1. Introduzione
Affrontare il tema pensioni in una prospettiva intergenerazionale potrebbe apparire scontato per una serie di ragioni: vuoi per il time lag che caratterizza la politica pensionistica – il fatto, cioè, che le decisioni di policy adottate oggi determineranno le condizioni di pensionamento nei prossimi decenni; oltre che per la stretta interdipendenza tra le generazioni implicata dal metodo ‘a ripartizione’ su cui è imperniato il sistema pensionistico pubblico in Italia; nonché per i numerosi contributi che, a partire dalle riforme degli anni Novanta, hanno puntato la lente sulle prospettive previdenziali delle (più o meno) giovani generazioni entrate sul mercato del lavoro alla fine di quel decennio e che andranno in pensione (assumendo una carriera piena) a partire dal 2030-2035.
Vi sono, però, alcune buone ragioni che giustificano un simile approccio allo studio della politica pensionistica in Italia, anche considerando il paradosso per cui le grandi riforme previdenziali sottrattive dell’ultimo quarto di secolo (riforma Amato del 1992-93, riforma Dini 1995, riforma Monti-Fornero 2011) sono state tutte giustificate in nome delle giovani (e future) generazioni, e tuttavia queste generazioni esprimono forti dubbi circa la possibilità di ricevere, un domani, la pensione, di riceverla d’importo adeguato ovvero di accedere al pensionamento a un’età giudicata accettabile.
In questo quadro, due sono le ragioni che suggeriscono di accostare il tema pensioni in prospettiva intergenerazionale. In primo luogo, la disponibilità di nuovi dati empirici consente di sviluppare alcuni ragionamenti più robusti circa le prospettive previdenziali, nel medio-lungo periodo, delle generazioni più giovani sul mercato del lavoro, specialmente quelle integralmente soggette al metodo contributivo introdotto nel 1995. In seconda istanza, l’adozione di una prospettiva sistemica, che guarda tanto alla previdenza pubblica quanto alla previdenza complementare, permette di valutare in chiave intergenerazionale lo stato d’implementazione del piano di riforma degli anni Novanta (e Duemila) che prevedeva una riarticolazione su più pilastri dell’architettura pensionistica italiana.
Con riferimento a tali ‘buoni motivi’ e al paradosso sopracitato, il presente contributo, che richiama uno dei primi approfonditi studi sulla crisi del sistema pensionistico italiano a cura dell’Inps Le pensioni domani pubblicato nel 1993, mira dunque a gettare luce sui rapporti intergenerazionali all’interno del sistema pensionistico italiano concentrandosi su due diverse fasi. Nel secondo paragrafo vengono infatti brevemente richiamati i principali ‘parametri’ previdenziali per le generazioni che sono entrate in quiescenza fino alle riforme degli anni Novanta o negli anni immediatamente successivi – per effetto dei lunghi periodi di transizione previsti dalle stesse. Il più ampio terzo paragrafo riguarda invece le pensioni ‘domani’, ossia le prospettive previdenziali delle generazioni entrate nel mercato del lavoro nell’ultimo ventennio.
Poiché le prospettive di tenuta del sistema pensionistico italiano paiono rassicuranti sotto il profilo della sostenibilità economico-finanziaria (European Commission 2018; RGS 2019), il contributo si concentra sulle altre due dimensioni cruciali per la valutazione dei sistemi previdenziali: adeguatezza ed equità, quest’ultima peraltro sempre più rilevante alla luce delle riforme sottrattive degli ultimi tre decenni che hanno significativamente ridotto, come si dirà a breve, la generosità del sistema italiano di tutela della vecchiaia.
Entro tale prospettiva, ove opportuno, un taglio comparato consentirà inoltre di cogliere più efficacemente le peculiarità del caso italiano nelle due fasi analizzate.
2. La transizione italiana: 1992-2011
Fino alla riforma Amato del 1992-93, la prima riforma compiutamente sottrattiva dopo oltre quarant’anni di espansione del sistema di tutela della vecchiaia, il caso italiano si caratterizzava per una spesa più elevata – la spesa sul PIL era al 13,6% a fronte di una media UE pari all’11% – e regole pensionistiche più generose rispetto agli altri Paesi europei. Tale generosità derivava, peraltro, più dalle ‘morbide’ regole di accesso al pensionamento che dalla formula di calcolo delle pensioni. Infatti, il sistema retributivo introdotto nel 1968 per i lavoratori dipendenti nel settore privato – poi esteso ai lavoratori autonomi nel 1990 con uno di quei tipici ‘regali previdenziali’ che hanno caratterizzato la Prima Repubblica[1] – non era infatti un unicuum sul continente europeo. Ciò che contraddistingueva l’esperienza italiana erano piuttosto i requisiti di accesso alla quiescenza, che consentivano il pensionamento a età decisamente inferiori rispetto alla maggior parte dei Paesi europei: l’età pensionabile era rimasta infatti ‘congelata’ al livello fissato dal regime fascista nel 1939 – 55 anni per le donne, 60 per gli uomini – ma nel comparto privato questi ultimi utilizzavano più frequentemente il canale di uscita tramite le pensioni di anzianità, con 35 anni di contribuzione, mentre i dipendenti pubblici potevano accedere alle famigerate ‘pensioni baby’, che consentivano il pensionamento con 25 anni di contributi, 15 anni per le donne coniugate o con figli[2].
Se si considera che nel 1997 l’età media di accesso alla pensione per i nuovi pensionati Inps era pari a 61,1 anni (Brambilla 2019), è evidente come tali condizioni abbiano consentito un prolungato periodo di quiescenza a numerose coorti di lavoratori. Note meno positive emergono, invece, per i pensionati attuali, dall’analisi della distribuzione dei redditi pensionistici. Infatti, nonostante la generosa formula retributiva, ampia è la quota di anziani che vivono in condizioni economiche molto modeste: i dati Istat più recenti (Istat 2019) mostrano che nel 2016 il 12,6% dei pensionati ha ricevuto un reddito pensionistico inferiore ai 500 euro/mese, e ben il 26,4% si collocava tra i 500 e i 1.000 euro; le cifre Eurostat evidenziano che in Italia la quota di over 65 a rischio di povertà o esclusione sociale, pari al 22% nel 2016 – benché inferiore rispetto alla fascia di età 0-65 anni (30,8%) – è comunque significativamente superiore della media UE (18,2%).
Diversi fattori consentono di comprendere tali dati critici sul versante dell’adeguatezza delle prestazioni per le attuali coorti di pensionati: in primis, la durata limitata della carriera contributiva in Italia rispetto agli altri Paesi europei, i modesti redditi dichiarati dai lavoratori autonomi, la più recente applicazione del metodo retributivo in quest’ultimo comparto, nonché la debolezza degli schemi assistenziali di tutela della vecchiaia (pensione sociale, assegno sociale) nel contrasto alla povertà tra gli anziani.
Come noto, tuttavia, le regole previdenziali disegnate nella ‘Età dell’Oro’, con cui sono entrati in quiescenza la gran parte degli attuali pensionati, sono state radicalmente trasformate da almeno nove importanti interventi di riforma succedutisi in tre diverse ‘ondate’ tra il 1992 e il 2011: le riforme della fase di ‘emergenza’ 1992-1997 (Amato, Dini e Prodi); gli interventi nel periodo (2001-2008) dell’alternanza al governo tra centro-destra (riforma Maroni-Tremonti) e centro-sinistra (riforma Damiano); i tre provvedimenti della ‘terza ondata’ (2009-2011) volti a fronteggiare la crisi economica globale (riforma Sacconi I nel 2009) e la successiva crisi del debito sovrano (riforma Sacconi II nel 2010, riforma Fornero-Monti nel 2011)[3].
Il risultato complessivo di tali ripetuti interventi è un sistema pensionistico decisamente meno generoso – e a limitatissima redistribuzione verticale (cioè tra diversi livelli di reddito) di cui si dirà nel paragrafo 3 – per effetto dei seguenti cruciali fattori: i) l’età pensionabile a 67 anni, la più elevata d’Europa[4] (European Commission 2018); ii) il nuovo metodo contributivo di calcolo delle prestazioni, che non solo garantisce più modesti tassi di rendimento (nelle attuali condizioni economiche, cfr. Raitano 2017), ma scarica anche sugli assicurati i rischi derivanti da trend demografici ed economici negativi per via di iii) tre fondamentali stabilizzatori automatici della spesa, quali la revisione automatica dei coefficienti di trasformazione per il calcolo delle pensioni, la rivalutazione dei contributi versati secondo la media mobile quinquennale del tasso di crescita economica, oltre all’adeguamento automatico dei requisiti di pensionamento all’aumento della speranza vita.
Gli effetti di questi nuovi parametri, che definiscono le condizioni di pensionamento per i pensionandi futuri saranno oggetto di valutazione nel successivo paragrafo 3.
3. Le prospettive previdenziali nel medio-lungo periodo
In raffronto al quadro tratteggiato nel paragrafo precedente, relativamente alle condizioni garantite dal sistema pensionistico italiano per i lavoratori che sono entrati in quiescenza fino alla fine degli anni Novanta, tre sono gli elementi da tenere in considerazione al fine di valutare le prospettive previdenziali delle giovani generazioni con riferimento alle due dimensioni di adeguatezza ed equità. Il primo elemento concerne le condizioni di accesso al pensionamento, il secondo riguarda il livello delle pensioni erogate dagli schemi previdenziali pubblici dell’assicurazione obbligatoria, il terzo le possibilità che i futuri pensionati dispongano di un reddito pensionistico composto dalla pensione pubblica e dalla pensione integrativa, o complementare, come previsto nel piano lanciato – e perseguito da governi di diverso colore – negli anni Novanta.
L’accesso al pensionamento
Come già anticipato, per effetto delle riforme Sacconi e Monti-Fornero le condizioni di accesso al pensionamento sono divenute più stringenti. In particolare, l’incremento dell’età pensionabile promosso dalle riforme del triennio 2009-2011, soprattutto per le donne, con circa 7 anni di incremento tra il 2010 e 2018 – quando l’età legale di pensionamento è stata completamente armonizzata, tra uomini e donne e tra le diverse categorie professionali, a 66 anni e 7 mesi – è un aumento che per rapidità e intensità non ha pari nell’Unione europea[5]. Inoltre, come detto sopra, le condizioni di eleggibilità, tanto per la pensione di vecchiaia quanto per quella ‘anticipata’, sono destinate a divenire automaticamente ancora più esigenti per effetto del meccanismo cosiddetto di linking di queste ultime con le variazioni nell’aspettativa di vita[6]. Ove questa dovesse continuare ad aumentare come previsto, le condizioni di eleggibilità verrebbero innalzate di un numero di mesi di pari entità: caratteristica del modello italiano è, infatti, la trasposizione integrale degli aumenti nell’aspettativa di vita sui requisiti di pensionamento. Tale meccanismo comporterebbe, dunque, il permanere nei prossimi decenni di condizioni di eleggibilità severe per l’accesso alla pensione di vecchiaia: 69 anni e 9 mesi nel 2050, ancora la più elevata in Europa assieme alla Danimarca (European Commission 2015). Anche l’incremento previsto dell’età media di uscita effettiva dal mercato del lavoro sarebbe tra i più significativi nell’Unione europea, superiore ai 5 anni tra il 2013 e il 2060 – a fronte di un aumento medio di 2,3 anni nell’UE e inferiore a 1 anno in Estonia, Bulgaria, Germania, Finlandia, Romania, Lussemburgo e Svezia (European Commission 2015). In particolare, per l’Italia, ciò porterebbe l’età di uscita media (considerando sia le pensioni di vecchiaia sia quelle anticipate) a 67 anni nel 2050.
A fronte di requisiti di pensionamento così stringenti, le considerazioni sull’adeguatezza, ma soprattutto sull’equità, nell’accesso alla pensione rimandano sia all’eterogenea possibilità dei lavoratori di proseguire l’attività fino alle nuove elevate età pensionabili (Raitano 2012), sia al diverso impatto distributivo – e redistributivo – di queste in rapporto ai differenziali nelle aspettative di vita. Infatti, benché non esistano sistematici dati comparati sul punto, gli studi condotti sul caso italiano mostrano come tali differenze nelle aspettative di vita non si distribuiscano in maniera casuale e risultino significative tra diversi livelli di istruzione – dai 3 anni (donne) ai 5 anni (uomini) di differenza tra gli individui con titolo di scuola elementare e i laureati – e tra le varie categorie professionali – circa 4 anni tra gli operai e i quadri/direttivi (Leombruni et al. 2015). Considerando che l’attuale scarto tra età pensionabile (67 anni) e l’aspettativa di vita media a 65 anni (85,9 anni) è di circa 18 anni, emerge chiaramente come tali differenziali nell’aspettativa di vita incidano in maniera rilevante sulla dimensione equitativa della durata del pensionamento, con importanti effetti regressivi a sfavore degli individui svantaggiati tra le giovani generazioni.
Vediamo ora quali sono le prospettive circa i livelli pensionistici per i pensionati futuri.
Le pensioni pubbliche nel sistema contributivo
Negli anni immediatamente successivi all’adozione della riforma Dini, alcuni rapporti di fonte governativa (Ministero del Welfare 2001; 2002) evidenziavano un rischio circa l’adeguatezza delle pensioni pubbliche per le giovani generazioni integralmente soggette al metodo contributivo – con tassi di sostituzione in diminuzione di 15-20 punti percentuali tra il 2010 e il 2030. Successivamente alle riforme della ‘terza ondata’, invece, molti commentatori hanno correttamente osservato che, con i nuovi più elevati requisiti di pensionamento, le preoccupazioni circa l’adeguatezza delle prestazioni sono da considerarsi superate (Fornero 2015) per i lavoratori con carriere lunghe, retribuzioni adeguate ed età di pensionamento elevate (Raitano 2019): i dati della Ragioneria generale dello Stato (2019) mostrano infatti che per questi lavoratori il tasso di sostituzione netto previsto (teorico dunque) sarebbe attorno all’80%.
Il punto decisivo da mettere a fuoco è, tuttavia, che la ‘quadratura del cerchio’ – cioè la combinazione virtuosa di adeguatezza e sostenibilità nel sistema pensionistico riformato – si ottiene soltanto nelle condizioni sopra menzionate – carriere lunghe, retribuzioni adeguate ed età di pensionamento elevate – che potrebbero però rappresentare requisiti difficili da raggiungere per gli individui più svantaggiati, e forse anche per il lavoratore medio.
Rispetto a tale rischio, alcuni interessanti dati recenti, non più fondati su proiezioni teoriche, ma di fonte amministrativa, permettono di sostanziare con informazioni ‘reali’ – cioè con riferimento ai versamenti contributivi effettivi – le considerazioni attorno al livello di tutela assicurato dal sistema pensionistico pubblico. Seguendo i percorsi occupazionali e contributivi dei lavoratori di prima occupazione successiva al 1996, Raitano (2017) mostra, infatti, che per una quota significativa – oltre la metà – di questi lavoratori il versamento contributivo effettivo nei primi 13 anni di carriera rappresenta circa il 50% di quello effettuato dal lavoratore mediano – sempre occupato e con retribuzione media nel periodo di riferimento. Tale ridotto versamento avrebbe naturalmente come conseguenza la sensibile riduzione del livello delle prestazioni pubbliche di vecchiaia per una consistente porzione di pensionati futuri.
Tali considerazioni hanno perciò importanti implicazioni sia per l’adeguatezza che per l’equità del sistema pensionistico per le giovani generazioni. Infatti, se si abbandona il riferimento esclusivo al lavoratore – poi pensionato – ‘medio’ per valutare i differenti profili di rischio cui gli individui sono esposti e l’effettiva capacità del sistema pensionistico di farvi fronte – soprattutto laddove, come accade in Italia da ben prima della crisi, il mercato del lavoro non riuscisse a offrire adeguate opportunità occupazionali e retributive all’intera forza lavoro – il quadro cambia radicalmente. Se i tassi di sostituzione attesi rimangono elevati per i lavoratori con carriere lunghe e non frammentate, i dati contenuti negli Adequacy Report della Commissione europea (European Commission 2015; 2018) mettono in evidenza le criticità tipiche dei sistemi contributivi come quello italiano: in questi sistemi, il livello atteso della pensione – espresso nei termini del tasso di sostituzione – si riduce in modo molto significativo per coloro che non riescono (o non possono) soddisfare le condizioni delineate sopra (carriera lunga ed età pensionabile elevata). Ad esempio, per un lavoratore con contribuzione pari a 30 anni, il livello della pensione si riduce di 25 punti percentuali rispetto a quello di un lavoratore che inizia l’attività a 25 anni e rimane occupato ininterrottamente fino all’età pensionabile. In diciotto Paesi nell’UE28 tale decremento si mantiene moderato – entro i 15 punti percentuali – mentre l’Italia appare tra i Paesi nei quali le regole pensionistiche più penalizzano questo tipo di lavoratori. Risultati non dissimili appaiono dal confronto tra il livello della pensione per un lavoratore costretto ad abbandonare l’attività lavorativa prima dell’età pensionabile – ad esempio a causa di licenziamento – e dunque con 5 anni di disoccupazione prima del pensionamento e quello di un lavoratore occupato ininterrottamente dai 25 anni all’età pensionabile: qui l’Italia presenta il dato più penalizzante nell’UE28, con una riduzione prevista di 15 punti percentuali, mentre in quattordici Paesi tale diminuzione è contenuta al di sotto dei 5 punti percentuali (European Commission 2015).
Infine, da una prospettiva parzialmente differente, va rimarcato come il perseguimento di un adeguato livello di tutela pubblica tramite requisiti d’accesso particolarmente elevati sollevi problemi di equità alla luce delle considerazioni sopra esposte circa la minore aspettativa di vita per le fasce di popolazione a più basso reddito e le categorie professionali più svantaggiate.
Le pensioni domani, quale ruolo per la previdenza complementare?
Rispetto a quanto appena osservato, va peraltro detto che il piano di riforma lanciato negli anni Novanta, prevedendo la sensibile riduzione del livello delle pensioni pubbliche con il passaggio al metodo contributivo – si calcolava che per un lavoratore che andasse in pensione a 65 anni con 40 anni di contributi il tasso di sostituzione sarebbe diminuito da circa il 75% al 60% tra il 2000 e il 2040 – aveva anche individuato nello sviluppo della previdenza complementare lo strumento volto a contrastare tale decremento al fine di mantenere tassi di sostituzione adeguati, attorno al 75%-80% (Ministero del Welfare 2002).
Tuttavia, ventisei anni dopo la riforma Amato che introdusse il primo quadro regolativo per la previdenza integrativa a capitalizzazione in Italia, va preso atto che il progetto di tutelare, tramite schemi di previdenza complementare l’intera popolazione occupata – o almeno tutti i lavoratori dipendenti – è sostanzialmente fallito. Le adesioni, benché cresciute fino a 8,19 milioni a settembre 2019 (9 milioni se si contano le adesioni multiple[7]) – di cui però solo 5,9 milioni effettivamente versanti nel 2018 (Covip 2018; 2019) – appaiono ancora limitate rispetto al bacino potenziale – 30,2%, che scende al 22,7% se si considerano i soli versanti effettivi nel 2018 – con un livello di copertura complessivo attorno al 35% dei lavoratori occupati.
Il tasso di partecipazione (iscritti ai fondi complementari in percentuale sulle forze di lavoro) aumenta inoltre con l’età: 32,4% nella classe 45-54 anni e 39,9% tra 55 e 64 anni, mentre si ferma al 20,4% tra i giovani sotto i 35 anni e al 27,9% nella fascia 35-44 anni. Ciò appare paradossale rispetto al fatto che sono le giovani generazioni soggette al metodo contributivo a rischiare una tutela pubblica inadeguata; meno paradossale è, tuttavia, se si considerano i contratti, le carriere e i livelli retributivi (Raitano 2017; 2019) di coloro che sono entrati nel mercato del lavoro dopo la metà degli anni Novanta. Inoltre, il livello di copertura (iscritti su occupati) è più alto tra i lavoratori dipendenti privati (oltre 43%) rispetto agli autonomi (circa 20%) e al comparto pubblico, in cui si registrano soltanto 180 mila adesioni su 3,2 milioni di addetti. Infine, le adesioni sono più diffuse nelle grandi imprese – con tassi di adesione superiori all’80% – rispetto alle piccole aziende – tassi inferiori al 10% – e lo stesso ampio divario si registra tra i tassi di adesione in comparti industriali ‘forti’ (energia oltre il 90%, chimico 83%) e i settori commercio-turismo-servizi (con tassi inferiori al 10%, in primis il fondo Fon.te con 219 mila iscritti su un bacino di 2,5 milioni). L’elevata variazione tra i tassi di adesione dei diversi fondi negoziali ribadisce, pertanto, la difficile relazione tra struttura economico-produttiva italiana (Pavolini et al. 2013; Jessoula 2017) – caratterizzata dalla prevalenza di piccole e micro-imprese – e la previdenza complementare volontaria, con il tasso di adesione che cresce linearmente con l’aumento delle dimensioni d’impresa e le difficoltà, specie per i fondi pensione chiusi, di espandere significativamente la copertura al di là delle aziende medio-grandi. Last but not least, la previdenza complementare è sostanzialmente appannaggio, tra i lavoratori dipendenti, di quelli assunti con contratto a tempo indeterminato.
Avvicinandosi ai tre decenni dall’avvio della previdenza complementare in Italia, si può perciò ragionevolmente affermare che – in assenza di interventi sostanziali da parte del legislatore e/o delle parti sociali – la previdenza integrativa non sarà in grado di svolgere la funzione di integrazione, appunto, delle pensioni pubbliche per la quale era stata introdotta in primis con riferimento a quei lavoratori entrati nel mercato del lavoro negli anni Novanta. Per diverse ragioni, infatti, le coorti che hanno iniziato a lavorare successivamente alle riforme Amato (1992-93) e Dini (1995), e che inizieranno ad andare in pensione tra poco più di un decennio, difficilmente potranno contare su una robusta pensione complementare utile a mantenere il reddito nella fase di quiescenza. In primo luogo, perché per una decina d’anni le iscrizioni sono rimaste assolutamente residuali, attestandosi di poco sopra il milione ancora nel 2002. In secondo luogo, perché la copertura dei pilastri a capitalizzazione mostra ancora vastissime lacune, come mostrato sopra: di fatto 15 milioni su 23 milioni di occupati rimangono fuori dal sistema di previdenza complementare. Terzo, una situazione paradossale emerge considerando che, come detto, le adesioni ai fondi complementari tendono a concentrarsi tra i lavoratori ‘forti’ – perlopiù impiegati nelle grandi imprese (specie al Centro-Nord), nei settori economici centrali – per i quali sono ancora ipotizzabili carriere lavorative lunghe, poco frammentate e con salari adeguati: in tali condizioni la combinazione di pensione pubblica e pensione complementare produrrebbe tassi di sostituzione da ‘Età dell’oro’, attorno 90-100% secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato (RGS 2016). Al contrario, per quella quota rilevante – come mostrato da Raitano (2017) – di individui che presentano per lunga parte della vita lavorativa carriere frammentate e/o poco remunerate, vi è un rischio elevato di ricevere una pensione pubblica d’importo insufficiente, che necessiterebbe sì di un’integrazione da fonte complementare: tuttavia, i lavoratori con carriere intermittenti e/o svantaggiate tendono a non aderire alla previdenza integrativa. Essi potranno perciò contare sulla sola pensione pubblica, verosimilmente inadeguata, e nei casi più fortunati su modeste prestazioni complementari ove riuscissero ad agganciare – dopo una fase più o meno lunga di svantaggio occupazionale – posizioni lavorative più stabili e remunerative.
4. Riflessioni conclusive
Possiamo in definitiva affermare che, in campo pensionistico, l’Italia non è un Paese per giovani?
La risposta, benché sostanzialmente affermativa, va accompagnata da una serie di importanti qualificazioni.
La prima considerazione è che non tutto ciò che è ereditato dall’Età dell’Oro in effetti luccica. Pur a fronte di una spesa elevata, infatti, le garanzie offerte dal sistema pensionistico edificato nei decenni della grande espansione previdenziale, e con le cui regole sono entrate in quiescenza le coorti di attuali pensionati, sono state estremamente generose rispetto alle condizioni di accesso al pensionamento. Tuttavia, rispetto ad adeguatezza ed equità delle prestazioni, gli esiti sono meno soddisfacenti, per la debole capacità di protezione dal rischio di povertà nella vecchiaia e l’ampia quota di pensionati con redditi pensionistici modesti, a fronte di una spesa rilevante per pensioni molto elevate – frutto di una inefficiente e inefficace allocazione delle risorse, se si considera che si spendono ogni anno 7 miliardi e mezzo di euro per 2 milioni e 200 mila pensionati con prestazioni sotto i 500 euro mensili e 17 miliardi per 200 mila percettori di pensioni oltre i 5 mila euro.
Ciò detto, appare però evidente come in termini di ‘ricchezza pensionistica’ complessiva – data dal rapporto tra durata media del pensionamento e livello delle prestazioni – le generazioni ‘giovani’ entrate sul mercato del lavoro dopo la metà degli anni Novanta e integralmente soggette al metodo contributivo escano perdenti dalla serie di riforme degli ultimi 25 anni: secondo le regole vigenti, andranno infatti in pensione molto più tardi – già nel 2017 l’età media effettiva di pensionamento di vecchiaia aveva raggiunto i 66 anni e mezzo, oltre cinque anni in più rispetto al dato del 1997 – con redditi pensionistici che riflettono tassi di rendimento inferiori a quelli generati dal sistema retributivo nei decenni passati.
Tuttavia, se osservato con solo riferimento al tasso di sostituzione teorico per l’individuo medio, con carriera continuativa e prolungata fino all’età pensionabile, il sistema pensionistico pubblico sarebbe in grado di assicurare livelli pensionistici adeguati – attorno all’80% netto rispetto all’ultima retribuzione – anche nei decenni futuri, livelli che diventerebbero ancor più elevati (attorno al 100%) nel caso di lavoratori iscritti anche a schemi di previdenza complementare.
Le criticità sul piano dell’adeguatezza, e dunque dell’equità, appaiono però non appena si considerano le prospettive previdenziali di quella quota – molto significativa secondo dati recenti di fonte amministrativa – di lavoratori che presentano carriere frammentate e/o a bassa retribuzione. Per tali individui il livello della pensione futura si riduce rapidamente a fronte di periodi contributivi relativamente più brevi rispetto alle carriere piene. Infatti, come messo in luce dalle analisi comparate (Hinrichs e Jessoula 2012; European Commission 2015) i sistemi di tipo contributivo – caratterizzati da limitata redistribuzione verticale – sono tra i più penalizzanti per i lavoratori con carriere svantaggiate e frammentate.
Su tale sfondo, due considerazioni finali consentono di individuare l’equità come il vero tallone d’Achille del modello pensionistico per le giovani generazioni italiane. Da un lato, il fatto che per tali lavoratori svantaggiati, con prospettive previdenziali inadeguate rispetto al livello della pensione pubblica, non ci si può verosimilmente attendere un contributo significativo dalle forme pensionistiche complementari, per effetto della diffusione di queste ultime, ancora molto modesta e soprattutto concentrata tra gli individui più forti sul mercato del lavoro. Dall’altro, va considerato che le esigenti condizioni di accesso al pensionamento – quelle che consentirebbero, di fatto, l’adeguatezza del sistema almeno per i lavoratori con carriera piena – presentano un profilo fortemente regressivo per via dei significativi differenziali nelle aspettative di vita tra individui con diversi status socio-economici.
Al fine di costruire un sistema pensionistico che non sia soltanto sostenibile sul piano economico-finanziario e adeguato solo per alcuni, ma anche equo e capace tanto di prevenire la povertà quanto di assicurare un livello adeguato di reddito pensionistico alla gran parte di individui attualmente sul mercato del lavoro, pare dunque essenziale affinare gli strumenti di analisi e delineazione delle misure di riforma spostando il fuoco da una prospettiva intergenerazionale – come quella almeno in parte adottata in questo contributo – a una intra-generazionale che si concentri sulle differenze sistematiche di carriere, retribuzioni, condizioni e aspettative di vita tra i lavoratori di oggi, pensionati di domani.
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