Introduzione
Interrogarsi sul perché uno Stato moderno valuta politiche??? e organizzazioni pubbliche mi offre l’occasione per avanzare una riflessione critica sulle potenzialità e i limiti della valutazione nel sistema istituzionale italiano (Regonini 2017). In questo articolo, dialogo con le tesi di un noto storico statunitense, James C. Scott (1998, 2017), che ha scritto saggi illuminanti sull’iper-modernismo degli Stati contemporanei e sui meccanismi di controllo e di sopraffazione degli Stati dell’antichità, meccanismi ancora rinvenibili nei sistemi istituzionali odierni. Esamino il processo di formazione e modernizzazione dello Stato e la natura della conoscenza prevalentemente tecnica (dal greco techné) che le istituzioni adoperano per governare complessi processi e problemi sociali. Esploro l’humus ideale della valutazione burocratica e mi soffermo sulla mentalità razionalista compatibile con una valutazione autocratica - secondo la classificazione politica della valutazione proposta da MacDonald nel 1976[1]. Mettendo in risalto il legame esistente tra funzionamenti statali (antichi e moderni) e processi valutativi, il mio obiettivo consiste nell’individuare le condizioni in cui la valutazione tradisce la funzione democratica che in principio le è assegnata nell’ambito degli assetti istituzionali più avanzati (Norris 2015; Furubo et al. 2002; Jacob et al. 2015).
I saggi di Scott (1998, 2017) infondono maggiore realismo nell’analisi della formazione e della modernizzazione dello Stato rispetto alle tesi sul contratto sociale e alle recenti ricostruzioni storiche dei “nuovi ottimisti” che intravedono nell’evoluzione degli Stati l’unico sentiero di progresso dell’umanità[2]. Gli scritti di Scott colgono gli aspetti degenerativi, ma anche le potenzialità di riforma istituzionale e rivalutano il ruolo della conoscenza pratica (dal greco m?tis) nella capacità di governo e di gestione della cosa pubblica. In tal senso, la valutazione delle politiche e delle organizzazioni è anche e soprattutto sapere pratico situazionale (Kuji-Shikatani 2015), che può favorire il dialogo tra valutatori, manager e politici e l’instaurarsi di relazioni cooperative ed etiche nello scambio di informazioni e conoscenze utili alla programmazione, all’amministrazione e alla regolazione.
Il primo paragrafo ripercorre, nella storia della lunghissima durata, l’oscillazione tra Stato e non-Stato per cogliere i meccanismi che influenzano le valutazioni di carattere burocratico, particolarmente diffuse oggi in Italia. Il secondo paragrafo mette a fuoco la mentalità iper-modernista che avalla processi valutativi di tipo autocratico. Il terzo paragrafo riconosce il valore della conoscenza pratica e situazionale nella ricerca valutativa compatibile con sistemi istituzionali pluralisti e democratici da rafforzare specialmente nella pubblica amministrazione italiana. L’ultimo paragrafo trae sinteticamente le conclusioni.
Lo Stato-non-Stato e la valutazione burocratica
A partire dalle evidenze degli archeologi e dei paleontologi contemporanei, l’ultimo libro di James C. Scott - dal titolo Against the Grain: A Deep History of the Earliest States (2017) - sovverte la narrativa dominante sulla formazione dello Stato. Le prove finora emerse fanno risalire la nascita dello Stato a un periodo posteriore l’addomesticamento delle abitudini di vita delle prime comunità dell’homo sapiens dell’era del neolitico. Gli Stati agrari degli antichi babilonesi emergono intorno al 3100 a.C. ben quattromila anni dopo la trasformazione della vita nomade in vita sedentaria. In questo lasso di tempo esteso, l’umanità si dedica alla caccia e coltiva piante e semi utili al proprio sostentamento. Sperimenta forme di organizzazione collettiva proto-statuale ma ritorna al nomadismo non appena la vita associata genera epidemie o costi insostenibili per la sopravvivenza. Lo Stato si afferma grazie alla relativa abbondanza di grani coltivati nelle pianure alluvionali del Tigri e dell’Eufrate quando l’irrigazione, la catalogazione delle piante e delle foreste, la classificazione dei semi e il prelievo delle tasse diventano forme di controllo e di appropriazione di forza lavoro, terra arabile e riserve alimentari da asservire a poteri e privilegi parassitari.
La nascita dello Stato si piega alla necessità di garantire risorse per governanti e scribi dediti ad attività funzionali alla vita collettiva. Per un lunghissimo periodo di tempo, però, l’oscillazione tra Stato e non-Stato delinea un percorso a zig-zag in cui violenza, sfruttamento e epidemie riducono la qualità della vita delle comunità stanziali, incentivandone la dissoluzione. L’agricoltura addomestica energie e lavoro in forme di vita associata che si disperdono in occasione di carestie, pestilenze e in condizioni di schiavitù insopportabile. L’affermarsi dello Stato non dipende né da una scelta consensuale né dalla prospettiva di migliori forme di vita. L’interpretazione di Scott smonta le teorie di Hobbes e di Kant, che postulano l’abbandono volontario dello stato di natura per sottoporsi all’autorità della legge positiva, ma anche la concezione hegeliana dello Stato come incarnazione dello spirito, fino a demolire le più recenti posizioni che scorgono nella traiettoria evoluzionistica l’unico sentiero di progresso verso prosperità e pace[3].
Contrariamente alle dottrine filosofiche che esaltano l’azione civilizzatrice dello Stato, Scott riconsidera l’età dell’oro dei barbari. All’apice del loro sviluppo, le popolazioni nomadi depredano le comunità stanziali dedite all’agricoltura, già organizzate in forme di vita collettiva. Non più costretti a cacciare per garantirsi la sopravvivenza, i popoli barbarici vivono sulle spalle dello Stato, compiendo saccheggi, estorsioni, razzie, al riparo da epidemie e regole sociali vessatorie. La presunta condizione di vita migliore non è legata all’assenza dello Stato quanto piuttosto alla possibilità di sottrarsi a uno Stato violento e corrotto e godere della libertà da comunità inevitabilmente vittime di angherie, sopraffazioni e malattie. Finché il processo di formazione dello Stato non raggiunge una duratura stabilità nel tardo Medio Evo e definitivamente in età moderna, le condizioni di sfruttamento e di probabile morbilità delle comunità sedentarie spingono verso l’exit — per dirla con Hirschman (1978) — favorendo l’abbandono delle comunità stanziali soggette a spoliazioni sia da parte delle popolazioni nomadi, sia da parte degli Stati nascenti. La carenza di informazioni sulle condizioni di vita barbariche non consente di ricostruire quest’ipotesi di sviluppo alternativo. La storia narra il percorso ufficiale degli edifici, della vestigia, dei reperti e dei documenti scritti, funzionali alla costruzione e al consolidamento dello Stato[4].
L’interpretazione di Scott è particolarmente rilevante nel presente per la ricostruzione delle interazioni tra Stato e non-Stato che fin dalla notte dei tempi caratterizzano l’organizzazione di vita della specie umana in bilico tra ordine e anarchia, regole e natura. I meccanismi Stato-non-Stato si scorgono tuttora all’opera nelle società odierne, ove le disfunzioni stataliste degli apparati burocratici inducono individui, gruppi sociali e organizzazioni a scovare informali percorsi di sopravvivenza alla ricerca di maggiori gradi di libertà. Nonostante i vincoli di bilancio imposti alle politiche sociali, ad esempio, numerosi studi dimostrano che la gestione dei programmi di welfare di fatto modifica le finalità istituzionali e accresce competenze e risorse (Hacker 2005) così come le politiche pubbliche si trasformano nel tempo e nello spazio quando chi è in prima linea nei processi di attuazione interpreta e assume decisioni in risposta ai bisogni emergenti nei contesti locali (Lipsky 1980). I migranti sono l’esempio di coloro che vivono nel limbo del non-Stato: in fuga da Stati violenti e oppressivi, rimangono in una condizione di non cittadini negli Stati di accoglienza (Sager 2018). Anche le organizzazioni criminali, l’evasione fiscale, la fuga dei capitali all’estero (Hirschman 1978), le forme di corruttela sono condizioni di non-Stato che perdurano in quanto esiste uno Stato da sfruttare e depredare.
In breve, l’interazione tra Stato-non-Stato è ubiqua nelle esperienze istituzionali e sociali antiche e attuali ed è il segnale tanto di una degenerazione coercitiva o opportunistica, quanto di una possibile trasformazione innovativa, una sana reazione immunitaria alle patologie statalistiche e parassitarie. Diversamente dall’inarrestabile corsa verso magnifiche sorti e progressive, le zone d’ombra degli Stati antichi e moderni disvelano inattese costellazioni di incivilimento, solidarietà, cambiamento, ma anche tendenze pervicaci al centralismo, alla burocrazia, alla corruzione e alla sopraffazione. Nelle circostanze in cui le disfunzioni statalistiche predominano, risulta abbastanza intuitivo concludere che anche gli strumenti valutativi più comunemente adoperati possono degenerare in esercizi di controllo o in meri adempimenti burocratici (MacDonald 1976; Marra 2018). Basti pensare agli odierni indicatori di performance o agli algoritmi invalsi nella governance di sistemi istituzionali multi-livello. Questi sono sovente il tentativo di ridurre complesse interdipendenze sociali, organizzative e politico-istituzionali in misurazioni quantitative che condizionano l’esercizio dell’accountability alla verifica dell’efficienza o di fattispecie di reato di corruzione o abuso d’ufficio (Pollitt 2013; Dahler-Larsen 2014; Lewis 2015; Marra 2017a, 2017b). Nelle circostanze in cui la responsabilità manageriale è agita e sanzionata dalla magistratura, la valutazione perde legittimità come strumento di verifica dei risultati della gestione. Cresce allora l’avversione al rischio dei dirigenti e degli amministratori — che tendono a non farsi coinvolgere nella gestione di complessi contratti pubblico-privati con potenziali conseguenze legali — mentre il rischio di manipolazione delle informazioni e l’effetto deterrente e punitivo della valutazione intensificano un clima di sospetto, di diffidenza, di scetticismo che rafforza il formalismo delle procedure gerarchicamente strutturate. Questo è l’humus ideale per la valutazione burocratica (MacDonald 1976), priva di qualsiasi funzione formativa e sommativa, effetto e, a sua volta, causa di una deriva statalista che fa presagire un’opzione exit (Hirschman 1978).
Lo stato iper-modernista e la valutazione autocratica
In un altro celeberrimo lavoro del 1999 dal titolo Seeing Like a State, Scott esamina in che modo lo Stato adopera i saperi tecnici per catalogare le dimensioni della vita collettiva al fine di ridurre la complessità del governo dei diversi contesti locali e centralizzare le decisioni pubbliche. Negli Stati dell’antichità, valutazione è sinonimo di classificazione di piante, alberi, semi, animali, attrezzi per la coltivazione. È la misurazione dell’estensione dei fondi da arare, la stima della produzione agricola attesa ed effettivamente ottenuta, l’amministrazione fiscale con il prelievo delle tasse e la redistribuzione delle risorse in natura. Con il consolidamento delle istituzioni di governo, l’intervento dello Stato nella sfera sociale ed economica richiede capacità di analisi di problemi e contesti sempre più sofisticate. Sperimentare soluzioni di politica pubblica esige l’utilizzo di categorie analitiche chiaramente intellegibili e condivisibili, che comportano forme e gradi diversi di manipolazione (Scott 1999).
Qualsiasi intervento dello Stato nella società — che sia per vaccinare una popolazione, produrre beni, mobilitare lavoro, tassare le persone e le loro proprietà, condurre campagne di alfabetizzazione, applicare norme igienico-sanitarie, catturare criminali, estendere la scuola dell’obbligo — richiede, secondo Scott, l’invenzione di unità di analisi ‘visibili’ e ‘leggibili’. Le unità in questione potrebbero essere cittadini, villaggi, alberi, campi, case o persone raggruppate in base all’età o a seconda del tipo di intervento. Perché possano essere considerate unità di analisi, occorre che esse siano organizzate in modo da consentirne l’identificazione, l’osservazione, la registrazione, il conteggio, l’aggregazione e il monitoraggio. Il grado di conoscenza richiesto dovrebbe essere approssimativamente commisurato all’incisività dell’intervento. In altri termini, maggiore è la manipolazione prevista, maggiore è la leggibilità necessaria per effettuarlo,
[…] proprio come un boscaiolo che prende solo un carico occasionale di legna da ardere non ha bisogno di avere una conoscenza dettagliata della foresta, uno Stato le cui finalità si limitano ad accaparrarsi pochi carretti di grano potrebbe non richiedere una mappa dettagliata della società da amministrare. Se, tuttavia, lo Stato è ambizioso, se vuole estrarre quanto più grano e più manodopera possibile, a meno di provocare una carestia o una ribellione, se intende formare una popolazione alfabetizzata, qualificata e sana, se vuole che tutti parlino la stessa lingua o adorino lo stesso dio, allora dovrà diventare molto più competente e molto più invadente […][Scott, 1999, p. 238, traduzione mia].
Proudhon, nel diciannovesimo secolo, ironicamente sottolinea che essere governati significa:
[…] essere tenuti d’occhio, ispezionati, spiati, regolati, indottrinati, elencati, controllati, stimati, valutati, censurati, ordinati […] Essere governati implica, ad ogni operazione, transazione o movimento, essere annotati, registrati, conteggiati, apprezzati, ammoniti, prevenuti, riformati, corretti […][Proudhon in Scott (1999), p. 247; traduzione mia]
A ben guardare, la genesi dell’odierna funzione di valutazione nell’ambito delle istituzioni di governo affonda le sue radici nella necessità da parte dello Stato di predisporre ambiziosi interventi di accrescimento del proprio potere, ma anche di cambiamento delle condizioni di vita delle società da governare, comprendendone le esigenze, i problemi e le trasformazioni rispetto a unità di analisi variabili — beneficiari, utenti, famiglie, comunità, villaggi e contesti sociali più ampi. Si tratta di una formidabile capacità politico-cognitiva dello Stato moderno, che Proudhon deplorava perché ancora troppo tenue ed effimera. Gli Stati moderni sono più giovani delle società che amministrano e sono chiamati a gestire schemi variabili di insediamento, di interazione, produzione e riproduzione sociale, per non parlare di un ambiente naturale, che si è evoluto in gran parte indipendentemente dagli interventi di politica pubblica. L’immagine dei contesti urbani come Bruges o la Medina di una vecchia città mediorientale— nota Scott — rendono efficacemente la complessità dell’intrapresa analitico-valutativa, come forma di conoscenza utile alla politica:
[…] ogni città, ogni quartiere è unico come somma vettoriale storica di milioni di disegni e attività. Mentre la sua forma e la sua funzione hanno sicuramente una logica, quella logica non deriva da un singolo piano onnicomprensivo. La sua complessità sfida qualsiasi mappatura. Qualsiasi mappa sarebbe, inoltre, spazialmente e temporalmente limitata. La mappa di un singolo quartiere fornirebbe modeste indicazioni sulle complessità del prossimo vicinato e una descrizione soddisfacente di oggi risulterebbe già inadeguata tra pochi anni […] [Scott, 1999, p. 248]
L’elevata eterogeneità, complessità e irripetibilità delle forme e delle aggregazioni sociali non permettono di penetrare le aree opache, impermeabili allo Stato stesso — sovente di proposito, se è vero, come precedentemente sottolineato, che le condizioni informali di non-Stato coesistono con quelle formali e ufficiali. Come può allora lo Stato gestire relazioni sociali storicamente stratificate, dinamicamente in continua evoluzione che talora sfuggono deliberatamente alla longa manus del proprio potere coercitivo? La risposta post-moderna di Scott è inevitabilmente critica:
[…] La logica dei tentativi su larga scala di ridisegnare la vita rurale e la produzione dall’alto è stato sovente descritto come un “processo di civilizzazione”. Preferisco vederlo come un tentativo di addomesticamento, una specie di giardinaggio sociale concepito per rendere la campagna, i suoi prodotti e i suoi abitanti più facilmente identificabili e accessibili [Scott, 1999, p. 278, traduzione mia].
Scott si scaglia contro l’imperialismo dell’ordine sociale iper-modernista e condivide la critica foucaultiana nei confronti dello Stato che obbedisce a un piano scientifico-razionale teso ad aumentare l’efficienza e l’efficacia dell’azione pubblica attraverso il crescente potere di controllo sulle vite degli individui (Foucault 1976). Gli episodi più tragici dell’ingegneria sociale ad opera dello Stato — afferma Scott — hanno origine dalla combinazione perniciosa dell’ordinamento amministrativo della società con la fede nelle idee moderniste, un regime autoritario pronto a usare il potere coercitivo per promuovere disegni modernisti e una società civile debole, che non ha la forza di resistere alla grandeur d’État. Quando queste quattro condizioni si verificano assieme - come è accaduto nell’ex Unione Sovietica, in Cina e in altri paesi in via di sviluppo -si possono generare i peggiori disastri dell’ingegneria sociale (Scott 1999).
È fin troppo evidente che la ricostruzione severa e sferzante dello Stato, che semplifica pianificando razionalmente, investe anche e soprattutto la valutazione come esercizio autocratico — direbbe MacDonald (1976). Come non condannare l’esperto, consigliere del principe che valida le politiche statali attraverso il rituale impiego dei metodi scientifici? Nell’esperienza valutativa italiana degli ultimi vent’anni circoli di policy differenti privilegiano tradizioni metodologico-disciplinari che erigono barriere cognitive, organizzative e professionali in maniera del tutto auto-referenziale. Nelle alte sfere di governo come pure negli organismi di valutazione a livello decentrato, si redigono ambiziosi programmi di cambiamento urbano, sociale, territoriale e industriale, ma si parcellizzano le funzioni di valutazione, burocraticamente distinte ed etichettate come valutazione delle performance, valutazione d’impatto, valutazione di impatto ambientale, accreditamento e certificazione della qualità, ecc. Nelle pieghe degli specialismi e nelle divisioni delle burocrazie, si insinuano clientelismo e opportunismo, sia da parte di politici committenti che da parte di valutatori commissionari degli studi. Al cuore del problema, la competizione tra saperi tecnico-scientifico-professionali in cerca di consenso e legittimità politica (Benno 2016). La valutazione autocratica è anche il segnale della delegittimazione del sapere pratico e contestuale in nome della supremazia della conoscenza razionale.
La virtù della conoscenza pratica
In Seeing Like a State (1999), Scott richiama la classica distinzione tra episteme (conoscenza certa, acquisita e codificata), techné (conoscenza tecnico-metodologica) e m?tis (conoscenza pratico-esperienziale) per sottolineare come delle tre forme di sapere, la techné è la conoscenza comunemente adoperata nei processi istituzionali. Per ridurre il rischio e l’incertezza, l’attività amministrativa e legislativa richiede di inventariare, registrare, rubricare, schedare, classificare, listare, ordinare, riordinare, sistemare. Si tratta di tecniche ideate per isolare e addomesticare quegli aspetti della politica che possono essere quantificati e assoggettati a regole sistematiche e impersonali perché le conoscenze così prodotte possano essere facilmente assemblate, documentate e trasmesse formalmente - sebbene da sole non siano in grado di spiegare come quel sapere sia nato, se cioè scaturisca da un pensiero deduttivo o da scelte pratiche frutto dell’esperienza (Scott 1999).
La valutazione è prevalentemente conoscenza tecnica, ma condivide processi epistemologici ed ermeneutici - l’episteme - con le scienze sociali di cui è ancella, essendo un corpus di conoscenze minore rispetto alle discipline tradizionali. Benché aspiri a diventare una super-disciplina con un oggetto di studio ben definito - vale a dire l’analisi delle interazioni tra interventi di politica pubblica e fenomeni sociali, economici, psicologici, giuridici, antropologici, amministrativi, organizzativi, istituzionali, gestionali, ambientali e naturali anche in prospettiva storica - la ricerca commissionata dalla politica è di prestigio inferiore rispetto alla ricerca di base e, almeno in Italia, è stata fortemente influenzata dall’economia, che ha esercitato un’egemonica selezione dei metodi e dei temi più esplorati e dibattuti. Solo di recente la sociologia, la psicologia e la scienza politica hanno cominciato a mutuare teorie e costrutti valutativi dalla tradizione nord-americana dei policy studies (Marra 2017b).
La techné valutativa è il campo di conoscenze metodologiche più sviluppato, ma anche quello segnato da divisioni culturali e contrasti inter-disciplinari, in cui la guerra dei paradigmi (positivismo e post-modernismo) cede il passo a una preoccupante degenerazione della qualità[5]. In Italia, il sapere tecnico valutativo nell’ambito delle istituzioni pubbliche è condiviso tra esperti di analisi d’impatto dei programmi, esperti di analisi delle performance amministrative, esperti di revisione della spesa, esperti di contabilità e finanza pubblica, tra cui si annoverano anche i giudici della Corte dei conti! Nelle istituzioni di governo, come già accennato sopra, la valutazione dei programmi è nata nell’alveo dell’analisi economica degli investimenti pubblici con le analisi costi-benefici e multi-criteri, ma la diffusione della tradizione della program evaluation ha di recente arricchito la varietà di ricerche tese ad esaminare l’esito di interventi multi-obiettivo, multi-sito e multi-attore a vari livelli di giurisdizione. Anche l’impostazione positivista che ha a lungo imposto la supremazia del metodo sperimentale (o contro-fattuale) lascia spazio a disegni valutativi orientati alla teoria (Weiss 1997) - che ricostruiscono, cioè, la teoria del cambiamento sottesa ad interventi di politica pubblica al fine di indagare nessi di causalità non lineare. Diversamente, i sistemi di misurazione delle performance organizzative includono il monitoraggio degli andamenti della gestione amministrativa e la verifica dello sforzo lavorativo profuso dai singoli individui e dalle équipe, al fine di migliorare la divisione del lavoro e l’organizzazione della produzione. Si potrebbe erroneamente intrattenere l’idea secondo cui le due forme di valutazione (cioè la valutazione di performance e d’impatto) possano co-esistere separatamente non solo come sistemi di conoscenze diverse, ma anche come funzioni distinte nell’ambito del sistema istituzionale italiano. Ritengo, invece, come ho già sottolineato altrove (Marra 2015, 2016, 2017a, 2017b) che siffatta separazione sia un problema cognitivo - sintomo dell’arretratezza delle scienze sociali e della loro inadeguatezza a confrontarsi con la politica - e il segnale dell’incapacità dello Stato ad avvalersi di forme complementari di sapere tecnico per la gestione delle organizzazioni e nel disegno delle politiche pubbliche.
Scott definisce la m?tis l’arte della località, che nella sfera della conoscenza valutativa può emergere in condizioni contestuali specifiche e sovente tacite allorché i valutatori, i manager e tutti gli altri stakeholder coinvolti condividono il sapere valutativo che si professionalizza in diversi settori di policy e comparti amministrativi, intrecciandosi con le dinamiche di potere all’interno delle organizzazioni. Come parte integrante della conoscenza pratica organizzativa (Cepollaro e Morelli 2016), la valutazione è un patrimonio di modelli causali, prove empiriche, valori e credenze che si socializzano nell’operare quotidiano e nelle strategie politico-istituzionali. Richiamando il concetto di conoscenza tacita di Michael Polanyi (1983) - fratello del più noto Karl - Nonaka (1994) ricostruisce i processi di socializzazione ed esternalizzazione del sapere organizzativo osservando come i membri di una comunità o di un gruppo non solo comprendono reciprocamente le loro specifiche funzioni, ma condividono e giustificano la definizione del lavoro comune. La collaborazione produce conoscenza tacita che viene esternalizzata in codificate strategie di avanzamento competitivo (Nonaka 1994).
Come sostengo altrove (Marra 2015, 2016, 2017a, 2017b), nell’esperienza politico-istituzionale italiana, la mancata socializzazione del sapere valutativo pratico è una lacuna nelle conoscenze a sostegno della capacità di governo e rischia di compromettere l’utilità della valutazione nell’attività amministrativa e legislativa. Le tecniche adottate per la valutazione delle performance e la valutazione d’impatto non hanno fatto breccia nei flussi informativi in circolazione nel sistema istituzionale locale e nazionale. Non si è adeguatamente diffusa una comunità di pratiche in grado di intervenire tanto nella pianificazione strategica quanto nella gestione quotidiana delle organizzazioni per apprendere dall’esperienza di programmazione e attuazione. Gli strumenti valutativi formali sono talora vincolanti e proceduralizzati - con prevalenza degli approcci statistico-economici - talora più generici e decentrati - compatibili eventualmente con metodi multidisciplinari e partecipativi. Ciononostante, la capacità di creare sapere valutativo pratico non è diventata virtuosa routine amministrativa e stenta a emergere una regia centrale in grado di valorizzare e diffondere le pratiche più promettenti (Marra 2015, 2016, 2017a). La carenza di m?tis nella cultura valutativa del sistema istituzionale italiano è una seria anomalia cognitiva e politico-istituzionale, poiché la valutazione nel proprio DNA epistemologico è essenzialmente sapere esperienziale che privilegia l’osservazione dei contesti sociali rispetto al deduttivismo dei modelli teorici e al tecnicismo metodologico tipico di altre discipline delle scienze sociali (Kolb 1984).
Il potere della conoscenza pratica risiede nell’osservazione eccezionalmente serrata e astuta del contesto (Scott 1999), che permette un vantaggio cognitivo e politico. Dal punto di vista cognitivo, la pianificazione di attività e interventi di politica che si svolgono in contesti unici e irripetibili, nel tempo e nello spazio, richiede l’acquisizione di elementi di sapere tacito e situazionale. Benché si possa sempre discettare sulla silvicoltura, sul cambiamento sociale, sull’urbanistica, sull’agricoltura e sugli insediamenti rurali - afferma Scott - quel tipo di conoscenza non permetterà mai di capire fino in fondo lo sviluppo di una specifica foresta, di una specifica rivoluzione o di una specifica fattoria (Scott 1999, p. 289). L’aggregazione dei dati e la formulazione di modelli astratti compromettono la capacità di governo di contesti eterogenei. Dal punto di vista politico, l’attitudine all’osservazione delle specificità predispone al pluralismo e alla democrazia. Soltanto riconoscendo la diversità delle realtà soggettive e contestuali, è possibile delineare gli interessi e le dinamiche politiche secondo modalità democratiche, ove la democrazia - asserisce Dewey - è qualcosa di più di una forma di governo, è prima di tutto un tipo di vita associata a un’esperienza continuamente comunicata, in cui ognuno deve riferire la sua azione a quella degli altri e considerare l’azione degli altri per abbattere barriere di classe, di razza e di territorio nazionale che hanno finora impedito di cogliere il pieno significato dell’attività umana (Dewey 1994). Come non scorgere nelle affermazioni di Dewey l’importanza della valutazione democratica come sapere esperienziale e plurale, una base informativa e conoscitiva capace di scardinare dogmi e dottrine contro le retoriche dell’intransigenza?[6]
Note conclusive
Sin dall’antichità, la gestione della cosa pubblica ha attinto a saperi tecnici per mettere a fuoco problemi e soluzioni, estrarre risorse e disegnare piani, formulare ipotesi o argomentare posizioni. Nonostante le diversità tra le funzioni analitico-valutative di ieri e di oggi, la tendenza a centralizzare le decisioni pubbliche è un elemento di continuità degli Stati nascenti e degli Stati moderni che si avvalgono di conoscenze tecniche per padroneggiare l’eterogeneità dei contesti e dei bisogni locali in condizioni di incertezza. Che il sapere tecnico possa degenerare in un esercizio burocratico è il rischio che lo Stato corre allorquando la conoscenza pratica e situazionale dei contesti si diluisce in categorie generali prive dell’originario significato locale. La valutazione burocratica (MacDonald 1976) presume l’assoluta oggettività e imparzialità delle conclusioni degli studi e del valutatore. Questi è l’esperto al servizio delle istituzioni che non può e non deve interferire nella formulazione e nella selezione delle priorità politiche benché, sovente, finisca per soccombere alle logiche istituzionali che richiedono adempimenti formali in cui l’esercizio del principio democratico della responsabilità per i risultati dell’azione pubblica passa in secondo piano rispetto alla verifica della responsabilità legale e personale dei manager nei confronti dei livelli istituzionali gerarchicamente sovra-ordinati.
La valutazione burocratica non è l’unica forma che emerge nei processi di governo di uno Stato che si consolida nel tempo. Nella logica iper-modernista, la valutazione autocratica è appannaggio di esperti metodologi che applicano strumenti e tecniche differenti a seconda delle tradizioni culturali e professionali cui appartengono, al fine di sostenere ambiziosi piani di ingegneria sociale. Il rischio è che la conoscenza possa unicamente legittimare il potere di turno: per giustificare il finanziamento pubblico, il valutatore si sforza di produrre prove scientifiche su come e perché le politiche e le organizzazioni funzionano o dovrebbero funzionare. Le risultanze valutative possono sostenere posizioni, decisioni o proposte di politica pubblica, ma la manipolazione e la reificazione di idee di razionalità politica rischiano di semplificare pericolosamente la complessità dei contesti e dei problemi sociali (Lindblom 1959).
Come sistema di costrutti teorici, strumenti metodologici e prassi organizzative, la valutazione può, invece, sostenere corsi d’azione saldamente ancorati al contesto ove perseguire una visione del cambiamento possibile, senza scadere nel tecnicismo. Politici, manager, amministratori e legislatori possono trarre giovamento dai costrutti teorici e dalle evidenze empiriche del repertorio valutativo in aggiunta a tutto il sapere codificato e tacito che confluisce nei processi decisionali, regolativi e gestionali. Occorre, tuttavia, uno sforzo cognitivo umile, incessante e mirato, capace di plasmare le decisioni politico-gestionali e legislative come processi di relazionalità affermando la centralità della critica costruttiva nel dibattito democratico, quanto mai cruciale oggi in parlamento, nei media, nei partiti e nei movimenti politici, nelle piazze reali e virtuali, ma anche e soprattutto nelle amministrazioni (Cattaneo 1853 in Marra 2017b; Dunlop e Radaelli 2014). È attraverso la discussione che è possibile gestire programmi e servizi mobilitando il sapere esperto e tacito delle organizzazioni e dei gruppi sociali. Nelle dinamiche politico-cognitive odierne, la valutazione può socializzare ed esternalizzare il sapere pratico-organizzativo per orientare la gestione democratica della cosa pubblica di uno Stato moderno.
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