Introduzione
Lo sviluppo di un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione???, accompagnata da una crescita sostenibile e al contempo inclusiva a garanzia di un “alto tasso di occupazione che favorisca la coesione economica???, sociale e territoriale” sono le priorità proposte dall’Unione europea nell’ambito del quadro dell’economia di mercato sociale europea per il XXI secolo (Commissione europea 2010). Si tratta, a ben vedere, di obiettivi collegati tra loro dal momento che elevati livelli di istruzione e un’adeguata formazione facilitano l’occupabilità, così come un incremento del tasso di occupazione partecipa a ridurre significativamente i livelli di povertà e di esclusione. Un uso efficiente delle risorse associato ad una crescente capacità di ricerca e sviluppo e di innovazione incide, inoltre, sui livelli di competitività di sistema e delle imprese in particolare stimolando la creazione di nuovi posti di lavoro.
Risulta evidente pertanto la relazione, sempre più stringente, tra il sistema economico-produttivo-sociale e il sistema formativo che assume un ruolo trasversale nella creazione e nella capitalizzazione di nuove competenze acquisite nella fase formativa iniziale e rinnovate durante tutto l’arco della vita.
La società attuale si trova a dover affrontare la grande sfida del cambiamento che deve declinare in modo organico e dinamico l’evoluzione sociale, la conoscenza, le nuove organizzazioni del lavoro e la creazione di ricchezza (Ghisla, Bonoli, Loi 2008). Il riposizionamento degli assetti strutturali socio-economici e produttivi ha indotto la letteratura economica ad individuare le nuove determinanti e i percorsi causa-effetto tra i fattori della produzione, riscoprendo la nuova chiave interpretativa del concetto di Economia della formazione (Immel 1994; Zacher 2005).
Si tratta di un percorso che affonda le sue radici nei principi sviluppati dall’economia classica del XVIII secolo e anticipati da William Petty (1686) che per primo individuò nel lavoro la fonte del valore, attraverso una stima contabile del valore monetario dell’uomo in base al salario e al suo tempo medio di conseguimento. Ma solo successivamente, l’economista classico Adam Smith introdusse il concetto di capitale umano nell’opera La ricchezza delle Nazioni (1776), proponendo l’educazione in una visione economica e riconoscendo alla formazione, ovvero al grado di conoscenza[1] del lavoratore una funzione determinante nella definizione del valore di un prodotto[2].
La formazione diventa, così, un fattore della produzione a tutti gli effetti e viene interpretata come investimento e, in quanto tale, correlato alla produttività e al salario, inteso come remunerazione di una specifica qualifica (von Thünen 1826). Le capacità umane diventano parte integrante del capitale economico e la formazione che qualifica il capitale umano assurge a capitale essa stessa essendo dotata, come qualsiasi altra merce, di un valore intrinseco espresso dai fattori necessari a produrla[3].
Il dibattito e l’interesse sui temi della formazione si riaccendono con i neoclassici, negli anni Cinquanta del secolo scorso, nell’ambito delle teorie della crescita che riconoscono l’esistenza di un fattore produttivo residuale individuabile nell’innovazione tecnologica e nel capitale umano, inteso quale coacervo di abilità, competenze e conoscenza. Ed è proprio a tale fattore residuale che si attribuisce l’incremento della produzione nazionale che registra livelli superiori, rispetto alla quantità dei fattori produttivi tradizionali utilizzati.
In questo contesto la scuola degli economisti di Chicago (Mincer 1958; Schultz 1961; Becker 1964) dà forma ad una più solida struttura teorica relativa al rapporto tra formazione e sistema produttivo e tra formazione e crescita economica: l’Economia della formazione. Essa si attesta a pieno titolo all’interno della teoria economica neoclassica (Schultz 1961) e concettualizza in maniera organica la teoria del capitale umano, riproponendo l’istruzione come una forma di investimento in grado di aumentare la produttività e di produrre redditi futuri e quindi di crescita[4].
Nel tempo si sono susseguiti gli approcci all’Economia della formazione e le interpretazioni sul capitale umano, accompagnati da un crescendo di iniziative formative e dalla ricerca di strategie adeguate, finalizzate ad individuare un equilibrio tra offerta formativa e domanda di specifiche qualifiche da parte dalle imprese. La ricerca economica si è soffermata sull’esigenza di individuare i criteri scientifici in grado di regolare la relazione tra sistema formativo, sistema occupazionale e sistema produttivo. Ma è proprio nell’ultimo decennio che il tema ha trovato un rinnovato vigore, stimolato dalle criticità strutturali acuite dalla crisi finanziaria: la disoccupazione, le disparità nel mercato del lavoro, la scarsità di risorse a disposizione delle imprese in particolare e dei sistemi economici in generale.
La condivisione della fase di progettazione e pianificazione della formazione è divenuta un elemento trasversale e rilevante tra le Parti sociali e, d’altro canto, le aziende impegnate in una fase di adeguamento dei processi produttivi hanno rivelato un’esigenza crescente nei confronti di una formazione di qualità dei propri dipendenti. In tale contesto ricoprono una particolare importanza i Fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione continua[5], gli strumenti formativi istituiti nel nostro Paese nel 2000 come azione concertativa tra le Parti sociali[6]. I Fondi hanno ricoperto via via un ruolo sempre più centrale non solo quali elementi regolatori della domanda e dell’offerta di formazione, ma anche quali strumenti potenziati di un’azione anticiclica messa in campo per contrastare gli effetti della crisi finanziaria[7] e della disoccupazione strutturale in particolare. Essi puntano alla riqualificazione professionale degli occupati, ma anche all’inserimento lavorativo dei giovani e, quindi, sulla crescita del Paese.
Ed è proprio in questo scenario che intende inserirsi la presente ricerca, volta a studiare la relazione tra caratteristiche delle imprese e ricorso ai Fondi paritetici interprofessionali per finanziare la formazione dei lavoratori. La necessità di indagare sulla propensione a far ricorso ai Fondi interprofessionali discende da una serie di evidenze empiriche e aspetti teorici presenti in letteratura.
Il rallentamento nei Paesi meno disposti ad investire nella formazione suggerisce che anche l’Italia possa aver subito un processo di rallentamento dell’economia, dovuto anche alla minore propensione ad investire nella formazione dei dipendenti (Inapp 2016). In tal senso, si evidenzia che la formazione è fortemente correlata agli investimenti in capitale fisico (Ferri, Guarascio, Ricci 2018) e tra gli strumenti più importanti dediti alla formazione, si ritiene che i Fondi interprofessionali meritino un’analisi a parte proprio per il ruolo propulsore e di raccordo che rivestono nell’ambito della formazione nell’impresa.
La ricerca tiene, altresì, conto del XVI Rapporto sulla Formazione continua in cui è presente un’analisi approfondita che trae informazioni non solo dal monitoraggio, ma anche dai singoli Piani formativi, evidenziando dati relativi alle strutture e tipologie d’impresa che ne fanno uso, le finalità, i tempi e la struttura dei percorsi formativi, il numero di imprese beneficiarie, le caratteristiche dei dipendenti interessati dagli interventi, la ripartizione territoriale degli interventi (Inapp 2016).
Pertanto, più nello specifico, il lavoro analizza come le caratteristiche delle imprese, della forza lavoro e dell’assetto manageriale e proprietario siano correlate non solo alla propensione a realizzare percorsi di formazione per i lavoratori, ma anche alla scelta di ricorrere ai Fondi interprofessionali, rispetto ad alcuni aspetti della struttura organizzativa stessa. Si propone una lettura empirica delle dimensioni aziendali che si snodano all’interno di un contesto produttivo, individuandone eventuali correlazioni e interdipendenze, rispetto al finanziamento di percorsi attraverso i Fondi interprofessionali. L’analisi empirica si basa sui dati della Rilevazione su Imprese e Lavoro (RIL) del 2015, condotta da Inapp.
I risultati mostrano che i manager laureati sono più propensi ad investire in formazione, rispetto ai manager con un inferiore livello d’istruzione e scelgono come canale di finanziamento i Fondi interprofessionali.
L’impresa a conduzione familiare è negativamente associata alla propensione a realizzare percorsi di formazione, mentre la gestione manageriale ben si associa all’uso dei Fondi come strumento. La quota di personale laureato sembra essere correlata alla scelta di investire in formazione così come all’uso dei fondi interprofessionali. I sindacati aumentano la probabilità di far ricorso ai Fondi interprofessionali.
Inoltre, di particolare interesse si rivela l’esistenza di una correlazione tra il ricorso ai Fondi interprofessionali per la formazione continua e l’attuazione di misure di welfare, nonché l’applicazione di contrattazione integrativa in azienda. La scelta di mettere in relazione tali aspetti di welfare con i Fondi interprofessionali discende dagli esiti di alcuni casi studio sui Fondi interprofessionali analizzati nell’ultimo Rapporto Formazione continua (Inapp 2016), secondo cui una serie di figure manageriali sarebbero state coinvolte sui temi relativi a team bulding, responsabilità sociale di impresa, politiche di genere. Questa ha suggerito un ampliamento della presente ricerca, approfondendo la relazione tra welfare, management e Fondi interprofessionali.
Il ruolo dei Fondi interprofessionali per le politiche del lavoro
L’analisi delle strategie di formazione non può prescindere dal contesto socio economico nel quale esse si sono sviluppate. È importante, infatti, soffermarsi sulla crisi strutturale che ha coinvolto i Paesi di vecchia industrializzazione, come il nostro, e ha interessato le scelte imprenditoriali anche sul fronte del reclutamento e gestione delle risorse umane (Neglia 2012).
Il nodo della scarsa crescita ha caratterizzato negativamente l’andamento economico del nostro Paese negli ultimi venti anni. Le cause sono state attribuite ad una pluralità di elementi, tra i quali certamente l’inefficacia e la scarsa qualità del sistema formativo e la conseguente carenza di capitale umano qualificato. Numerosa la letteratura economica che ha messo in evidenza gli effetti sulla produttività relativi alla selezione e alla qualificazione del capitale umano, inteso anche come elemento determinante sui fattori distorsivi del mercato del lavoro (Ferrante 2016).
Al fine di invertire tale trend negativo, il Governo e le Parti sociali sono intervenuti sul raccordo tra politiche passive e attive del lavoro[8] e hanno esteso il ricorso alla formazione “allargando la platea dei destinatari agli incentivi, tradizionalmente destinati ai lavoratori occupati, nonché integrando la formazione con meccanismi di sostegno al reddito”. Questo percorso è proseguito con il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive avviato dal cosiddetto Jobs Act[9], tra i cui decreti attuativi ha previsto la costituzione di una rete nazionale dei servizi (pubblici e privati) per le politiche del lavoro[10] che include i Fondi interprofessionali[11], valorizzati nel loro ruolo di “prossimità” alle esigenze aziendali in tema di sviluppo di competenze. I Fondi, insieme con la Rete, mirano a soddisfare i fabbisogni di competenze dei datori di lavoro e garantire sostegno nell’inserimento o nel reinserimento al lavoro per i lavoratori creando un “sistema informativo della formazione professionale, ove siano registrati i percorsi formativi svolti dai soggetti residenti in Italia, finanziati in tutto o in parte con risorse pubbliche”[12]. Ai compiti di sistematizzazione delle politiche del lavoro i Fondi affiancano anche un ruolo di accompagnamento nell’applicazione degli strumenti di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro[13]. Infatti, nel caso di lavoratori dipendenti per i quali sia stata avviata una procedura di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa i Fondi, allo scopo di mantenere e sviluppare le competenze del lavoratore, partecipano alla stipula del patto di servizio personalizzato. Essi avviano il lavoratore alla partecipazione a iniziative di carattere formativo o di riqualificazione o altra iniziativa di politica attiva o di attivazione.
I dati
L’analisi empirica si basa sui dati della Rilevazione longitudinale su Imprese e Lavoro (RIL) 2015, rilevazione di tipo campionario, condotta da Inapp con cadenza quadriennale, su un campione rappresentativo di circa 30.000 società di capitali e società di persone che operano nel settore privato non agricolo. Nell’indagine è presente una quota panel pari a circa la metà del campione. L’indagine RIL studia le imprese sotto il profilo dell’utilizzo del lavoro, le caratteristiche della domanda di lavoro, il profilo manageriale, le caratteristiche degli imprenditori a seguito degli ultimi interventi normativi e il rapporto delle imprese con gli agenti di intermediazione di lavoro.
Inoltre, tale indagine fornisce informazioni molto dettagliate circa l’assetto delle relazioni industriali, l’organizzazione dei mercati interni del lavoro e le performance produttive delle imprese. In particolar modo, riguardo al tema della formazione, è possibile ricavare numerose informazioni, quali la tipologia di finanziamento piuttosto che il numero di dipendenti che ne fruiscono. Per quanto riguarda la selezione del campione, ai fini della nostra analisi, viene limitata alle realtà produttive con almeno 5 dipendenti e ciò per garantire un livello minimo di organizzazione del mercato interno del lavoro. Una volta operata tale selezione, il campione RIL si riduce a circa 12.000 società di persone e di capitali.
Le statistiche descrittive
La tabella 1 presenta le statistiche descrittive (pesate) relative alla distribuzione della formazione e alla tipologia di finanziamento cui le imprese fanno ricorso a seconda della dimensione e della macroarea. Mediamente a livello nazionale il 48% delle imprese con più di 5 dipendenti investono in formazione, la quota dei formati è del 33% sul totale dei dipendenti. Le imprese che investono in formazione facendo ricorso ai Fondi interprofessionali rappresentano il 6% del campione, la quota restante utilizza altre tipologie di fondi (private, statali, regionali, FSE ecc.).
Dagli esiti dell’indagine risulta evidente come la dimensione formativa all’interno dell’azienda necessiti di un percorso di diffusione e consolidamento, potendo individuare nella condivisione progettuale proposta dai Fondi interprofessionali un’occasione di radicamento, riconducibile alla specificità e alla “prossimità” che i Fondi esprimono. Certamente la dimensione di impresa incide positivamente sulla diffusione delle pratiche formative e sulla quota dei dipendenti in esse coinvolti, ma la differenza sostanziale, sotto l’aspetto dimensionale, si evince nella adesione ai Fondi interprofessionali che sembra essere quasi ad esclusivo appannaggio delle aziende che occupano oltre i 50 dipendenti. Quest’ultimo aspetto è indubbiamente riconducibile all’influenza delle rappresentanze sindacali nelle aziende di maggiori dimensioni, nelle quali il ruolo della bilateralità agevola la diffusione delle pratiche integrative e offre la possibilità di definire percorsi formativi “su misura”. La stessa tendenza appena descritta, vale considerando la distribuzione territoriale delle imprese campionarie che prevedibilmente vede il prevalere delle azioni formative e dell’utilizzo dei Fondi interprofessionali nelle aree del Nord. Spostando l’attenzione sul livello settoriale, il risultato della presente indagine è in linea con quanto emerge anche da altre ricerche, in particolare l’ultimo Rapporto sulla Formazione continua (Inapp 2016) per quanto riguarda il dato relativo ai settori che fanno maggiormente ricorso ai Fondi interprofessionali per finanziare la formazione. Sono in genere i Fondi con un maggior numero di lavoratori ad aderire, proprio perché sono in grado di raccogliere somme consistenti ed è più probabile che vengano finanziati dei progetti formativi. In questo senso, il manifatturiero riveste un ruolo rilevante. Ne consegue che in settori mediamente a minore intensità di dipendenti e con un numero maggiore di contratti stagionali, non si intercetti la convenienza di aderire ad un Fondo interprofessionale non ricevendo un significativo “ritorno”, rispetto alle risorse destinate al Fondo stesso (se non costituendo un gruppo con altre imprese con specifiche esigenze formative).
Le variabili di interesse per la nostra analisi sono di seguito descritte. Innanzitutto, tra gli outcomes, la variabile “dummy formazione” individua le imprese che hanno effettuato percorsi di formazione per i dipendenti. In secondo luogo la variabile “quota di formati” è indicatrice della quota dei formati sul totale dei dipendenti. Successivamente si analizza l’incidenza dei Fondi interprofessionali come canale per finanziare la formazione.
Come si può osservare nella tabella 1, al crescere della dimensione dell’impresa, crescono anche le imprese che realizzano percorsi di formazione, così come la quota dei formati che parte dal 30,7% e arriva al 50,7% per le imprese che hanno un numero di dipendenti al di sopra di 250. L’accesso ai Fondi interprofessionali per il finanziamento della formazione, sembra riguardare in maggior misura le imprese che hanno un numero più elevato di 250 dipendenti. Fa ricorso a Fondi interprofessionali il 10% delle imprese da 5 a 50 dipendenti, il 22,4% delle imprese che hanno da 50 a 250 dipendenti e il 49,8% delle imprese con un numero superiore a 250 dipendenti.
Tabella 1: distribuzione della formazione per macroarea, dimensione e settore (%)
Fonte: Elaborazioni Inapp su dati RIL 2015. Applicazione dei pesi campionari. Valori percentuali
Quando si osserva invece la distribuzione della formazione e della tipologia di finanziamento cui le imprese fanno ricorso rispetto alla macroarea, si nota come nel Sud e nelle Isole la presenza di formazione dei lavoratori, così come la quota dei formati sul totale dei dipendenti sia più bassa rispetto a tutte le altre macroaree prese in considerazione. Al Sud e al Centro le imprese in cui si realizzano corsi di formazione sono meno numerose: il 37,2%, diversamente dal Nord-Ovest (54,5%), dal Nord-Est (53%) e dal Centro (43,1%). Anche la quota dei formati sul totale dei dipendenti è abbastanza bassa, il 27,3% del Sud rispetto al 38,3% del Nord-Ovest. I Fondi interprofessionali sono una fonte meno frequente per il Sud, solo il 6,9% fa ricorso a questi ultimi, rispetto al 7,3% delle imprese situate nel Centro Italia, al 9,2% del Nord-Est e all’11% del Nord-Ovest.
Le imprese che effettuano maggiormente formazione fanno capo al settore relativo alla produzione e distribuzione di energia, gas e acqua (64,6%); sono le imprese dello stesso settore che contano una quota più elevata di dipendenti formati (44,9%). Anche nel settore dell’edilizia la quota dei formati risulta molto elevata e ammonta al 58,4%. La percentuale di imprese più elevata che utilizza Fondi interprofessionali, fa capo al settore di produzione di energia, gas e acqua, ovvero il 14,8%.
Analisi econometrica
Il lavoro, come più volte evidenziato, indaga su quanto l’assetto manageriale e proprietario e le sue caratteristiche, nonché la composizione per età della forza lavoro e le relazioni industriali incidano sulla decisione di far ricorso ai Fondi interprofessionali.
L’applicazione di modelli di regressione lineare e non lineare deriva dalla necessità di indagare sull’intensità nonché sulla probabilità di far uso di Fondi interprofessionali.
Dal punto di vista della intensità della formazione sono molti gli studi che indagano avendo a disposizione fonti employer-employee, in questo caso – non avendo a disposizione questo tipo di dato- ci si concentrerà sui fenomeni inerenti al mondo delle imprese e degli imprenditori, ricavando indirettamente misure relative ai lavoratori utilizzando la quota di addetti formati. Pertanto sulla misura di intensità di formazione si effettua una regressione lineare OLS in cui la funzione risultante minimizza la somma dei quadrati delle distanze tra i dati osservati e quelli della curva della funzione. Si utilizza invece il modello Probit per stimare la probabilità di organizzare iniziative di formazione e di far uso dei Fondi interprofessionali grazie maximum likelihood ratio (Frazis, Gittleman, Joice 2000). Formalmente si tratta di stimare una equazione di regressione del tipo:
[1] Y =?+???Mi?+???Li+???Fi +?i
dove la variabile dipendente Yi può indicare alternativamente l’investimento in formazione per i dipendenti, la quota dei dipendenti formati e l’investimento in formazione con Fondi interprofessionali nell’impresa i. Per quanto riguarda le variabili esplicative, Mi è un vettore che indica il profilo manageriale e di governance delle imprese, Li rappresenta la composizione della forza lavoro occupata ed Fi indica le caratteristiche produttive delle imprese nonché le relazioni industriali. Il termine di errore ?i è un disturbo idiosincratico con media nulla e varianza finta. L’equazione [1] viene stimata attraverso metodi di regressione lineari (OLS) e non lineari (Probit). In particolare per l’incidenza della formazione e il ricorso a Fondi interprofessionali si presenteranno gli effetti medi marginali di tipo Probit, per la quota dei formati è stato utilizzato il metodo OLS.
Come si può osservare dalla tabella 2, i manager laureati investono in formazione (+2,2%), infatti la quota dei formati mostra coefficiente positivo (+2,3%). Per finanziare la formazione i manager con istruzione terziaria fanno ricorso ai Fondi interprofessionali (+2,3%). Il manager diplomato invece non mostra alcuna correlazione significativa con le due misure della formazione, tuttavia sembra far ricorso ai Fondi interprofessionali (+2%).
Tabella 2: stima dei coefficienti (OLS) e degli effetti medi marginali (Probit)
Fonte: Inapp. Elaborazioni su dati RIL 2015
Per ciò che riguarda l’impresa familiare, in questo caso si evince quel che in letteratura è ben consolidato: l’impresa a conduzione familiare è associata negativamente alla propensione a realizzare percorsi di formazione (Ferri, Guarascio, Ricci 2018), ciò lo testimoniano ambo le misure prese in considerazione (-2,7% e -1,9%), d’altra parte –per quanto concerne invece il ricorso ai Fondi interprofessionali- è la gestione manageriale a favorire la probabilità che si faccia ricorso a questi ultimi (2,8%), la gestione familiare non mostra alcun coefficiente significativo.
È la quota di personale laureato che sembra incidere in maniera significativa sulle misure relative alla formazione intese come dummy (+17,4%) e come quota di formati (+11,6%); tale misura risulta associata con un coefficiente simile e significativo ai Fondi interprofessionali (7,8%).
La correlazione positiva che si rileva sia rispetto al manager/proprietario laureato, sia rispetto alla quota di laureati presenti nell’impresa, potrebbe anche significare che esiste una relazione positiva laddove non solo il personale dipendente possiede un titolo di studio elevato, quanto piuttosto grazie alla combinazione tra elevato titolo di studio del manager e quota di personale ad alta qualificazione.
Sulla quota di giovani emerge una correlazione positiva per le due misure relative alla formazione: 40% e 37% per ciò che riguarda rispettivamente l’investimento in formazione e la quota di formati. Diversamente dalle altre variabili, quest’ultima è correlata negativamente con il ricorso ai Fondi interprofessionali (-41%). Più giovane è la struttura per età dei dipendenti, meno probabile è che si faccia ricorso ai Fondi interprofessionali.
I servizi sociali per i lavoratori, dunque il welfare aziendale, è correlato – con coefficienti rispettivamente +14% e +9,4% – con la dummy della formazione e la quota di formati, nonché con la probabilità che si faccia ricorso ai Fondi interprofessionali (4%). Per ciò che concerne la contrattazione di II livello, anche in questo caso per le due misure relative alla formazione, i coefficienti risultano positivi e significativi, sia per i percorsi formativi (12,3%), sia per la quota di formati (6,5%). Anche la contrattazione di II livello ha una relazione positiva e significativa (+6,9%) con la scelta di far ricorso ai Fondi interprofessionali per investire sulla formazione. Probabilmente le imprese che investono in servizi sociali per i lavoratori, sono le stesse disposte ad investire per la formazione e che per finanziarla fanno ricorso ai Fondi interprofessionali.
La contrattazione di secondo livello, intesa come flessibilità oraria, salario accessorio ecc. è associata al maggiore investimento di percorsi formativi (12,3%) e ad una più elevata quota di formati (6,5%), nonché ad una probabilità del 6,9% in più che per finanziare la formazione si faccia uso dei Fondi interprofessionali.
Da quanto sin qui emerso, è evidente come le imprese del campione abbiano optato a favore di una soluzione coordinata tra offerta di servizi di welfare aziendale e investimenti in formazione. Questo andamento testimonia un trend controcorrente, rispetto ad una parte della letteratura che individua un trade off tra welfare e iniziative di formazione. Nel nostro caso la strategia coordinata tra le due variabili, associata alla presenza della contrattazione di secondo livello, esprime un atteggiamento aziendale a favore di tutte le componenti integrative in grado di apportare un sostegno significativo congiunto alla composita dimensione aziendale, a sostegno della capacità competitiva, innovativa e di qualità delle attività produttive. Le imprese, in tal modo, intervengono sinergicamente sugli obiettivi di riqualificazione professionale a supporto dei processi di riconversione produttiva e migliorano il benessere aziendale, la fidelizzazione dei dipendenti e l’occupabilità, beneficiando nel contempo dei vantaggi derivanti dal favor fiscale[14]. Inoltre, vale la pena sottolineare come il contributo aziendale versato a favore dei Fondi Interprofessionale inneschi un circolo virtuoso a favore della formazione, della qualificazione e della specializzazione del personale dipendente, rispetto al versamento dello 0,30% a favore dei Fondi che consente alle aziende di recuperare parzialmente i contributi previdenziali versati per legge e destinarli alla formazione dei propri dipendenti. Altro aspetto cruciale e determinante relativo ai Fondi interprofessionali è certamente il loro ruolo sussidiario alla bilateralità, in un contesto di partenariato e partecipazione. La crisi ha messo in discussione i modelli consueti di gestione delle risorse umane ed ha rimesso al centro dell’attenzione la valorizzazione e il potenziamento delle competenze, facendo della leva formativa uno dei capisaldi del rilancio aziendale ed economico in genere. La difficile congiuntura ha visto ridursi le risorse a disposizione ed ha chiamato in causa l’esigenza di interventi pubblici più mirati e complessi, frutto di una maggiore integrazione tra le Parti sociali, le imprese e i lavoratori. I sindacati hanno assunto, dunque, un ruolo determinante nel circuito formativo. In questa fase di rilancio e di sostegno all’adesione ai Fondi, la presenza dei sindacati in azienda, infatti, incrementa dell’1,9% la probabilità che si attivino iniziative formative e decreta l’1,8% in più di probabilità che si faccia ricorso all’utilizzo dei Fondi interprofessionali.
È evidente come il ruolo dei Fondi interprofessionali, nel tempo, sia stato rimodulato in una chiave di lettura plurale, nel rispetto dei principi ispiratori delle nuove relazioni industriali. I temi della formazione rientrano, inoltre, a pieno titolo negli obiettivi di Governo e, in particolare, nell’ambito del Piano nazionale Industria 4.0 che ha individuato la formazione tra le priorità di intervento, insieme con gli incentivi alle imprese e il potenziamento delle competenze[15]. A tal riguardo è previsto un diretto coinvolgimento dei Fondi interprofessionali per l’adeguamento continuo delle competenze, ruolo che sarà definito nei prossimi passi di implementazione del Piano nazionale.
I Fondi interprofessionali sono, dunque, uno dei punti nodali su cui focalizzare l’attenzione per realizzare un effettivo raccordo tra un sistema moderno di relazioni industriali e le politiche di sviluppo d’impresa.
Il percorso da attuare è certamente di natura progettuale in vista di due motivazioni essenziali: da un lato individuare quali competenze siano propedeutiche alla crescita, dall’altro considerare che gli effetti della formazione, le cosiddette “esternalità” positive, non sono immediati bensì caratterizzati da un ritardo di percezione e sono trasferibili all’intero contesto sociale.
Conclusioni
Quello della formazione è un aspetto di comprovato impatto sulle dinamiche di impresa, dal momento che ne accresce la produttività e la competitività, consentendole altresì di esercitare un ruolo sociale all’interno del territorio. Ben note sono ormai le ricadute positive dell’Economia della formazione sul lato delle imprese dal momento che “alla formazione si attribuisce un potenziale produttivo: al successo nella formazione, corrisponde un successo sul mercato del lavoro che viene onorato con un salario superiore”, quindi maggiore produttività e reddito maggiore[16]. Pertanto, il capitale umano coincide e viene quantificato con gli anni di istruzione-formazione formale (scuola università) e informale (azienda) a bassa trasferibilità che giustifica e stimola il finanziamento della formazione da parte dell’impresa.
Essa torna ad essere il traino e il fulcro economico e sociale, facendosi promotore di una rete di offerte integrative che vanno dalla formazione, alle politiche di welfare aziendale, alla condivisione di una contrattazione integrativa che rispecchi le istanze espresse dal territorio e dai rappresentanti dei lavoratori, riuscendo in tal modo a conciliare gli obiettivi di redditività, la tutela sociale e il dinamismo di territorio. Come dimostrano recenti studi (Confindustria e Cerved 2018) crescono gli ecosistemi coesi ovvero quelli nei quali “i diversi attori del territorio (imprenditori, sindacati istituzioni e lavoratori) condividono visione e strategie” come testimonia la maggiore capacità reattiva di tali sistemi in questa fase post crisi.
Sul fronte formativo il lifelong learning è ormai un punto cardine delle politiche dell’Unione europea e la formazione continua è la migliore espressione di tale concetto, poiché strettamente correlata alle dinamiche del lavoro. In questo contesto un ruolo decisivo può essere svolto dai Fondi interprofessionali che esprimono concretamente quella coesione tra soggetti e strategie che si è dimostrata vincente per imprese e territori. Come dimostrato anche dal presente lavoro,la formazione attrae formazione; una gestione di impresa altamente qualificata, investe di più in percorsi formativi, poiché vuole una forza lavoro più professionale, più competente e altamente specializzata. Questo atteggiamento si rivela un vantaggio per le realtà imprenditoriali consolidate, ma è altresì una garanzia di occupabilità per le aziende in difficoltà. Anche per le aziende che mancano di un contesto territoriale di sostegno la formazione e in particolare l’integrazione strategica rappresentata dai Fondi interprofessionali dovrebbero rappresentare la possibilità di intervenire nel coordinamento istituzionale e agevolare le relazioni industriali, innescando un circuito virtuoso di condivisione. Non a caso, come emerge dalla presente ricerca, l’utilizzo dei Fondi interprofessionali è sempre associato positivamente alle pratiche di welfare aziendale, alla diffusione della contrattazione integrativa e alla presenza sindacale, in uno scambio continuo del ruolo di causa ed effetto.
È altresì evidente che si fa riferimento ad un peso della formazione di impresa ancora troppo limitato per poter essere una espressione reale di tutte le sue potenzialità all’interno dell’azienda e negli effetti di propagazione sul territorio; e ancora correlato a specifiche peculiarità aziendali.
Infatti il presente lavoro evidenzia come le caratteristiche delle imprese, della forza lavoro e dell’assetto manageriale e proprietario siano correlate non solo alla propensione a realizzare percorsi di formazione per i lavoratori, ma anche alla fonte di finanziamento scelta. Invero, i Fondi interprofessionali risultano maggiormente correlati con le imprese a gestione manageriale, in particolare con manager o proprietario laureato. Ciò probabilmente indica che costituiscono uno strumento ancora legato alla dimensione d’impresa e ad alcune tipologie di proprietario/manager.
Inoltre, una possibile lettura che porterà a valutare le interazioni tra le due variabili esplicative, riguarda la combinazione tra manager laureati e personale ad alta qualificazione. Ciò è in primis sintomo della necessità di avere a capo delle imprese persone con strumenti per effettuare scelte adeguate e lungimiranza per comprendere la necessità dell’investimento nella formazione continua. In secondo luogo è sintomo di quanto capitale umano altamente qualificato possa comprendere i vantaggi e in molti casi richiedere formazione.
Di sicuro interesse, alla luce dei più recenti interventi normativi in materia di Fondi paritetici interprofessionali e della rivisitata veste di questi ultimi nel Piano Industria 4.0, è sottolineare che dallo studio emerge un segno negativo, rispetto all’utilizzo dei Fondi interprofessionali da parte di imprese con una elevata quota di giovani. Probabilmente ciò indica una certa difficoltà ad aderire al sistema dei Fondi per imprese con una struttura demografica caratterizzata da una maggiore incidenza di giovani.
Di contro, risulta immediato il legame tra il ricorso ai Fondi interprofessionali per la formazione continua e l’attuazione di misure di welfare e l’applicazione di contrattazione integrativa in azienda. È palese, a tal riguardo, il ruolo decisivo svolto dalla negoziazione decentrata che disciplina per i lavoratori sia l’erogazione dei servizi di welfare, sia la formazione professionale e altri elementi potenzialmente oggetto di contrattazione di II livello (flessibilità orario di lavoro, salario accessorio, ecc.). Pertanto, il ricorso ai Fondi interprofessionali e l’attuazione di misure di welfare aziendale esprimono due facce diverse, ma complementari, di una medesima medaglia rappresentata dalla strategia d’azienda che investe nel proprio capitale umano.
Infatti, l’erogazione di servizi sociali ai dipendenti e l’applicazione di accordi integrativi rappresentano il potenziamento e l’efficienza delle politiche rivolte alle risorse umane, soprattutto in realtà aziendali dove le decisioni di investimento in innovazione sono complementari alla valorizzazione delle competenze e delle motivazioni dei lavoratori (Bloom e van Reenen 2011). È chiaro, dunque, che questa rete integrata di politiche è preposta allo scopo di offrire una base strutturale di sostegno agli obiettivi aziendali. Questo affinché le scelte attuate dalle imprese e una loro adesione a strumenti agevolativi vada ben oltre la momentanea esigenza compensativa, rispetto alla dimensione salariale data, ovvero rispetto ad una carente competitività produttiva.
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