SINAPPSI

2018/1

Verso un nuovo modello sociale europeo in risposta alle disuguaglianze che avanzano


A partire dai nessi tra disuguaglianze dei redditi e crescita delle nuove povertà in Europa, l’articolo evidenzia l‘urgenza di un modello sociale europeo capace di ricostruire i diritti universali che le politiche economiche neoliberiste hanno indebolito. Il recupero di una centralità dei diritti sociali e del lavoro ispirano i recentissimi dispostivi europei che rischiano però di tradursi in meri enunciati senza una messa in discussione della politica economica europea. L’articolo rilegge il Reddito di inclusione alla luce dei dispostivi europei, evidenziandone gli scostamenti da una garanzia di reddito minimo quale strumento di contrasto alla povertà.

Starting from the relation between income inequality and the growth of new poverty in Europe, the article highlights the urgency of a European social model able to rebuilt those universal rights that neoliberal economic policies have weakened. The rediscovery of a central role of social and labor rights inspire the latest European social commendations and resolutions that could became just eclarations of intent without calling into question European economic policies. Taking into account the European recommendations, the articles also develops an analysis of the Italian tool “Reddito di Inclusione sociale (ReI)” highlighting discrepancies and weaknesses of the measure in fighting poverty. Citazione: Ruggeri V., Governatori G., Spitilli F., Verso un nuovo modello sociale europeo in risposta alle disuguaglianze che avanzano, Sinappsi , 8, n.1, pp. 60-70

Introduzione

In un’Europa sempre più segnata dalle disuguaglianze sociali ed economiche??? si assiste oggi a un dibattito serrato sulle possibili traiettorie di sviluppo di un nuovo modello di welfare????, alternativo a quello che abbiamo conosciuto come modello europeo di welfare?????. Nell’impianto discorsivo a supporto del nuovo modello, si evidenzia una tendenziale polarizzazione a favore di un welfare più smart, generativo, comunitario e innovativo sostenuto da investimenti privati e nuovi strumenti finanziari (si pensi al riguardo alla finanza d’impatto sociale) a completamento di quello pubblico licenziato come incapace di rispondere adeguatamente a una domanda sociale sempre più ampia e variegata a fronte di risorse economiche sempre più esigue. Sullo sfondo vi è un decennio di lunga e profonda crisi, l’impoverimento della classe media, l’invecchiamento della popolazione, la precarizzazione del lavoro e lo spettro della povertà che è avanzato in tutta Europa, specie in Paesi come il nostro caratterizzati da un sistema di protezione sociale inefficace. Vi sono poi le scelte politiche europee neoliberiste più attente al rigore del pareggio dei bilanci degli Stati membri, alla competitività globale, che non ad assicurare condizioni di vita e di lavoro dignitose per tutti. Fattori concomitanti questi, che hanno di fatto ridotto l’accesso ai servizi pubblici aggravando ulteriormente le già precarie biografie di milioni di persone. Viene, de facto, rimesso in discussione il principio dell’accesso universale a condizioni di vita dignitose per tutti i cittadini, mentre le distanze tra ricchi e poveri continuano ad acuirsi. Segno, quest’ultimo, dell’importante arretramento della politica in tema di giustizia sociale, di redistribuzione dei redditi e delle ricchezze (Franzini, Pianta 2016), della sua rinuncia a fronteggiare dinamiche economiche di natura internazionale. Ne sono prova i dati Eurostat sui redditi degli individui che ci riconsegnano un’Europa diseguale con incrementi consistenti dell’indice di disuguaglianza economica[1] dal 2008 al 2016 (figura 1).

Figura 1 – Disuguaglianza economica in Europa - Coefficiente di Gini valori%

 08_FIGURA 1 DISUGUAGL

Fonte: Dati Eurostat-EU-SILC 2016

 

La scarsa efficacia delle politiche nazionali ed europee nel contrastare questo fenomeno fortemente correlato alla nuova stagione del capitalismo contemporaneo, il finanzcapitalismo (Gallino 2011), ha inevitabilmente impattato su un aumento dell’indicatore relativo alla popolazione a rischio di povertà monetaria[2]. Tale indicatore, dopo i trasferimenti sociali, è passato dal 2010 al 2015 dal 16,5% al 17,3% (Eurostat 2017). È evidente l’urgenza di un recupero della centralità delle politiche pubbliche in ambito sociale per rispondere al disagio economico e sociale che non lascia immuni neanche coloro che un lavoro ce l’hanno, ma sono retribuiti in modo insufficiente o comunque non godono della stabilità necessaria per potersi considerare al riparo dal rischio povertà, i cosiddetti “lavoratori poveri”. Anche in questo caso, il quadro descritto da Eurostat, in un generale avanzamento del lavoro povero in Europa, pone l’Italia (anno 2016) tra i Paesi con il più alto tasso di lavoratori a rischio di povertà o esclusione sociale, preceduta solo da Spagna, Grecia e Romania (figura 2). Insomma, l’area degli “espulsi” o a rischio di espulsione si allarga senza più importanti resistenze, poiché “includere” non è funzionale allo sviluppo dell’economia finanziaria a differenza dell’economia materiale e, per dirla con le parole di Saskia Sassen (2015, p. 7), “l’economia politica globale ci pone di fronte ad un nuovo e allarmante problema: l’emergere della logica della espulsione”.

Figura 2 – Lavoratori a rischio povertà in Europa valori%

 08_Tabella 2 LAVORAT RISCHIO

Fonte: Dati Eurostat EU-SILC 2016

Pilastro europeo dei diritti sociali e Reddito minimo: la sfida per una società più equa?

Nonostante l’urgenza di politiche pubbliche atte a frenare le disuguaglianze sociali ed economiche che stanno minando i valori di un’Europa più equa e inclusiva, si deve prendere atto del fallimento della Strategia Europa 2020, licenziata dalla Commissione europea nel pieno della crisi economica (2010) e dell’esplodere del popolo degli outsider. La visione di un’Europa dallo sviluppo integrato Intelligente, Sostenibile e Inclusivo puntava a una crescita sostenibile non solo in termini di PIL, ma anche in ambito sociale e ambientale. Tuttavia, quell’ambizioso obiettivo di ridurre di 20 milioni gli oltre 80 milioni di persone nell’UE (16,5% dell’intera popolazione nel 2008) che vivevano al di sotto della soglia di povertà è stato seppellito da una politica di austerità imposta a tutti gli Stati membri, di cui lo stesso Fondo monetario internazionale (Dabla-Norris et al. 2015) ne riconosce oggi i limiti. In poco tempo, di quel modello di sviluppo e dei suoi target è rimasta la mera evocazione, mentre la popolazione a rischio di povertà o di esclusione sociale è aumentata in Europa senza alcun freno, colpendo 119 milioni di persone (nonostante le prestazioni sociali) e attestandosi al 25% della popolazione totale. È pur vero che Europa 2020 mirava a risolvere alcuni dei problemi che avevano caratterizzato la strategia del decennio precedente (la cosiddetta Strategia di Lisbona) portando l’Europa verso un modello di prosperità, piuttosto che di austerità (Renda, Cellai 2016)[3].

Nel lodevole tentativo di realizzare una crescita bilanciata, la Strategia Europa 2020, inghiottita dalla crisi del debito sovrano, ha mostrato tutta la sua debolezza nel processo di implementazione, ma la sua visione viene riproposta nella stesura della successiva Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile[4]. Si tratta di un ambizioso programma d’azione integrato per lo sviluppo economico, sociale e ambientale, sottoscritto nel settembre del 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Nella definizione dell’Agenda 2030, fortemente sostenuta dall’Europa (Commissione europea 2016) e strutturata in 17 obiettivi, il tema del contrasto alla povertà (obiettivo n.1) e - per la prima volta - della riduzione delle disuguaglianze (obiettivo n.10) entrano a pieno titolo nel programma. Insomma, in termini di princìpi l’Europa delle persone, dell’equità, della tutela ambientale, dell’occupazione buona e per tutti, sembra essere l’obiettivo da raggiungere entro il 2030, ma ancora una volta saranno le priorità delle scelte politiche realmente agite e non solo enunciate a influenzare la sua implementazione rendendo palesi le direttrici del modello di sviluppo. Sempre in tema di futura politica europea incentrata sulla convergenza degli Stati membri a favore della tutela dei diritti sociali, una particolare attenzione meritano i recentissimi dispositivi europei, ovvero il Pilastro europeo dei diritti sociali (Commissione europea 2017) e, in riferimento a un quadro europeo dei sistemi di protezione sociale contro la povertà, la Risoluzione del Parlamento europeo del 24 ottobre 2017 sulle politiche volte a garantire il reddito minimo come strumento per combattere la povertà[5]. Prima di approfondire alcuni aspetti chiave è bene precisare che i due documenti non hanno – almeno al momento in cui si scrive - alcun valore vincolante per lo Stato membro. Tutto ciò rischia di tradurre il futuro dell’Europa sociale in una fitta lista di intenti a impatto sociale pressoché nullo in termini di esigibilità dei diritti, poiché non vengono messe in discussione le scelte politiche europee che hanno determinato il generalizzato impoverimento dei diritti delle persone. Entrando nel vivo del documento, il Pilastro europeo dei diritti sociali, sottoscritto congiuntamente dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione durante il vertice sociale per l’occupazione equa e la crescita (il 17 novembre 2017 a Göteborg), ciò che si coglie nei 20 princìpi e diritti individuati (articolati in tre categorie: 1. pari opportunità e accesso al mercato del lavoro, 2. condizioni di lavoro eque, 3. protezione sociale e inclusione) è la rappresentazione plastica di tutti quei domini entro cui si è attuato l’impoverimento dei diritti sociali e del lavoro che oggi mettono in seria crisi la tenuta della coesione sociale in Europa e in ogni singolo Stato membro. Non solo, nel documento si coglie anche l’assenza di un’analisi che espliciti quei nessi causali tra le disuguaglianze nell’accesso ai diritti sociali e del lavoro e le scelte di politica economica che le hanno determinate: austerity, privatizzazione dei servizi pubblici, erosione del dialogo sociale, della contrattazione nazionale. Come evidenzia Amandine Crespy (2017) “... La Commissione e il Consiglio sembrano vittime di una sorta di schizofrenia politica. Da un lato, i governi nazionali sono invitati a continuare a tagliare i loro deficit; dall’altro lato sono chiamati ad ammodernare i loro sistemi di welfare. Di fronte a questo dilemma, non dovrebbe sorprendere che la maggior parte degli Stati membri non disponga delle capacità finanziarie o incentivi politici per impegnarsi seriamente con gli investimenti sociali”. Inoltre, come sottolineato da Chiara Crepaldi (2017), il contenuto potere assegnato alla UE in materia sociale da un lato, e la presenza di una maggioranza di Paesi governati da partiti conservatori (17 su 27) tendenzialmente euroscettici dall’altro, pur confermando l’alto valore simbolico del documento in tema di cittadinanza europea, lascia poco spazio alla sua reale implementazione.

Anche sul fronte specifico dei sistemi di protezione sociale dalla povertà, il dibattito europeo è stato piuttosto acceso, focalizzando il problema secondo un metodo “chirurgico” che prescinde dalla rimozione delle cause che lo hanno determinato, evitando così di affrontare il nodo della redistribuzione dei redditi e la produzione di beni collettivi quali la salute e l’istruzione (Comisso, Savini 2017). L’obiettivo è sempre quello di costruire un quadro di riferimento europeo sul reddito minimo per tutti i Paesi membri comunque dotatisi, nel tempo, di un proprio schema di protezione sociale dalla povertà.

Punto di partenza è la presa d’atto che tali schemi e misure correlate sono oggetto di alcune criticità abbastanza generalizzate: la tendenziale inadeguatezza delle prassi di molti Paesi nella capacità di arginare la povertà e le disuguaglianze, l’incapacità di rispondere ai bisogni dei cittadini in difficoltà, l’involuzione dei suddetti schemi verso l’irrigidimento dei criteri di accesso al beneficio economico, nonché delle condizionalità (obblighi e sanzioni) a carico del beneficiario. La Risoluzione del Parlamento europeo del 24 ottobre 2017 Politiche in materia di reddito minimo come strumento per combattere la povertà (già al centro della Comunicazione della Commissione europea del 27/4/2017 sul pilastro sociale europeo), esito di un lungo dibattito ed elaborazione della Commissione per i problemi economici e monetari, sembra costituire la sintesi del dibattito di politica europea in tema di dispositivi di contrasto all’indigenza. L’esigenza di disporre di uno schema di Minimum Income a livello europeo è stata un’idea condivisa fin dagli anni 90’[6], ribadita a più riprese nell’Agenda sociale 2005-2010 (Commissione europea 2005), nell’Agenda del 2009 (dove si introduce il concetto dell’attivazione sociale) passando per la Comunicazione European economic and social Committee nell’ambito di Europa 2020, il Social Investiment Package del 2013 Commissione europea (2013), fino all’istituzione della European Anti-poverty Network (EAPN) con l’obiettivo di individuare una strategia comune europea utile all’introduzione di un General Minimum Income in tutti i Paesi UE, entro la fine del 2020. La Risoluzione, che non nasconde come l’obiettivo di Europa 2020 in materia di povertà e di esclusione sociale sia lontano dall’essere raggiunto, pone in luce questioni che rimettono in fila alcune interessanti considerazioni in merito al rapporto tra disuguaglianze, smantellamento dei servizi pubblici di welfare e povertà. Il documento pone in luce come le ampie disparità di reddito non siano solo dannose per la coesione sociale, ma ostacolino anche la crescita economica sostenibile e come l’impatto della crisi, più grave per i redditi più bassi, abbia acuito le disuguaglianze di reddito. Pone in luce come le restrizioni imposte agli Stati membri per far fronte ai disavanzi di bilancio abbiano ristretto la spesa sociale sul welfare (sanità pubblica, istruzione, sicurezza e protezione sociale, alloggi) nonché sull’accesso ai servizi correlati e sulla loro adeguatezza, disponibilità e qualità. Le ripercussioni negative si sono avute soprattutto sulle categorie più vulnerabili (punto AX della Risoluzione) sottolineando comunque come queste disparità abbiano un costo per l’intera economia. Al riguardo, gli studi della Banca Mondiale (Perry et al. 2006) dimostrano come la povertà incida negativamente sulla crescita economica (punto BC della Risoluzione) e come le politiche a sostegno degli svantaggiati possano invece andare a vantaggio dell’intera economia. Ne sono prova le politiche di sostegno al reddito familiare che hanno ridotto l’impatto della recessione nei Paesi che ne erano dotati poiché le politiche in materia di reddito minimo fungono da stabilizzatori (punto BA della Risoluzione). Il documento assume la povertà di reddito come una parte del concetto generale di povertà, che non si riferisce alle sole risorse materiali, ma anche alle risorse sociali, in particolare l’istruzione, la salute e l’accesso ai servizi (punto D della Risoluzione).

Il documento arriva a fornire agli Stati membri alcune “linee guida” per ri-pensare i propri schemi di protezione sociale, collegandoli anche alla valorizzazione del lavoro e dei diritti del lavoro fondati sulla contrattazione collettiva e sui servizi pubblici di qualità (sanità, istruzione e sicurezza sociale) quali volani dello sviluppo. Ribadisce che nella definizione delle soglie di reddito minimo i Paesi dovrebbero assumere, per la parte monetaria, la soglia di rischio della povertà fissata da Eurostat: 60% del reddito disponibile equivalente mediano nazionale (dopo l’erogazione delle prestazioni), accompagnando il beneficio economico di ulteriori forme di assistenza sociale, compresi gli alloggi. Non solo, invita gli Stati membri a modificare i propri regimi qualora escludano gruppi significativi di persone in stato di povertà e a rimuovere gli ostacoli amministrativi per l’accesso di persone che già vivono in condizioni di vulnerabilità. Tra le conclusioni, il Parlamento europeo chiede che in sede di definizione delle politiche macroeconomiche “si presti d’ora in poi la dovuta attenzione alla necessità di ridurre le disuguaglianze sociali e di garantire a tutte le categorie sociali l’accesso ai servizi pubblici finanziati in maniera adeguata, contrastando in tal modo la povertà e l’esclusione sociale” (punto 53 della Risoluzione europea). Insomma, un invito a cambiare radicalmente strada rivolto a quei Paesi con schemi di reddito minimo insufficienti in termini di copertura della platea di coloro che versano in situazione di disagio estremo e relativo, e insufficienti per le relative risorse economiche messe in campo e le misure complementari al sostegno al reddito come l’accesso ai servizi di welfare, compresi gli alloggi. Sul come conciliare il valore della giustizia sociale nell’Europa delle disuguaglianze e l’osservanza dei diktat dell’Unione europea sul pareggio di bilancio non vi è evidentemente alcuna traccia.

Il Reddito di Inclusione alla luce della Risoluzione del Parlamento europeo sul reddito minimo

In Italia, l’urgenza di introdurre meccanismi di contrasto all’avanzamento delle disuguaglianze sociali e alla povertà è supportata anche dai recenti dati Eurostat[7] sul reddito e le condizioni di vita degli individui che denunciano l’aumento in Europa della povertà, della deprivazione materiale e il crescere della disuguaglianza economica, evidenziando come la condizione del nostro Paese è senza dubbio tra le più allarmanti. In riferimento alla disuguaglianza economica, l’Italia oltre a risultare tra i Paesi europei più disuguali (0,331 contro una media europea di 0,307) registra importanti divari territoriali, con un’incidenza maggiore nel Sud e nelle Isole (0,349)[8], dove il rischio di povertà è triplo rispetto al resto del Paese (Svimez 2017). Non basta; in tema di povertà, i dati sugli individui a rischio di povertà o esclusione sociale, nell’Europa a 28, evidenziano una situazione italiana più critica rispetto a quanto rilevato nel 2015: dal 28,7% si è passati nel 2016 al 30,0% (18.136.663 individui). Nello specifico (figura 3), se si analizzano i dati relativi alle tre condizioni (rischio povertà, grave deprivazione materiale, bassa intensità lavorativa) che contribuiscono alla costruzione dell’indicatore Eurostat relativo al rischio di povertà o esclusione sociale[9], si evidenzia soprattutto un aumento di più di 1 punto percentuale rispetto al 2015 tra gli individui che presentano una bassa intensità lavorativa (si passa dall’11,7% del 2015 al 12,8% del 2016), sottolineando come nel nostro Paese questo fenomeno tenda ad aggravarsi anche in una fase - seppur debole - di ripresa economica con un PIL in risalita, ma ancora piuttosto lontano dai livelli pre-crisi.

Figura 3 - Il rischio di povertà o esclusione sociale secondo gli indicatori Eurostat. Anni 2015-2016. Valori %

 08_Tabella 3 RISCHIO POV

Fonte: Dati Eurostat: EU-SILC 2016

 

Inoltre, i dati Eurostat mettono in luce i tratti essenziali delle persone a rischio di povertà o esclusione ed evidenziano che la povertà colpisce soprattutto rispetto:

 

  • al territorio. Quasi la metà della popolazione residente nel Sud e nelle Isole (dal 46,4% del 2015 al 46,9% del 2016) è a rischio povertà;
  • alla tipologia familiare. Anche nel 2016 la povertà si conferma in maniera rilevante tra le famiglie numerose con 5 o più componenti (43,7%), ma il peggioramento più consistente si verifica tra coloro che vivono da soli (si passa dal 31,6% del 2015 al 34,9% del 2016). È interessante, inoltre, osservare come l’incidenza di rischio povertà si polarizzi nelle due tipologie familiari contrapposte, quelle numerose e quelle monocomponente[10];
  • alla nazionalità. La povertà non è neutra neanche rispetto al Paese di origine: particolarmente vulnerabili risultano infatti le famiglie composte da almeno una persona straniera (51,0%), a rischio di indigenza in misura doppia rispetto alle famiglie con soli componenti italiani (27,5%).

 

Le politiche nazionali e le misure strutturali di contrasto alla povertà, nel nostro Paese, hanno sempre assunto un ruolo piuttosto marginale. Lungo e accidentato è stato il processo che ha accompagnato le numerose sperimentazioni dei diversi dispositivi di contrasto all’esclusione sociale adottati dai governi dal 1997 a oggi (tra i più recenti la Social Card e la SIA - Sostegno per l’inclusione attiva) oltre quelli di natura regionale[11], senza per questo aver sedimentato un solido sistema di valutazione che, evidenziando punti di forza e debolezza di ciascuna sperimentazione, avrebbe senz’altro orientato una misura strutturale di contrasto alla povertà. Le pressanti sollecitazioni della Commissione europea ai Paesi membri di dotarsi di uno schema di protezione dalla povertà, anche in riferimento alla nuova fase di programmazione dei fondi strutturali 2014-2020, spingono il nostro Paese - l’Italia, assieme alla Grecia, non ha un vero e proprio sistema di reddito minimo (Ferradini 2017) - a sanare quel vuoto, trasformando di fatto la sperimentazione del SIA, ancor prima di una valutazione delle sue criticità e dei suoi punti di forza e debolezza[12], in un dispositivo strutturale: il reddito di inclusione (ReI). La misura, introdotta con il decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 emanato in attuazione della legge-delega 15 marzo 2017, n. 33 Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali, costituisce il tentativo di superamento dell’estemporaneità delle misure di contrasto alla povertà, finora sperimentate in Italia, a favore di una misura complessiva di lotta all’esclusione sociale. Sullo sfondo c’è senz’altro anche la forte pressione esercitata da “Alleanza contro la Povertà” una rete costituita da numerosi soggetti della società civile che ha elaborato una sua proposta di contrasto alla povertà: il reddito di inclusione sociale o ReIS[13].

Al primo trimestre (Inps 2018) di attuazione del ReI sono 110mila le famiglie che hanno beneficiato del sostegno economico previsto dalla misura, per un totale di 317mila persone coinvolte. Dal punto di vista territoriale, il 72% delle prestazioni ha interessato il Sud d’Italia con particolare riferimento a quelle Regioni che registrano il maggior tasso di disoccupazione (Campania, Calabria e Sicilia). L’importo medio (297 euro) varia sia sulla base del numero dei componenti del nucleo familiare: passando da 177 euro per i single[14] a 429 euro per le famiglie con 6 o più persone, sia su base territoriale, con una forbice che va da 225 euro per i beneficiari della Valle d’Aosta a 328 euro per la Campania. Il 52% delle famiglie beneficiarie ha figli minori, il 20% vede la presenza di disabili.

Nonostante il ReI non si proponga l’introduzione di una qualche forma di reddito minimo, appare legittimo interrogarsi sulla sua distanza o meno dal quadro di riferimento tracciato dalla citata Risoluzione del Parlamento europeo del 24 ottobre 2017, anche alla luce di una inedita centralità che sta acquisendo il concetto di basic income non solo nel mondo politico e accademico, ma anche nella società civile e nelle variegate forme di organizzazione collettiva.

Punto di partenza di questa analisi è l’individuazione della soglia di rischio di povertà sotto la quale viene individuato il numero dei potenziali beneficiari al sostegno al reddito. A tal proposito, come detto precedentemente, la Risoluzione sollecita gli Stati membri a fissare la soglia di rischio di povertà al 60% del reddito mediano nazionale (dopo l’erogazione delle prestazioni sociali) così come calcolata da Eurostat. Si sottolinea che l’ampiezza dei potenziali beneficiari delle misure di contrasto alla povertà dipende dal tipo di indicatore scelto (in Italia sono 4 milioni e 742mila gli individui in povertà assoluta, 8 milioni e 465mila quelli in povertà relativa, 18.136.663 quelli a rischio di povertà o esclusione sociale), cui è collegato il livello di soglia al quale si fa riferimento: più si alza la soglia maggiore è la consistenza del gruppo bersaglio e dei necessari finanziamenti dedicati. Il ReI assume a riferimento la povertà assoluta[15] che l’Istat stima nel 2016 in 1 milione 619 mila famiglie. Un allineamento alle indicazioni europee avrebbe decisamente ampliato la platea di riferimento, facendola coincidere con quei poveri relativi che nel 2016 erano pari a 2 milioni 734mila famiglie. Non solo, nell’ambito dell’universo dei poveri assoluti, il ReI opera un’ulteriore selezione prevedendo oltre a criteri di natura economica[16] anche altri criteri selettivi[17], che restringono considerevolmente la platea dei destinatari a circa 1 milione e 800 mila persone (600 mila famiglie).

In sostanza, si stima che il nuovo dispositivo riguarderà circa il 38% dei poveri assoluti creando inevitabilmente ulteriori disuguaglianze nell’accesso al diritto al reddito tra i poveri stessi. Privilegiando le famiglie con minori, con disabilità, con donne incinte, con disoccupati oltre 55enni e così via, si escludono i single quarantenni e cinquantenni con figli grandi a carico non conviventi. I giovani, soli o in coppia, senza figli sono quelli maggiormente penalizzati dalla misura[18]. Al contrario, la Risoluzione “invita gli Stati membri i cui regimi di reddito minimo attualmente escludono gruppi significativi in situazione di povertà a modificare i loro regimi per garantire una migliore copertura a queste persone (punto 46 lettera c della Risoluzione). In aggiunta, la forte centratura della misura sulla famiglia anziché sull’individuo ha una serie di conseguenze sui diritti all’auto-determinazione e all’emancipazione del singolo individuo dal nucleo familiare, ad esempio consentendo ai giovani di costruirsi un futuro autonomo[19].

Va comunque segnalato che il Governo, per effetto della nuova legge di bilancio 2018[20], ha previsto la revisione dei requisiti di accesso al ReI, allargando la platea dei potenziali beneficiari ai disoccupati di età superiore ai 55 anni che si trovino in stato di disoccupazione sia per licenziamento, dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale, sia in conseguenza della scadenza di un contratto di lavoro. Resta da vedere se tale apertura costituisca un primo passo verso l’adeguamento del ReI in funzione del quadro di riferimento offerto dalla Risoluzione del Parlamento europeo. È inoltre evidente che l’ampliamento della platea di beneficiari richiederà finanziamenti sempre più cospicui anche in funzione di un sostegno monetario adeguato. Lo stesso Parlamento europeo nella Risoluzione ribadisce più volte l’importanza di prevedere finanziamenti pubblici adeguati a favore dei regimi di reddito minimo (prevedendo anche l’utilizzo del 20% della dotazione complessiva del FSE destinato alla lotta contro la povertà e l’esclusione sociale - punto 3 della Risoluzione).

Al contrario, il ReI si discosta dalle indicazioni del Parlamento europeo muovendosi su finanziamenti[21] e importi ai beneficiari piuttosto esigui, che non riescono a soddisfare le esigenze di base delle persone e neanche a garantire l’affrancamento dalla condizione di povertà. A conferma di ciò, anche il Cnel (2017, p. 3), nella Relazione annuale sui servizi sociali e contrasto povertà, ribadisce come “… il beneficio sarà inferiore alle linee di povertà assoluta stimate dall’Istat per il 2016 … che le risorse stanziate per il ReI sono inferiori alla metà di quelle necessarie per portare le famiglie povere al di sopra della soglia di povertà assoluta. In particolare, il dispositivo prevede un massimo del sostegno monetario pari a 485,41 euro (importo mensile di una pensione sociale), incrementato, a seguito della legge di bilancio 2018, a circa 539 euro[22], cui possono aspirare solo quelle famiglie più numerose composte da 6 o più componenti. Non solo, se i componenti del nucleo familiare ricevono altri trattamenti assistenziali, il valore del ReI si riduce del valore dei trattamenti, esclusi quelli non sottoposti alla prova dei mezzi (es.: indennità di accompagnamento). Difficile giustificare l’esiguità del beneficio economico come quel meccanismo di tutela da comportamenti passivi nella ricerca di lavoro da parte del beneficiario; ciò che è evidente è come l’entità monetaria prevista difficilmente potrà proteggere da uno stato di povertà economica ed esclusione sociale o ne consentirà l’uscita, tenuto anche conto della temporaneità del sostegno economico e dell’assenza di altre forme di sostegno al reddito indiretto. In altri termini, il ReI sembra sostanziarsi in un piccolo sussidio temporale che viene concesso al massimo per un periodo di 18 mesi, cui sono da aggiungere altri 12 mesi dopo un periodo di sospensione non inferiore a 6 mesi. Viene esclusa così la possibilità che tale sostegno possa perdurare fino alla durata della condizione di indigenza in cui versa il nucleo familiare. Siamo dunque ben lontani da quanto auspicato nella Risoluzione europea quando sottolinea l’esigenza di prevedere “…. un reddito adeguato durante tutto l’arco della vita per aiutare le persone con livelli di reddito insufficienti a raggiungere un tenore di vita dignitoso” (punto 11 della Risoluzione).

Come tutti i sistemi di protezione sociale attualmente in vigore in Europa, ad eccezione di alcune sperimentazioni avviate recentemente in alcuni Paesi (primi fra tutti Svizzera e Finlandia)[23], anche il Reddito di inclusione risente del principio di condizionalità che si sostanzia nell’obbligo da parte dei percettori del sostegno economico a sottostare a determinati vincoli. In perfetta sintonia con il modello del workfare, ribadito anche dalla Risoluzione europea, il sostegno economico è quindi vincolato a processi di “attivazione” del soggetto beneficiario.

Ricalcando gli stessi meccanismi di condizionalità largamente diffusi in Europa, il ReI vincola i potenziali percettori del sostegno al reddito all’adesione di un progetto personalizzato di “attivazione sociale e lavorativa”, preceduto da una fase di valutazione e analisi. La “presa in carico” del disoccupato e di tutta la sua famiglia è a cura dei servizi sociali del Comune. La non osservanza degli impegni previsti nel progetto personalizzato prevede una serie di sanzioni progressive fino all’annullamento del beneficio. È evidente che il principio della condizionalità sottende una responsabilità individuale e non sociale della condizione di povero (visto come incapace di fronteggiare le dinamiche del mercato del lavoro, nonché di non saper comprendere e rispondere ai propri bisogni e a quelli della famiglia), celando il peso delle scelte di politica economica e del lavoro sull’avanzare del fenomeno povertà e di quel lavoro “cattivo” (precarietà, intermittenza, bassi salari, bassi diritti) ad esso collegato. Non basta, sull’efficacia dell’“attivazione sociale e lavorativa” del soggetto beneficiario e sulla sua adesione al progetto personalizzato pesano le condizioni in cui versano i servizi sociali e quelli del lavoro. Il Cnel stima, infatti, che qualora tutti gli aventi diritto al sostegno al reddito richiedessero un intervento di politica attiva, la popolazione degli utenti crescerebbe addirittura del 64,7%. In questo modo, il sistema dei centri per l’impiego pubblici si troverebbe a gestire un numero rilevante di richiedenti il sostegno al reddito che potrebbe mettere a serio rischio tutta la tenuta della rete dei servizi pubblici, soprattutto in alcune aree del Paese[24].

A conferma di quanto detto, si sottolinea che anche il recente rapporto di valutazione sulla sperimentazione della misura SIA (Leone 2017, pp. 257-258)[25] enuclea, tra i principali rischi che potrebbero compromettere l’efficacia della misura ReI, proprio il mancato consolidamento dell’infrastruttura locale dei servizi sociali e la loro scarsa integrazione con i servizi per il lavoro. Tutto ciò dovuto all’enorme ritardo accumulato nel processo di riforma delle Agenzie per il lavoro e nel rafforzamento delle risorse (in termini di consistenza numerica degli operatori e competenze specifiche) presenti nei Centri per l’impiego pubblici da destinare alle procedure del ReI. Infatti, la “presa in carico” di tipologie di destinatari con fragilità e bisogni complessi risulta decisamente non comune per gli operatori dei Centri per l’impiego e richiede competenze e strumenti differenti rispetto a quelli tradizionalmente previsti dalle politiche attive del lavoro; ad esempio la presenza di stranieri richiede competenze connesse al tema dell’integrazione.

Infine, appare utile sottolineare come il quadro offerto dalla Risoluzione del Parlamento europeo sottolinei l’importanza di procedere verso l’integrazione degli schemi di reddito minimo con le politiche attive del lavoro, garantendo non solo il sostegno finanziario, ma anche l’accesso gratuito a servizi pubblici e sociali di qualità come l’alloggio, l’assistenza sanitaria, l’istruzione e la formazione ecc. In questa visione, il contrasto alla povertà chiama in causa un intervento multi-misura, dove il sostegno economico dello Stato a fronte di un’attivazione del beneficiario si completi con una serie di servizi pubblici che a seguito delle politiche di austerity sono quelli che hanno subito i maggiori tagli finanziari. Ancora una volta, senza una rinnovata centralità delle politiche pubbliche in ambito sociale, accompagnate da politiche di contrasto alle ineguaglianze, dentro e fuori il mercato del lavoro, appare difficile prevedere una significativa riduzione del numero delle persone che versano in uno stato di povertà e l’affermarsi di una società più equa e inclusiva.

Bibliografia

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1

Ricercatrice Inapp, si occupa di analisi di fenomeni sociali oggetto delle politiche comunitarie. Ha maturato esperienza nelle iniziative comunitarie volte all’inclusione sociale dei soggetti svantaggiati ed è stata coordinatrice scientifica del sistema nazionale di accreditamento della formazione professionale. Di recente si è occupata di analisi e studi su Terzo settore ed esclusione sociale, accompagnati da esperienze di cittadinanza attiva.

2

?? Ricercatrice Inapp, ha approfondito a livello nazionale ed europeo i temi inerenti all’istruzione, alla formazione professionale e al Terzo settore attraverso il coordinamento e la realizzazione di indagini quali-quantitative sulle organizzazioni e sulle risorse umane. Negli ultimi anni si è occupata di tematiche inerenti alle politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale.

3

??? Ricercatrice Inapp, ha approfondito i temi relativi alla qualità dei sistemi di formazione professionale partecipando alla costruzione del sistema nazionale di accreditamento delle strutture formative. Si è interessata al tema dell’erogazione dei servizi sociali da parte delle organizzazioni del Terzo settore, curando indagini campionarie rivolte agli enti del non profit. Attualmente segue i temi della povertà e degli strumenti messi in campo per contrastarla.

4

Dati Eurostat - EU-SILC 2016 - Gini coefficient of equivalesid disposable income. Il coefficiente di Gini misura il grado di disuguaglianza della distribuzione del reddito (Istat 2017a).

5

L’indicatore di povertà monetaria definisce chi vive in famiglie con un reddito equivalente non superiore alla soglia di povertà pari al 60% del reddito equivalente mediano calcolato sul totale delle persone residenti.

6

L’articolo è basato sugli interventi dei relatori al ciclo di seminari specialistici sulle politiche europee organizzato dal CINSEDO, Centro interregionale studi e documentazione, il 31 maggio 2016.

7

https://goo.gl/3kE975

8

Risoluzione del Parlamento europeo (2016/2270(INI).

9

Raccomandazione del Consiglio n. 92/441/CEE del 24 giugno 1992 in cui si definiscono i criteri comuni in materia di risorse e prestazioni sufficienti nei sistemi di protezione sociale.

10

Si veda il Rapporto Istat (2017a)- Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie anno 2016 - sui risultati dell’indagine campionaria “Reddito e condizioni di vita” EU - SILC (Statistics on income and living conditions) 2016 pubblicato il 6 dicembre 2017.

11

Secondo l’indice di Gini, l’Italia occupa il ventesimo posto nella UE a 28, davanti ad altri Paesi del Mediterraneo quali Portogallo (0,339), Grecia (0,343) e Spagna (0,345). Si veda il Rapporto Istat - Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie anno 2016 (2017a).

12

In particolare, l’Eurostat misura la povertà o l’esclusione sociale sulla base dei seguenti indicatori: 1) individui che vivono in famiglie a rischio povertà con un reddito disponibile equivalente inferiore al 60% del reddito mediano nazionale; 2) individui che vivono in famiglie in condizioni di grave deprivazione materiale: l’incapacità per l’individuo di sostenere spese impreviste, rate di mutui, riscaldamento, apparecchio televisivo ecc.; 3) individui che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro i cui componenti con un’età compresa tra i 18 e i 59 anni (esclusi pensionati e studenti tra i 18 e i 24 anni) hanno lavorato per meno del 20% annuo del proprio potenziale. Secondo l’Eurostat nel 2016 la soglia di povertà (calcolata sui redditi 2015) è pari a 9.748 euro annui.

13

Le famiglie monocomponente sono progressivamente aumentate in Italia secondo gli ultimi dati Istat: dal 20,5% del biennio 1995-1996, al 31,6% negli anni 2015-2016. Cfr.: Istat (2017c), Annuario statistico italiano dicembre 2017.

14

Tra le sperimentazioni regionali più recenti si ricordano: il Reddito Minimo di Inserimento nella Provincia Autonoma di Bolzano (decreto del Presidente della giunta provinciale 11 agosto 2000, n. 301), i Cantieri di Servizi in Sicilia (legge regionale 19 maggio 2005, n. 5), il Reddito Minimo di Garanzia nella Provincia Autonoma di Trento (deliberazione della Giunta provinciale 11 settembre 2009, n. 2216), il Programma per un Reddito Minimo di Inserimento in Basilicata (legge regionale 18 agosto 2014, n. 26), il Reddito minimo garantito in Valle d’Aosta (legge regionale 10 novembre 2015, n. 18), la Misura attiva di sostegno al reddito in Friuli Venezia Giulia (legge regionale 10 luglio 2015, n. 15), il Reddito minimo di cittadinanza in Molise (legge regionale 4 maggio 2015, n. 9) e il Reddito di Dignità in Puglia (legge regionale 14 marzo 2016, n. 3). Per un approfondimento si veda: Tagliatesta 2016.

15

Il rapporto di valutazione relativo alla sperimentazione del SIA è stato pubblicato solo recentemente quando il ReI era già stato introdotto. Per un approfondimento si veda: Leone L. (a cura di) 2017. Nelle conclusioni tra i fattori di contesto ritenuti essenziali per il buon funzionamento della misura sono riportati: il consolidamento dell’infrastruttura locale dei servizi sociali attraverso un rafforzamento delle risorse umane e delle competenze tecnico professionali deputate a gestire i processi attuativi; il miglioramento della governance attraverso pratiche di integrazione tra politiche settoriali, sinergie tra la Pubblica Amministrazione, il Terzo settore e il profit, coerenza tra azioni promosse a diversi livelli di governo (Stato, Regioni, Comuni, Ambiti Territoriali Sociali).

16

“Alleanza contro la Povertà” è un soggetto costituitosi nel 2013 e composto da 35 organizzazioni provenienti anche dal mondo cattolico, dai sindacati CGIL, CISL, UIL, rappresentanze dei Comuni e delle Regioni, enti di rappresentanza del Terzo settore. Una presentazione articolata della proposta si può leggere nella pubblicazione di Gori et al. 2016.

17

Dal primo gennaio 2018, il ReI sostituisce l’assegno di disoccupazione ASDI, misura di sostegno al reddito per i disoccupati ultracinquantenni.

18

L’Istat (2017b) calcola la soglia di povertà in base a due distinte misure: povertà assoluta e povertà relativa. L’incidenza della povertà assoluta è calcolata sulla base di una soglia corrispondente alla spesa mensile minima necessaria per acquisire un paniere di beni e servizi che, nel contesto italiano e per una famiglia con determinate caratteristiche, è considerato essenziale a uno standard di vita minimamente accettabile. Sono classificate come assolutamente povere le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia (che si differenzia per dimensione e composizione per età della famiglia, per ripartizione geografica e per tipo di Comune di residenza). La stima dell’incidenza della povertà relativa (percentuale di famiglie e persone povere) è calcolata sulla base di una soglia convenzionale (linea di povertà), che individua il valore di spesa media per consumi al di sotto del quale una famiglia viene definita povera in termini relativi. La soglia di povertà per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media mensile pro-capite nel Paese, e nel 2016 è risultata di 1.061,50 euro. Le famiglie composte da due persone che hanno una spesa media mensile pari o inferiore a tale valore sono classificate come povere.

19

Il nucleo familiare deve avere: a) un valore ISEE in corso di validità non superiore a 6 mila euro; b) un valore ISRE (indicatore reddituale ISEE diviso la scala di equivalenza) non superiore a 3 mila euro; c) un valore patrimoniale immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore a 20 mila euro; d) un valore patrimoniale mobiliare (depositi, conto correnti) non superiore a 10 mila euro (ridotto a 8 mila per una coppia e a 6 mila per una persona sola). Inoltre, nessun componente del nucleo familiare deve possedere autoveicoli e/o motoveicoli immatricolati la prima volta nei 24 mesi antecedenti la richiesta (sono esclusi gli autoveicoli/ motoveicoli per cui è prevista una agevolazione fiscale in favore delle persone con disabilità), né possedere navi e imbarcazioni da diporto.

20

Il nucleo familiare deve possedere almeno una delle seguenti condizioni: a) presenza di figli minorenni, b) presenza di una persona con disabilità e di almeno un suo genitore o un suo tutore. Oppure in assenza di figli minori: a) presenza di una donna in stato di gravidanza accertata, b) presenza di almeno un disoccupato che abbia compiuto 55 anni che si trovi in stato di disoccupazione con cessazione da almeno 3 mesi e che non percepisca ammortizzatori sociali (NASpI o altri ammortizzatori sociali di sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria). Infine il componente che richiede il beneficio deve essere residente in Italia da almeno 2 anni e può essere: a) cittadino italiano o comunitario; b) familiare di cittadini italiani o comunitari titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente; c) cittadino straniero in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo; d) titolare di protezione internazionale (asilo politico, protezione sussidiaria).

21

Intervista a Chiara Saraceno https://ilmanifesto.it/saraceno-misura-importante-ma-grave-la-graduatoria-tra-poveri/.

22

Per un approfondimento, si veda: Basic Income Network - BIN ITALIA (a cura di) 2016.

23

Legge 27 dicembre 2017, n. 205 Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020. Si veda il comma 191, lettera a) dell’art. 1.

24

Ibidem – l’art. 1, comma 197 prevede per il ReI: “…la dotazione del Fondo Povertà è determinata in 2.059 milioni di euro per l’anno 2018, di cui 15 milioni di euro accantonati ai sensi dell’articolo 18, comma 3, in 2.545 milioni di euro per l’anno 2019 e in 2.745 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2020. Ai fini dell’erogazione del beneficio economico del ReI di cui all’articolo 4, i limiti di spesa sono determinati in 1.747 milioni di euro per l’anno 2018, fatto salvo l’eventuale disaccantonamento delle somme di cui all’articolo 18, comma 3, in 2.198 milioni di euro per l’anno 2019, in 2.158 milioni di euro per l’anno 2020 e in 2.130 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2021…”.

25

Nella tabella che segue si riportano gli importi massimi mensili in euro previsti sulla base del numero di persone che compongono il nucleo familiare richiedente. Si veda il link: www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/poverta-ed-esclusione-sociale/focus-on/Reddito-di-Inclusione-ReI/Pagine/default.aspx

* Beneficio modificato per effetto della legge di bilancio 2018

26

In Svizzera, il reddito di base incondizionato è stato sottoposto a referendum nel giugno del 2016 ed è stato bocciato dal 78% dei cittadini elvetici. A distanza di più di un anno il Consiglio comunale di Zurigo ha approvato la sperimentazione di un progetto pilota di reddito incondizionato proponendo una sorta di salario minimo corrispondente a 2.200 euro per ogni persona adulta e per i minori più o meno 550 euro. Il Consiglio comunale ha due anni per esaminare la proposta e valutare le condizioni di fattibilità per la sperimentazione. Per un approfondimento si vedano: Del Buono M. 2016, Basic Income Network Italia 2017.Un altro caso interessante è la Finlandia che recentemente ha avviato una sperimentazione di due anni prevedendo un reddito mensile, non soggetto a condizioni, di 560 euro a 2.000 disoccupati scelti a caso con età compresa tra i 25 e i 58 anni, persone che continueranno a ricevere l’assegno anche se trovano lavoro. L’obiettivo dell’azione, dunque, non è solo combattere la povertà, ma osservare il comportamento dei cittadini quando, azzerando la loro insicurezza economica, sono più liberi di scegliere anche tra un lavoro pagato meno ma più gratificante, rispetto a un impiego più sicuro ma meno stimolante. Si veda: Ciccarelli R. 2017. Le altre esperienze che vanno tenute sotto controllo sono quella della Spagna, che ha avviato una campagna di raccolta firme (oltre 185mila) per una proposta di legge di iniziativa popolare per un reddito di base; si dibatte inoltre di diritto al reddito in Scozia e si stanno avviando progetti pilota in Olanda e in Francia. Si veda Santini L., Gobetti S. 2016.

27

Cnel 2017, p. 9. In Campania, ad esempio, il numero medio di utenti aggiuntivi per operatore dei CpI è pari a 97,0, per un incremento della platea potenziale di utenti pari a +280,3%. Aumenti rilevanti si evidenziano anche in Lombardia (numero medio di utenti aggiuntivi per dipendente pari a 45,2), in Sicilia (34,6), Puglia (34,1), Molise (26,5), Abruzzo (26,5), Calabria (25,5). L’unica Regione per la quale non si ravvisano incrementi è l’Umbria.

28

Si veda anche il Rapporto di monitoraggio dell’ANCI in collaborazione con Cittalia (2017).