SINAPPSI

2019/3

Editoriale: L’Italia non è un Paese per giovani


Le politiche pubbliche in Italia sono progettate, decise e attuate in modo arcaico. La frantumazione del processo decisionale, l’ambiguità delle scelte, la scarsa considerazione delle evidenze empiriche disponibili e la ridotta attenzione alla fase di attuazione contribuiscono a rendere vane o controproducenti le riforme intraprese dagli esecutivi che si susseguono alla guida del Paese. La carenza più grave è che ogni nuovo intervento pubblico non è ideato a partire da una valutazione di quelli ereditati dai governi precedenti. In questo modo non si traggono insegnamenti dai passati insuccessi e neanche dai parziali successi. Non si tracciano mappe aggiornate che consentano a chi si avventura sulla rotta del cambiamento di aggirare gli scogli e le secche, di non arrendersi ai venti e alle correnti. Non si impara a disinnescare preventivamente i meccanismi che generano effetti non voluti o perversi. Non si riflette in modo sufficiente sulle interferenze tra diverse politiche che si innestano una nell’altra e sull’influenza della dinamica del contesto sugli esiti dell’intervento pubblico.

La missione di Sinappsi è quella di porre almeno in parte rimedio a queste disfunzioni del policy making italiano fornendo analisi di politiche pubbliche basate sui dati. Questo numero speciale è dedicato, in particolare, a valutare gli effetti di alcuni interventi pubblici sulle generazioni più giovani in un grappolo di ambiti (fisco, previdenza, lavoro, povertà, famiglia, istruzione). Questo esercizio muove dalla consapevolezza che l’Italia è affetta da una diseguaglianza generazionale che ha radici profonde: andamenti demografici pregiudicati dalla carenza di nascite; un sistema economico incapace di innovare e che cerca di restare competitivo solo attraverso una precarizzazione del lavoro finalizzata a comprimerne il costo; un sistema politico instabile e debole che non alza lo sguardo oltre gli orizzonti temporali di legislature che ogni pochi mesi minacciano di terminare; ascensori intergenerazionali economici e sociali ormai fuori uso; un sistema di rappresentanza degli interessi che rende fievole la voce delle giovani generazioni; un’amministrazione pubblica che, concepita come sbocco occupazionale, fornisce servizi di scarsa qualità in settori essenziali per i giovani come l’istruzione e le politiche attive del lavoro. Questi problemi strutturali sono stati acuiti dalla crisi economica e finanziaria del 2008, che ha messo a nudo l’inadeguatezza delle politiche promosse a livello europeo (Ferrera). Le misure di austerità che i Paesi maggiormente investiti dalla crisi come l’Italia sono stati costretti a introdurre hanno ridotto il già insufficiente investimento sociale. Le risorse disponibili sono state infatti convogliate sul welfare tradizionale per salvaguardare la perdita di lavoro degli occupati e per dare risposte comunque troppo selettive alla crescita della povertà.

Le analisi contenute in questo numero di Sinappsi mostrano che le politiche pubbliche in essere non contribuiscono a far diminuire la diseguaglianza generazionale. Le risorse per l’istruzione superiore sono diminuite in modo sensibile (Viesti). Il fondo pubblico di finanziamento ordinario (FFO) delle università è sceso dai 7,3 miliardi del 2008 ai 7 del 2018 in valori nominali, corrispondente a una riduzione in termini reali di circa un sesto. Alla contrazione dell’investimento pubblico è corrisposto un sensibile calo delle iscrizioni negli atenei che, per la prima volta nella storia d’Italia, sono scese, passando dal picco di 1.800.000 di prima della crisi economica a 1.654.000 nel 2015, cui ha fatto seguito negli anni più recenti una incoraggiante ma comunque minima ripresa.

Le generazioni entrate nel mercato del lavoro dopo la metà degli anni Novanta andranno in pensione molto più tardi con redditi pensionistici che rifletteranno tassi di rendimento inferiori a quelli generati dal sistema retributivo nei decenni passati. Inoltre, le pensioni, per i non pochi giovani che avranno una carriera lavorativa con redditi modesti e una occupazione discontinua, sono destinate ad essere in larga misura inadeguate (Jessoula).

Le politiche fiscali di sostegno alle famiglie e finalizzate a consentire ai giovani di sviluppare un autonomo progetto di vita sono frammentate, puramente simboliche ed escludono disoccupati e incapienti. Nel leggere questo dato occorre tenere presente che la generazione dei nati tra il 1966 e il 1980 è la prima ad aver avuto risorse inferiori alle generazioni precedenti, a partire dai 40 anni, mentre i nati dopo il 1981 hanno vissuto e stanno vivendo questa condizione anche nel periodo precedente tra i 30 e i 34 anni (Rapallini). Inoltre, nel 2019 più della metà dei 20-34enni, celibi e nubili, vive con almeno un genitore (Blangiardo) e questa proporzione è in continuo aumento anche a causa di problemi abitativi: mentre nel 2001 i proprietari di prima casa con capofamiglia di età inferiore ai 30 anni erano circa il 40%, ai giorni nostri sono scesi al 30%.

La crisi ha agito anche da amplificatore del differenziale tra la disoccupazione totale e quella giovanile, che era del 14% nel 2008 ed è giunto ad essere del 30% nel 2014, per restare nel 2018 ancora superiore al 20%. Nonostante le giovani generazioni siano maggiormente esposte al rischio di disoccupazione, a causa della natura assicurativa delle prestazioni di sostegno alla disoccupazione involontaria, l’accesso alla NASpI è condizionato dalla durata della precedente occupazione e dalle settimane di contribuzione (effettiva o figurativa) maturate dal lavoratore. Questo penalizza l’accesso dei lavoratori più giovani a questa misura di sostegno, con un effetto negativo anche sulla dimensione economica e temporale del trattamento riconosciuto (De Blasio e De Vincenzi).

L’introduzione del Reddito di cittadinanza ha triplicato le risorse investite rispetto a quelle previste dal precedente Reddito di inclusione generando un significativo aumento della potenziale platea dei beneficiari di ogni classe di età. Tuttavia, i maggiori beneficiari di questa espansione risultano essere gli anziani, mentre al contrario si registra una riduzione, in termini relativi, degli adulti e in misura minore dei giovani adulti (Gallo e Luppi). Questo avviene in un contesto in cui la popolazione di età inferiore ai 34 anni costituisce nel 2016 il 45%-50% della totalità della popolazione povera, presentando una tendenza, per quanto riguarda la povertà assoluta, di costante crescita che si unisce a quella dei Neet, i giovani che non studiano, non lavorano e non sono coinvolti in programmi di formazione.

È utile provare anche a estrapolare da questi saggi alcune lezioni di policy. La prima è che i giovani sono penalizzati nel loro complesso, ma alcuni lo sono maggiormente di altri. In particolare: quelli del Mezzogiorno, quelli che vengono da condizioni familiari più svantaggiate in quanto l’ascensore sociale è fermo, le donne, che trovano lavori meno qualificati e meno pagati, e gli immigrati, che rappresentano l’unico fattore di dinamicità in andamenti demografici decrescenti. La seconda lezione è che le politiche pubbliche non sono monadi. Gli effetti di una si riverberano sulle altre. La mancanza di un’efficace politica di rilancio dell’economia reale fa sì che i laureati siano troppo pochi e, nel contempo, troppi per le reali opportunità di lavoro, e che le carriere dei lavoratori sottopagati e che soffrono di lunghi periodi di mancata occupazione siano, come rilevato, destinate a generare trattamenti pensionistici inadeguati. La terza lezione è che i tentativi di perseguire politiche di welfare basate sull’universalismo selettivo hanno effetti perversi che, ad esempio, portano a svantaggiare sistematicamente le università del Centro e del Meridione e a sfavorire le giovani generazioni nella concessione del Reddito di cittadinanza o nella concessione dei sussidi per il contrasto alla povertà. La quarta lezione è che il dibattito pubblico si concentra solo sul disegno di policy che si trasfonde nelle leggi di riforma, mentre un’attenzione analoga dovrebbe essere riservata alla fase di attuazione, che si scontra con una capacità amministrativa delle nostre burocrazie inadeguata o molto diversificata sul territorio, come mostrano il caso delle università o quello del rilancio delle politiche attive del lavoro.

La buona notizia è che al momento le giovani generazioni non hanno reagito a questa iniquità fuggendo nell’astensionismo elettorale (Morlino e Raniolo). La loro insoddisfazione è stata canalizzata nel processo di partecipazione democratica attraverso una maggiore articolazione e una sostanziale trasformazione dell’offerta partitica. Ma, a fronte di politiche pubbliche che invece di diminuirla acuiscono la diseguaglianza generazionale, è forte il pericolo che le istituzioni della democrazia rappresentativa finiscano presto o tardi per sfilacciarsi, perdendo esse stesse di legittimazione.