna, Il Mulino


1

La nostra attenzione è dedicata alle cessazioni involontarie (ivi compresa la scadenza naturale dei contratti a termine) dei rapporti di lavoro di tipo subordinato (tempo indeterminato, tempo determinato e, naturalmente, in somministrazione a termine o no). Sono escluse da questa analisi le cessazioni di contratti di collaborazione ormai da tempo abrogati (art. 52 del D.Lgs. 15 giugno 2015 n. 81).

2

Ministero del Lavoro e delle politiche sociali – CICO (Campione integrato comunicazioni obbligatorie) https://bit.ly/2FRCxgH.

3

Cfr. art. 1, comma 2, lettera b) del D.Lgs. 21 aprile 2000, n. 181 “Disposizioni per agevolare l’incontro fra domanda ed offerta di lavoro, in attuazione dell’articolo 45, comma 1, lettera a), della legge 17 maggio 1999, n. 144”.

4

Circa la definizione Eurostat degli indicatori di occupazione e di disoccupazione giovanile si veda: https://bit.ly/2Mlfkqo.

5

Si veda il Repertorio nazionale degli incentivi disponibile sul sito ANPAL: https://bit.ly/2IWW40p.

6

In una recente iniziativa di comunicazione online dedicata esclusivamente ai giovani, Istat ci informa che: “Giovani.Stat raccoglie e sistematizza le statistiche prodotte dall’Istat su adolescenti e ragazzi con l’obiettivo di renderle più facilmente accessibili a tutti gli utenti, siano essi policy makers, studiosi, giornalisti o cittadini. Salvo eccezioni opportunamente segnalate, la popolazione considerata è quella dei giovani dai 15 ai 34 anni”. Cfr. https://bit.ly/33ycu7d.

7

Mentre per i giovani la media annua dei redditi si riduce costantemente a partire dal primo anno considerato dalla serie storica, per la fascia d’età centrale (30-49) si nota una contrazione nel periodo 1990-2015 con una lieve ripresa nell’ultima annualità considerata. Per gli adulti di 50 anni e oltre la contrazione dei redditi si concentra negli anni 2000-2015 mantenendo nel triennio successivo un analogo livello.

8

L’elasticità intergenerazionale (IGE – Intergenerational Earning Elasticity), cioè la maggiore o minore facilità, partendo da un determinato status, di raggiungere quello successivo, è rappresentata da una scala di valori che definisce la relazione tra il reddito di una persona e quello dei propri genitori. L’IGE a livello zero significa che non c’è alcuna relazione tra il reddito dei genitori e quello dei figli, mentre al grado uno corrisponde una totale corrispondenza tra la ricchezza personale e quella familiare.

9

L’osservazione longitudinale è stata svolta integrando le informazioni individuali presenti in due fonti: il panel sulle ‘Condizioni di vita delle famiglie trentine’ e il cosiddetto ‘Estratto Conto previdenziale Inps’. Per la descrizione dettagliata della metodologia utilizzata nella ricerca e in particolare per l’esperienza di integrazioni di due fonti diverse (indagine longitudinale e microdati amministrativi) si veda Bazzoli et al. (2018b).

10

In Italia, così come nella maggior parte dei Paesi europei, gli interventi che hanno aumentato in modo consistente la flessibilità del mercato del lavoro, soprattutto in ingresso, sono stati definiti e programmati attraverso pratiche di concertazione trilaterale (Governo, Associazioni sindacali dei lavoratori e datoriali). Nel nostro Paese, uno dei più importanti risultati di questa strategia è stata la L. n. 196 del 1997 che ha tradotto in norme i risultati del Patto per il Lavoro sottoscritto dalle parti sociali nel 1996. È stato proprio con questa legge che sono state introdotte forme di flessibilità precedentemente vietate in Italia, come il lavoro interinale, e sono stati rafforzati gli incentivi a sostegno della flessibilità nel part time e nei contratti di formazione e lavoro. Nel periodo immediatamente successivo, anche a seguito della definizione a livello comunitario di una strategia unitaria di interventi per sostenere l’occupazione europea (Strategia europea per l’occupazione), sono stati introdotti ulteriori elementi di flessibilità rispetto al lavoro part time (D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61) e ai contratti di lavoro a tempo determinato (D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368). Infine, l’attenzione alla flessibilità del lavoro è stata al centro dell’agenda politica italiana nel caso della L. 14 febbraio 2003, n. 30 e del successivo D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, che hanno introdotto nuove tipologie di rapporti di lavoro e ampliato l’applicabilità di forme preesistenti (staff-leasing, job sharing, job on-call, lavoro accessorio e lavoro a progetto).

11

Con l’art. 52 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 viene abrogata la disciplina concernente i contratti di collaborazione a progetto, mentre con l’entrata in vigore del D.L. 17 marzo 2017, n. 25 è stata disposta l’abrogazione della disciplina di legge relativa al lavoro accessorio (dei cosiddetti voucher).

12

D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23.

13

Franzini e Raitano ci ricordano come lo stesso ‘padre del monetarismo’ ed esponente di punta della Scuola di Chicago, Milton Friedman, nella sua opera principale – Capitalism and Freedom – affermi: “Gran parte della diseguaglianza effettiva deriva dalle imperfezioni del mercato. Molte di esse sono state create dall’azione del governo e potrebbero essere rimosse dall’azione del governo. Ci sono tutte le ragioni per intervenire sulle regole del gioco in modo da eliminare queste cause di diseguaglianza” (Franzini e Raitano 2018, 10).

14

L’istituto dell’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria trova la sua fonte primaria nel regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 aprile 1936, n. 1155. L’estensione dell’obbligo contributivo per le imprese pubbliche è stata introdotta dall’art. 20, comma 4, D.L. 25 giugno 2008, n. 112.

15

Tale indennità dal 1989 alimenta un fondo specifico dell’Inps denominato ‘Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti’.

16

Si tratta del ‘contributo addizionale’ pari all’1,40% della retribuzione imponibile dovuto dai datori di lavoro con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato a tempo determinato. Tale aliquota contributiva, per effetto del D.L. 12 luglio 2018, n. 87, recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2018, n. 96, è incrementata dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione. In caso di trasformazione del contratto di lavoro in tempo indeterminato i versamenti effettuati vengono interamente restituiti al datore di lavoro.

17

Il ‘contributo di licenziamento’ (denominato spesso ‘ticket licenziamento’) riguarda i datori di lavoro che rientrano nel campo di applicazione della CIGS e che effettuano un licenziamento individuale o collettivo che genera, in capo al lavoratore licenziato, il teorico diritto all’indennità di disoccupazione, a prescindere dall’effettiva percezione della stessa. Tale contributo è fissato nella misura del 41% del massimale mensile dell’indennità di disoccupazione. A partire dal 1° gennaio 2018, in seguito a quanto disposto dall’articolo 1, comma 137 della L. 27 dicembre 2017, n. 205 (Legge di bilancio 2018), l’aliquota contributiva del ‘ticket licenziamento’ è stata innalzata all’82% del massimale mensile dell’indennità di disoccupazione.

18

La crescita della platea dei disoccupati involontari registrata tra il 2015 e il 2018 dipende dall’espansione dell’occupazione a termine e da una dinamica pressoché stabile del numero di proroghe e trasformazioni dei contratti di lavoro. Basterà ricordare come, nel periodo considerato, ci sia stato un simultaneo aumento dei contratti a tempo determinato, legato alla chiusura, il 31 dicembre 2015, delle forti agevolazioni all’assunzione a tempo indeterminato e un aumento dei contratti intermittenti o ‘a chiamata’ i quali, benché numericamente limitati hanno rappresentato uno strumento sostitutivo dei voucher abrogati a marzo del 2017 (cfr. nota 11).

19

L’involontarietà della disoccupazione è constatata dall’Inps, cui sono indirizzate le domande di accesso alla NASpI, attraverso la verifica della ‘causale di cessazione’ registrata nella comunicazione effettuata dal datore di lavoro concernente la chiusura del rapporto di lavoro subordinato. Rientra nel concetto di involontarietà anche la scadenza naturale di un contratto di lavoro a tempo determinato.

20

Cfr. Circolare Inps n. 142 del 29/07/2015 e successive integrazioni.

21

Ibidem.

22

Ciò vale anche per i periodi di congedo parentale purché regolarmente indennizzati e intervenuti in costanza di rapporto di lavoro. Oppure i periodi di astensione dal lavoro per malattia dei figli fino agli 8 anni di età, nel limite di cinque giorni lavorativi nell’anno solare. Al contrario non sono considerati utili, anche se coperti da contribuzione figurativa i periodi di cassa integrazione straordinaria e ordinaria con sospensione dell’attività a zero ore. Oppure i periodi di assenza per permessi e congedi fruiti dal lavoratore per assistere un soggetto con handicap in situazione di gravità, che sia coniuge, genitore, figlio, fratello o sorella convivente. Essendo periodi non utili al conteggio questi vengono ‘neutralizzati’ ampliando il quadriennio di riferimento.

23

Unica eccezione, date le peculiarità registrabili nel lavoro svolto nel settore della ricezione turistica, è prevista per la cosiddetta ‘NASpI stagionali’. Per i lavoratori stagionali del turismo, infatti, è prevista una durata del sussidio per un periodo maggiorato di un mese rispetto al calcolo sopra esposto.

24

è poi presente una sottopopolazione di individui che, pur essendo in possesso dei requisiti di accesso alla NASpI, non avanza alcuna domanda. Perché ha trovato lavoro entro otto giorni dalla cessazione (quale limite minimo dopo il quale si può presentare la domanda di NASpI), perché comunque era sicuro di ottenere un nuovo lavoro di lì a poco o per ragioni che non possiamo conoscere. Possiamo stimare che tale ‘sottopopolazione’, che per un motivo o per l’altro non coglie l’opportunità offerta dalla NASpI, non superi il 5% della platea di disoccupati involontari in possesso dei requisiti di accesso (De Blasio e De Vincenzi 2019).

25

Come si nota anche nella figura 1 le cessazioni involontarie (ivi compresa la scadenza di un contratto a termine) hanno un andamento ciclico stagionale. Tale andamento è generato principalmente dalle cessazioni registrate per i settori dell’istruzione (giugno) e della ricezione turistica (ottobre), solo in parte dalla scadenza naturale dei contratti a termine sottoscritti negli altri settori concentrata nel mese di dicembre.

26

Sulle fasce d’età dei più giovani, i settori delle Costruzioni e quello dell’Industria in senso stretto mostrano un ‘livello di inclusione’ nelle politiche di sostegno al reddito per disoccupazione più alto che indica come in questi settori l’attività lavorativa inizi spesso assai precocemente e, specie per l’industria in senso stretto, sia più di altri settori un’attività continuativa.

27

Sono qui esclusi i trattamenti NASpI che hanno registrato una sospensione temporanea causata dalla sottoscrizione, durante il periodo riconosciuto di trattamento, di un contratto di lavoro inferiore ai sei mesi. Sulla corte annuale la quota di trattamenti sospesi, che producono una distorsione nel calcolo della durata effettiva basata sulle date di inizio e fine trattamento, non supera l’11% del totale.

28

Fino all’approvazione del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito in L. 28 marzo 2019, n. 26, che ha dirottato temporaneamente la misura e le risorse previste (fino al 31 dicembre 2021 salvo proroghe) verso le politiche attive dedicate esclusivamente ai beneficiari del Reddito di cittadinanza, l’Assegno di ricollocazione era destinato ai percettori di NASpI con una durata superiore ai quattro mesi di trattamento. Introdotto con gli articoli 23 e 24 del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 150 l’Assegno di ricollocazione NASpI era stato ideato come strumento finanziario (quale evoluzione dei voucher formativi o della dote lavoro già in uso presso diverse amministrazioni regionali titolari degli interventi di politica attiva del lavoro) da utilizzare presso i soggetti fornitori di servizi di assistenza alla ricerca di lavoro (De Vincenzi 2017). Lo strumento, nel 2017, ha vissuto una fase di sperimentazione risultata parziale e incompleta a causa della prevista adesione volontaria del percettore all’iniziativa e delle conseguenti scarse adesioni da parte dei percettori di NASpI.

29

Nell’ipotesi di mantenere come unico requisito di accesso al sostegno al reddito per disoccupazione la involontarietà della perdita del lavoro (la cessazione involontaria di un contratto di lavoro subordinato) mantenendo altresì le attuali regole per il calcolo della durata e consistenza del sussidio, la spesa complessiva da sostenere per la NASpI (assegni al lavoratore e contribuzione figurativa) passerebbe dagli attuali 15 miliardi di euro a non più di 20 miliardi di euro annuali. La stima tiene conto del fatto che aumenterebbero il numero di trattamenti brevi e con assegni mensili relativamente bassi. Lasciando inalterato l’attuale sistema di contribuzione contro la disoccupazione a carico dei datori di lavoro, che determina entrate finanziarie pari a circa 5 miliardi di euro (vedi paragrafo 4), l’onere per lo Stato passerebbe dagli attuali 10 miliardi di euro a circa 15 miliardi di euro annui.