SINAPPSI

2018/3

Valenze della qualità del lavoro nel non profit


Il saggio procede dalla consapevolezza dei cambiamenti definitori, statutari, normativi e organizzativi che nel prossimo futuro interesseranno le organizzazioni non profit che operano nel nostro Paese. Tali cambiamenti influenzeranno anche la sfera del lavoro nel settore in molti dei suoi aspetti e contenuti. La qualità del lavoro e quella dei servizi offerti in questo contesto sono state date a lungo per scontate, sia per la gratuità dell’impegno profuso che per l’intrinseca rilevanza sociale delle azioni. Oggi il livello della qualità del servizio è considerato un fattore strategico di competizione, sia in ambito locale che internazionale, in quanto è più netto il confine tra attività sussidiarie di interesse generale, attività commerciali e strumentali.

This essay deals with a series of changes – normative, statutory and organizational – which in future years are going to affect the no profit organizations that operate in Italy. Such changes will also influence the labor market in this sector. The quality of work and quality of the services offered in this context have been taken for granted for a long time, because they are considered to be related to the free commitment of people and to the social relevance of the activities. Nowadays the quality of the service offered is considered a strategic factor of competition, both locally and internationally, as the boundary between subsidiary activities of general interest, commercial and instrumental activities is more marked.

1. Introduzione

Questo contributo si focalizza sul settore non profit[1] e, partendo da alcune riflessioni che hanno accompagnato i cambiamenti socio-economici del mondo del lavoro negli ultimi decenni, intende sostenere un’idea abbastanza semplice: trasversalmente in tutto il mercato del lavoro la qualità dei posti di lavoro è importante quanto la loro quantità. Le analisi sul tema curate da istituzioni internazionali mostrano che i due aspetti viaggiano insieme e che i Paesi che adottano provvedimenti attenti alla qualità sono anche quelli che registrano i tassi di occupazione più elevati.

Affrontare concretamente il discorso della qualità del lavoro all’interno del Terzo settore è un problema complesso, per motivi legati sia ad aspetti concettuali sia a caratteristiche peculiari del settore, che in ogni Paese europeo presenta una realtà variegata e distinta. Gli ambiti di applicazione possono essere diversi, come differenti possono essere gli obiettivi conoscitivi e di misurazione. Parlare di qualità del lavoro in questo settore implica fare i conti con una multidimensionalità che tocca la vita concreta degli individui e determina le modalità con cui interagiscono i diversi livelli decisionali (individuale, familiare, locale, nazionale). È necessaria una pluralità di indicatori, organizzati in una struttura concettuale coerente, capaci di leggere un mondo caratterizzato da un’estrema varietà e mutevolezza, da diversi gruppi sociali ed economici, da differenze nei servizi e nelle prestazioni, dalla variabilità dell’oggetto e del bene/prodotto atteso dalle organizzazioni che ne fanno parte.

Il concetto di qualità del lavoro fa parte a pieno titolo delle politiche europee, costituendo un punto nodale delle politiche del lavoro e della Strategia per l’Occupazione. Tuttavia non sempre si pone la doverosa attenzione su questo aspetto, soprattutto in momenti di crisi economica come quello attuale in cui, per sostenere la ripresa, si punta a più urgenti misure finalizzate a far crescere il numero dei posti di lavoro, piuttosto che prestare attenzione alla loro qualità.

A titolo esemplificativo anche la riforma del mercato del lavoro, introdotta in Italia con l’approvazione della L. 16 maggio 2014 n. 78, più conosciuta come Jobs Act, ha spostato l’attenzione sui numeri dell’occupazione e della disoccupazione, monopolizzando le prime pagine dei giornali e animando i dibattiti politici. Basta una leggera flessione o un aumento dei rispettivi tassi rispetto al mese precedente per consacrare il successo o il fallimento dello stesso provvedimento. Anche le note mensili dell’Istat e i comunicati del Ministero del Lavoro e dell’Inps non sono stati mai così attesi e ‘vivisezionati’[2]. Il perdurare della crisi economica non ha migliorato la situazione. Con questa focalizzazione resta difficile osservare e misurare l’aspetto su cui si dovrebbe giocare il vero successo di ogni provvedimento, ossia quello della qualità del lavoro, unita alla capacità di creare e conservare posti di lavoro.

La qualità è un concetto multidimensionale, non definibile con un unico parametro. È costituito da diverse dimensioni indipendenti tra loro che non determinano variazioni a carico delle altre perché non legate tra loro e non gerarchicamente ordinabili. È un concetto aperto, soggetto a revisioni e integrazioni delle varie componenti che lo costituiscono, dei loro contenuti e confini. È anche un concetto relativo e contestualizzato, capace di adattarsi alle trasformazioni del lavoro. Il passaggio della qualità del lavoro dal ‘peggio’ al ‘meglio’ è determinato dalla combinazione di diverse variabili che incidono sulla sua misurazione: la decisione di includere o meno alcune dimensioni utili alla sua concettualizzazione determina la conseguente scelta della quantità e della tipologia degli indicatori.

Nel dibattito europeo, oltre alla difficoltà di costruire indicatori in grado di misurare determinate condizioni collegate al lavoro, la questione aperta riguarda lo sforzo di rilevare parametri comuni e condivisi tra i diversi Paesi. Quando si parla di indicatori di qualità, l’obiettivo europeo rimane quello di ottenere una misurazione rispetto alle caratteristiche stesse del lavoro all’interno dell’azienda, ma soprattutto rispetto alle condizioni generali del mercato e del contesto di lavoro. Sebbene le aree tematiche indicate siano interessanti e ricche da un punto di vista semantico, è complicato attribuire a tali dimensioni indicatori significativi, chiari e disponibili. Il tema della misurazione della qualità del lavoro, da questo punto di vista, è ancora agli inizi; e soprattutto lo sono la misurazione e la sperimentazione sul campo.

In relazione a ciò, sono diversi gli europarlamentari che hanno rivolto al Parlamento e alla Commissione europea l’appello a dotarsi a breve di una road map o Agenda dell’Economia sociale di lungo periodo affinché questa non sia più considerata un’altra economia o un’economia marginale, ma una parte rilevante dell’economia stessa, tenuto conto della consistenza dei numeri registrati: 2 milioni di imprese e organizzazioni; 14,5 milioni di europei occupati; l’8% del PIL dell’Unione europea. Come dichiarato da Martin Siecker, Presidente della sezione per il mercato unico, la produzione e il consumo del Parlamento europeo, l’economia sociale è un modello per uscire dalla crisi, creare nuovi posti di lavoro qualitativamente migliori e rendere l’Europa più resiliente e competitiva.

Con l’entrata in vigore della legge di riforma del Terzo settore (L. 6 giugno 2016 n. 106, Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell‘impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale) le organizzazioni che operano nel nostro Paese sono interessate da una serie di cambiamenti definitori, statutari, normativi e organizzativi: cambiamenti che influenzeranno anche la sfera del lavoro nel non profit in molti dei suoi aspetti e contenuti. La qualità del lavoro e quella dei servizi offerti dal settore sono state date per scontate per molto tempo, in quanto considerate intrinseche alla rilevanza sociale delle azioni e per la gratuità dell’impegno profuso. Oggi la qualità del servizio offerto è considerata un fattore strategico di competizione, sia a livello locale sia internazionale, in quanto è diventato più netto il confine tra attività sussidiarie di interesse generale, attività commerciali e strumentali.

2. Qualità del lavoro e qualità della vita: l’evoluzione concettuale

In Europa e negli Stati Uniti nascono e si diffondono a partire dagli anni ’70 varie iniziative a cura di istituzioni di ricerca pubbliche e private per approfondire gli effetti dell’organizzazione del lavoro sull’uomo e sulla sua vita (Dall’Agata s.d.). È del 1975 l’istituzione di Eurofound, un’agenzia dell’Unione europea, fondata a Dublino a supporto degli organismi comunitari, dei governi e delle parti sociali dei singoli Stati sui temi della qualità del lavoro, della vita lavorativa e di quella personale. L’evoluzione di tali interessi, in questo periodo storico, è legato alla comparsa di movimenti di protesta contro le cattive condizioni di lavoro determinate dal sistema produttivo di massa, e alle rivendicazioni per la scarsa attenzione alla sfera extra-lavorativa rispetto ai ritmi imposti dallo sviluppo economico e tecnologico.

Le teorie socio-lavoriste e organizzative sulla qualità del lavoro hanno messo in evidenza gli aspetti tecnico-strumentali legati a un’organizzazione del lavoro tipicamente tayloristica. Il lavoro è una variabile dipendente dall’organizzazione del lavoro, oggettiva e ‘scientifica’; i fattori di tipo fisico e ambientale sono al centro dell’attenzione; studi sul posto di lavoro e sulla sua qualità, invece, hanno sottolineato l’importanza degli aspetti di tipo relazionale e psicologico attribuibili a un’organizzazione attenta alla componente sociale dell’azienda, in un sistema produttivo di tipo fordista. In quest’ambito si sviluppa l’interesse per l’approccio ergonomico che, inizialmente criticato per la sua valenza parziale e limitata, ha sicuramente contribuito allo sviluppo del concetto stesso di qualità del lavoro.

Anche in Italia prende piede la tematica e il dibattito sociologico si sposta sulle dimensioni, sui fattori di influenza e i criteri attraverso i quali poter misurare la qualità del lavoro. Il Paese vive una situazione economica di crisi e forte disoccupazione, la struttura produttiva si compone di piccole e medie imprese, esiste una scarsa attenzione per la tutela e il miglioramento delle condizioni di lavoro. La prima iniziativa significativa è quella di Luciano Gallino che, nel 1976, in un’indagine commissionata dall’Intersind, evidenzia che il lavoro può essere disgiunto in più dimensioni, assumendo come riferimento anche i diversi bisogni che le proteste dei lavoratori denunciavano in quegli anni (Gallino et al. 1976). Quello della qualità del lavoro è un concetto complesso ed enuclea quattro dimensioni che contribuiscono a definirlo e che rispondono a bisogni differenti: quella ergonomica; della complessità; dell’autonomia; del controllo.

Affinché un lavoro sia considerato di qualità occorre che per ogni bisogno espresso vi siano altrettante condizioni che lo soddisfino. L’Autore identifica alcuni fattori che possono agire sulla qualità del lavoro per condurla da una condizione sfavorevole a una migliore, tra i quali: la tecnologia (Gallino 1985); l’organizzazione del lavoro; il mercato del lavoro; il valore del lavoro; l’organizzazione sindacale dei lavoratori; il sistema politico. Elemento centrale del processo di valutazione è il lavoratore con il suo punto di vista, i fabbisogni, le aspettative, le motivazioni proprie. L’approccio qualitativo prevale su quello quantitativo.

Alcune critiche da parte di Michele La Rosa (1983) sottolineavano in questo approccio una scarsa considerazione per gli aspetti relazionali, sociali, progettuali e ambientali per cui alle dimensioni già individuate l’Autore propone di aggiungerne altre due: la prima riguarda il sistema azienda composto dai due sottosistemi, quello dei lavoratori e quello dell’impresa; la seconda interessa la dimensione economica del lavoro, quindi, la retribuzione e la sicurezza del posto di lavoro.

Negli anni ’80 (La Rosa 1981) gli studi sulla qualità considerano altri aspetti legati alle condizioni lavorative, all’organizzazione del lavoro, alla salute e sicurezza, alla flessibilità e all’introduzione delle nuove tecnologie, alle nuove forme di lavoro e tipologie di contratti. Importanti approfondimenti riguardano l’equilibrio tra tempi di vita e di lavoro, la parità retributiva tra uomini e donne, i contenuti del lavoro e le aspettative dei lavoratori. Da qui il passo è breve: dalla qualità ci si sposta man mano sullo sviluppo sostenibile, la responsabilità e il dialogo sociale.

Agli inizi del nuovo millennio si registra un ulteriore cambio di rotta: la qualità del lavoro diventa un obiettivo strategico dell’Unione europea e il concetto si applica a diversi ambiti della sfera lavorativa e sociale, con una maggiore attenzione alla conciliazione tra vita lavorativa e vita privata.

Economia, occupazione, politiche sociali diventano le parole chiave del nuovo corso, che scommette sulla crescita e sullo sviluppo come strumenti per raggiungere e assicurare migliori standard di vita per tutti (Commissione europea 2010).

2. Dimensioni e metodi per la misurazione della qualità

Negli ultimi anni le ricerche condotte a livello europeo hanno dimostrato che nel mercato del lavoro si sono creati nuovi posti di lavoro di migliore qualità. I ‘buoni’ posti di lavoro corrisponderebbero grosso modo a lavori che richiedono un’elevata istruzione e competenza, una relativa sicurezza e stabilità, la possibilità di fruire di formazione e di sviluppo di carriera, un’elevata produttività e una retribuzione adeguata. Al contrario, una scarsa qualità del lavoro si riscontrerebbe in lavori a bassa produttività, che richiedono livelli minimi di competenza, che non prevedono possibilità di sviluppo professionale e di formazione, che si basano su contratti precari e flessibili. Questi lavori, scelti non volontariamente dal lavoratore, sono collegati alla crisi e alla segmentazione del mercato del lavoro e presentano un insito rischio di esclusione sociale.

Misurare la qualità del lavoro e costruire indicatori adeguati e comparabili non è compito facile. A questo obiettivo tendono le diverse iniziative e le indagini, micro e macro, messe in campo dalle istituzioni europee sistematizzate nella tabella che segue. Esso rappresenta un’istantanea delle dimensioni, degli obiettivi e degli ambiti di interesse dei diversi organismi che hanno posto al centro delle loro analisi la qualità del lavoro e della vita sociale nei diversi contesti di osservazione e mostra la laboriosità della misurazione, delle dimensioni e degli indicatori della qualità, fornendo al contempo una sintetica comparazione degli approcci. Nelle pagine successive viene tracciato un breve profilo di ciascun aspetto.

L’Unione europea ha definito un approccio teorico alla misurazione della qualità del lavoro ponendolo, a livello comunitario, in linea con la Strategia europea per l’Occupazione[3]. Gli indicatori sono stati condivisi da un Comitato costituito dai rappresentanti di tutti i Paesi membri e, in gran parte, coincidono con quelli utilizzati nell’Indagine sulle forze di lavoro curata da Eurostat e con quelli prodotti e utilizzati dagli istituti di statistica nazionali dei diversi Stati. Le dimensioni sintetizzate nella tabella 1 fanno parte delle linee guida e per ognuna delle dimensioni indicate è stata definita una batteria di indicatori che periodicamente viene revisionata e aggiornata affinché l’Agenda sociale colga meglio l’evoluzione e le dinamiche del concetto nei diversi contesti.

L’International Labour Organization (ILO) dal 1999[4] ha dato vita all’Agenda sul lavoro dignitoso (Bertino 2014) proponendosi obiettivi strategici finalizzati alla creazione di un quadro teorico di riferimento che, combinando indicatori specifici sul lavoro con dati statistici di provenienza dalle indagini nazionali sulle forze di lavoro e, infine, con informazioni normative, restituiscano un patrimonio informativo più ampio e indicazioni più pertinenti per l’agenda politica mondiale. Anche in questo caso, la gamma degli indicatori è stata messa a punto da un gruppo di lavoro costituito da statistici rappresentanti di diversi Stati membri, affiancato da un team composto da tre tipologie di rappresentanti: dei lavoratori, dei datori di lavoro, dei governi. Nelle dimensioni riportate nella tabella 1 si prendono in considerazione i dati della disoccupazione; della sottoccupazione; del lavoro mal retribuito, privo di diritti e nocivo; del lavoro minorile; delle varie discriminazioni e segregazioni. 

Tabella 1 - I diversi approcci a livello internazionale sulla qualità del lavoro

Tabella 1 -  I diversi approcci

Fonte : Elaborazione dell'Autrice

La Commissione economica per l‘Europa delle Nazioni Unite (Unece) – istituita nel 1947 – è una delle cinque commissioni regionali delle Nazioni Unite. Nel 2005 ha costituito, con Ilo e Eurostat, la task force Quality of employment che ha curato un report sulla valutazione delle dimensioni e degli indicatori di qualità del lavoro[5] utilizzando anche dati della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Il report è stato indirizzato a tutti gli Istituti nazionali di statistica dei diversi Paesi, invitandoli a produrre dati in merito, in una logica di benchmarking.

La Rete Emconet (2007) sulla ‘giusta occupazione’ è invece formata da esperti di diversi Paesi che, partendo dal presupposto dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), che considera le condizioni di lavoro una dimensione importante per la salute e il benessere della popolazione, hanno teorizzato un quadro di riferimento volto a cogliere e migliorare la comprensione dei ‘legami’ tra condizioni di lavoro e condizioni sociali delle persone.

La Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Eurofound), della quale si è già accennato, è un’agenzia di ricerca comparativa a supporto delle politiche pubbliche per migliorare le condizioni di lavoro, le relazioni industriali e i cambiamenti sociali in Europa, e ritiene che il raggiungimento degli obiettivi delle attuali politiche del lavoro (tra cui l’aumento dei livelli occupazionali, il prolungamento delle vite lavorative, lo sviluppo di produttività e l’innovazione, la sfida della digitalizzazione) dipenda dalle dinamiche esterne del mercato del lavoro, ma anche dalla creazione di modelli organizzativi garanti di una rinnovata centralità della persona e del suo lavoro. Partendo da questa ipotesi, la Fondazione si propone di fornire ogni cinque anni una panoramica generale sulle condizioni di lavoro in Europa, per fotografare l’eterogenea forza lavoro suddivisa per Paese, settore, genere e fascia d’età e valutare gli aspetti che concorrono a determinare la qualità del lavoro. In tal modo monitora i progressi compiuti e le questioni ancora critiche per l’implementazione di politiche del lavoro europee, nazionali e territoriali, orientate al lavoratore e al suo benessere in un’ottica di maggiore produttività (Eurofound 2016).

L’Organisation for Economic Cooperation and Development (OECD)[6] nel 2016 ha proposto nella sua indagine europea tre indicatori per misurare la qualità del lavoro: la remunerazione, la protezione, l’ambiente di lavoro. Il primo considera quanto i redditi da lavoro contribuiscano al benessere dei lavoratori, tenendo conto dei salari medi e della loro distribuzione a parità di potere d’acquisto. In tema di protezione nel mercato del lavoro si valuta quanto è probabile ricevere un sussidio per attenuare lo shock economico che consegue alla perdita del lavoro. Relativamente alla qualità dell’ambiente di lavoro, si studiano gli aspetti non economici del lavoro: la sua natura, il suo contenuto, gli orari e le relazioni lavorative.

Il quadro teorico dell’indagine si completa con quello del Rapporto annuale Oecd sull’Employment Outlook[7] che analizza in ottica comparata gli sviluppi e le prospettive del mercato del lavoro dei 35 Paesi membri per contribuire alla crescita dell’occupazione, anche in termini qualitativi. Gli argomenti su cui si focalizza il rapporto sono:

 

  • le performance dei diversi mercati del lavoro, valutate con indicatori di qualità del lavoro e di inclusività delle persone svantaggiate;
  • la resilienza del mercato del lavoro durante la recessione iniziata nel 2007 e l’importanza delle politiche attive del lavoro come strumento di stimolo per accrescere le capacità del mercato del lavoro;
  • l’impatto della trasformazione tecnologica e della globalizzazione sul lavoro;
  • le caratteristiche dei sistemi di contrattazione collettiva nei diversi Paesi.

 

Infine, l’attenzione dell’Isfol (oggi Inapp) alla qualità del lavoro nasce con lo sviluppo già dagli anni ’90 di un filone di ricerca esplorativo finalizzato a un approfondimento teorico e metodologico di carattere squisitamente qualitativo (Isfol e Giovine 2010). Su queste basi si sviluppa nel tempo una fase di produzione di evidenze empiriche legate alla scelta di utilizzare un approccio statistico e quantitativo di misurazione della qualità del lavoro. Si avvia una ulteriore fase di rilevazioni periodiche tramite somministrazione di questionari, rivolti in un primo momento ai soli lavoratori e, successivamente, anche alle aziende, su campioni statisticamente rappresentativi. Quattro le indagini realizzate nel corso di un decennio[8]. Le informazioni richieste sondano: le caratteristiche del lavoro e del posto di lavoro, gli orari e i ritmi, l’ambiente fisico, la complessità del lavoro e la possibilità di apprendimento, le relazioni e il clima, la conciliabilità tra lavoro e vita, la soddisfazione, l’autonomia e il controllo, il reddito.

Riassumendo, tutte le dimensioni e le variabili individuate finora sono da considerare espressione della volontà e della necessità di ampliare la base conoscitiva a supporto dei decisori politici nel momento in cui si programmano politiche e riforme dal forte impatto sul mercato del lavoro. Gli approcci seguiti nell’indagare la qualità (Rizza e Zurla 2015) differiscono da Paese a Paese in relazione al maggior o minor interesse verso specifici aspetti, alla metodologia di ricerca adottata e ai suoi strumenti. Nessuno degli approcci tende a pervenire a una definizione univoca del concetto di qualità del lavoro, né tanto meno a un indicatore sintetico dello stesso, in quanto ne scaturirebbe un conflitto con il presupposto fondante, ovvero la sua multidimensionalità e l’assenza di legami e di gerarchia tra le dimensioni (Isfol e Gualtieri 2013). Vanno ugualmente segnalati i tentativi di definire un unico indicatore sintetico e composito, ricorrendo a procedure di attribuzione dei pesi alle varie dimensioni individuate e attraverso medie aritmetiche[9].

Concludendo, il dibattito europeo e internazionale sul tema della qualità del lavoro resta caratterizzato dalla difficoltà di costruire indicatori che siano in grado di misurare le peculiarità del lavoro all’interno dell’azienda, ma soprattutto rispetto alle condizioni generali del contesto di lavoro e del mercato del lavoro. Altrettanto ardua resta la rilevazione di parametri comuni e condivisi tra i diversi Paesi per una maggiore comparabilità delle informazioni. Come è stato già evidenziato, infine, quantunque le aree tematiche indicate siano tutte di rilevante interesse, ciò che resta incerto è attribuire alle diverse dimensioni indicatori significativi, chiari e fruibili.

3. Il Terzo settore in Italia e la Riforma

Il Terzo settore e la legge di Riforma che sta interessando questa realtà rappresentano una sfida importante per il nostro Paese (Venturi e Rago 2018) per il numero delle organizzazioni coinvolte, per il valore sociale ed economico che rappresentano, per il numero di cittadini che trovano in queste formazioni sociali un luogo di vita, di sostegno, di impegno, di lavoro.

Sono Enti del Terzo settore (ETS) – come sancisce il provvedimento (L. 6 giugno 2016 n. 106) – le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, e ogni altro ente costituito in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, o di fondazione per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, e iscritti nel Registro unico nazionale del Terzo settore.

Passando ai numeri, dai dati del Censimento 2011 le istituzioni attive in Italia alla data del 31 dicembre dello stesso anno sono 301.191. I settori di attività economica in cui operano sono diversi, ma prevalgono con il 65% cultura, sport e ricreazione. Registrano entrate economiche per 64 miliardi di euro e uscite economiche per 57 miliardi di euro. Sono coinvolti 4,7 milioni di volontari; 681.000 dipendenti con diverse tipologie contrattuali; 271.000 lavoratori esterni e 78.000 lavoratori distaccati comandati. Nell’89% dei casi si tratta di associazioni prive di personalità giuridica residenti a Nord. Le regioni con una maggior presenza di organizzazioni non profit sono nell’ordine Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna (Istat 2015).

Si tratta di dati antecedenti la Riforma del 2016, utilizzati durante l’iter di definizione del provvedimento, sufficienti per sostenere l’ipotesi che misurare la qualità del lavoro e della produzione nelle organizzazioni non profit comporterà ulteriori approfondimenti, anche a partire dai cambiamenti introdotti dalla stessa. Il Terzo settore è chiamato, nel suo ruolo di attore sociale, ad avviare un processo di sviluppo economico e di benessere partendo dalla definizione di ‘nuovi’ approcci basati su un più ‘virtuoso’ processo di sviluppo capace di generare un lavoro ‘migliore’.

Alla data dell’11 ottobre 2018 l’Istat ha aggiornato, sulla base di stime dell’annualità 2016, i dati del Censimento permanente sulle istituzioni non profit offrendone di nuovi sulle più importanti variazioni strutturali registrate dal settore (Istat 2018). Nel 2016, le istituzioni non profit attive in Italia sono cresciute a 343.432 e complessivamente impiegano, alla data del 31 dicembre dello stesso anno, 812.706 dipendenti. Rispetto al 2015, le istituzioni crescono del 2,1% e i dipendenti del 3,1%; si tratta pertanto di un settore che continua a espandersi nel tempo con tassi di crescita medi annui in linea con il profilo delineato dai censimenti tradizionali.

Aumenta l’incidenza delle istituzioni non profit anche rispetto al complesso delle imprese dell’industria e dei servizi: dal 5,8% del 2001 al 7,8% del 2016 per le istituzioni e dal 4,8% del 2001 al 6,9% del 2016 per gli addetti.

Nel biennio 2015-2016, le istituzioni crescono maggiormente a Nord-Ovest (+3,3%), seguono il Sud (+3,1%) e le Isole (+2,4%); i dipendenti crescono invece soprattutto nelle regioni meridionali (+5,8%).

Un’istituzione su due è stata costituita dopo il 2005. L’età media delle istituzioni non profit varia in relazione alla localizzazione territoriale e alla dimensione occupazionale. Infatti, le istituzioni nate prima del 2000 sono presenti soprattutto nel Nord-Est (43,5%) e nel Nord-Ovest (39,6%) mentre al Sud prevalgono quelle costituite a partire dal 2010 (41,6%). Rispetto alle risorse umane impiegate, circa due terzi delle istituzioni senza dipendenti sono stati costituiti a partire dall’anno 2000 mentre le unità con almeno dieci dipendenti sono nate in anni precedenti nel 62,7% dei casi.

Nel biennio considerato le istituzioni non profit aumentano pressoché in tutte le forme giuridiche, ma sono le fondazioni a crescere di più (+16,4%), mentre le cooperative sociali mostrano un lieve calo (-3,3%). L’associazione è la forma giuridica che raccoglie la quota maggiore di istituzioni (85,1%), seguono quelle con altra forma giuridica (8,2%), le cooperative sociali (4,5%) e le fondazioni (2,2%). I dipendenti aumentano in misura maggiore nelle fondazioni (+10,3%) e nelle cooperative sociali (+3,0%). La distribuzione dei dipendenti per forma giuridica resta piuttosto concentrata, con il 52,7% impiegato dalle cooperative sociali rispetto al 19,1% e al 12,1% di associazioni e fondazioni. La media dei dipendenti, pari a 27,5 tra le cooperative sociali, scende a 0,5 tra le associazioni.

Tra i dipendenti delle istituzioni non profit la quota femminile è molto superiore a quella maschile (71,9% contro 28,1%). La distribuzione per classe di età è piuttosto allineata tra settore non profit e profit, con oltre il 57,3% dei dipendenti compreso nella classe 30-49 anni (56,9% tra le imprese).

I dipendenti delle istituzioni non profit presentano livelli d’istruzione superiori rispetto a quelli impiegati dalle imprese: i laureati sono il 31,0%. I lavoratori dipendenti per i quali le istituzioni non profit hanno beneficiato di sgravi contributivi sono 40.436 nel 2016 (5,0% del totale). Nel 70,8% dei casi si tratta di fasce socialmente deboli rispetto all’ingresso nel mercato del lavoro (come detenuti, disabili e donne svantaggiate), mentre le imprese hanno usufruito di agevolazioni fiscali principalmente per l’impiego di giovani (65,4%).

L’occupazione dipendente nel settore non profit si differenzia da quella delle imprese anche in relazione all’inquadramento professionale, alla tipologia contrattuale e al regime orario. I dipendenti delle istituzioni non profit sono prevalentemente inquadrati con la qualifica di impiegati (54,5%) e lavorano con un regime orario a tempo parziale (51,8%), mentre quelli delle imprese sono assunti principalmente con la qualifica professionale di operaio (54,2%) e con un contratto di lavoro a tempo pieno (71,9%). Inoltre, la quota di lavoratori a tempo determinato è lievemente superiore nel settore non profit rispetto a quella osservata tra le imprese (15,5% contro 12,3%).

In questa sede possiamo solo ipotizzare che trasporre il discorso della qualità del lavoro nel Terzo settore in termini concreti e operativi sarà laborioso. Significherà individuare all’interno delle diverse tipologie giuridiche e organizzative riconosciute come enti del Terzo settore le dimensioni della qualità del lavoro che si intende prendere in considerazione; definire eventuali settori e ambiti tematici di riferimento; individuare indicatori condivisi e idonei a misurare le dimensioni prescelte.

4. Contributo delle indagini di campo e nuove implicazioni per la ricerca sulla qualità del lavoro

Se ai dati del Censimento vengono affiancate le informazioni tratte da alcune indagini quali-quantitative si avrà un quadro più completo delle dinamiche ‘reali’ che caratterizzano il lavoro nel Terzo settore.

Si potrà anche procedere in questa analisi mutuando gli indicatori proposti dall’OCSE e organizzare le evidenze sulle tre dimensioni: la qualità delle remunerazioni; la protezione nel mercato del lavoro; la qualità dell’ambiente di lavoro.

In via preliminare, si può ricordare come le risorse umane che operano nel Terzo settore abbiano caratteristiche in qualche modo ‘stabilizzate’ in letteratura. E che, nonostante le indubbie evoluzioni, sostanzialmente tale settore rimane caratterizzato a certi livelli:

 

  • da una percentuale di donne lavoratrici molto alta rispetto al profit, che si accompagna alla presenza più che proporzionale di contratti part-time. Si tratta di donne che operano nei settori di cura e assistenza, con figli minorenni, la cui retribuzione è considerata un reddito familiare aggiuntivo rispetto a quello del coniuge;
  • da una percentuale in crescita di adulti coinvolti in organizzazioni non profit;
  • da un numero consistente di volontari che, da circa un ventennio, si mantiene stabilmente attorno alla soglia del 10% della popolazione complessiva;
  • dall’essere un’opportunità per chi è stato espulso dal mercato del lavoro o per chi non riesce a inserirsi;
  • dalla coesistenza delle più svariate tipologie di impiego: da quelle ‘tradizionali’ proprie dei lavoratori dipendenti, passando per le diverse forme di lavoro atipico, fino ad arrivare poi alla presenza di personale volontario.

 

In generale, sia in considerazione dell’attività svolta che del contenuto motivazionale a essa attribuito, le diverse forme di lavoro sono caratterizzate dalla coesistenza di aspetti monetari e non monetari.

 

Per quanto riguarda le remunerazioni degli occupati nel Terzo settore, le informazioni disponibili mostrano che le caratteristiche e i guadagni di questi lavoratori possono differire anche in maniera sostanziale da quelli che sono impiegati negli altri due settori[10].

Le dimensioni potenziali dei guadagni economici dei lavoratori del non profit finiscono per essere ristrette nei fatti da vari meccanismi di premialità di tipo non economico. Tra questi: la soddisfazione di svolgere un lavoro compiuto per il bene comune, un lavoro gratificante e coinvolgente percepito come socialmente utile, un’attività che permette l’inserimento in reti sociali, che facilita la messa in valore delle proprie capacità e competenze spendibili anche altrove e così via. Paradossalmente, questi meccanismi possono essere alquanto insidiosi nel tempo, determinando un’autoselezione di coloro che aspirano a lavorare nel settore perché ‘si possono permettere’ di lavorare senza puntare a un maggior guadagno, e coloro che non trovano lavoro negli altri settori. Un paradosso negativo che potrebbe determinare delle conseguenze sulla qualità delle risorse umane complessivamente impiegate[11]. La discriminante è se il lavoro nel Terzo settore sia:

 

  • effettivamente una ‘scelta di vita’, tenendo presente che la qualità del lavoro nel non profit, oltre o più che il guadagno monetario, dovrebbe garantire al lavoratore la possibilità di prendere decisioni, l’autonomia per realizzarle, la soddisfazione complessiva che deriva dall’ambiente di lavoro;
  • una modalità di ‘apprendistato’ per l’inserimento al lavoro, per poi emigrare verso lavori più gratificanti. In effetti, il non profit registra una mobilità verso gli altri settori sia per il fenomeno della veloce morti-natalità delle organizzazioni, sia per le dimensioni, prevalentemente piccole o piccolissime, che non consentono una reale prospettiva di carriera;
  • una sorta di ‘impiego’ o di ‘scelta morale’ per chi è prossimo alla pensione o già pensionato;
  • l’unica chance per quelli che hanno un basso livello di istruzione, una minore possibilità di mobilità e sono marginali nel mercato del lavoro;
  • una scelta per donne, che tradizionalmente costituiscono la percentuale maggiore degli addetti al settore.

 

In relazione alla protezione, stando ai dati del Censimento Istat 2011, tra le organizzazioni non profit prevalgono quelle che operano esclusivamente con personale non retribuito (73,6%), anche se una quota non marginale (7,9%) ricorre unicamente a lavoratori dipendenti. L’impiego di personale retribuito o non retribuito è direttamente associato ai caratteri giuridici e strutturali delle organizzazioni non profit:

 

  • l’impiego di personale retribuito si accompagna generalmente all’assunzione di forme giuridiche più complesse e concettualmente più simili a quelle delle tradizionali imprese profit (cooperative sociali e fondazioni a fronte di comitati e associazioni, dove operano più frequentemente volontari);
  • le organizzazioni di dimensioni economiche maggiori si avvalgono più spesso di lavoratori retribuiti, mentre quelle di dimensioni minori ricorrono generalmente a personale volontario;
  • l’inserimento di volontari è prevalente in settori quali l’ambiente, la cooperazione internazionale, la cultura, lo sport e ricreazione e la filantropia;
  • si impiega personale retribuito, in misura più rilevante, nei settori dell’istruzione e della ricerca, delle relazioni sindacali e dello sviluppo economico;
  • si impiegano ambedue le tipologie di cui sopra nella sanità, nella tutela dei diritti e nell’assistenza sociale.

 

In sintesi, i modelli di utilizzo delle risorse umane si differenziano secondo la forma giuridica, il settore, le dimensioni economiche, il ciclo di vita dell’organizzazione. Se l’organizzazione è orientata a garantire continuità e professionalità dei servizi offerti impiega lavoratori dipendenti; utilizza solo volontari se agisce in modo meno strutturato. Se l’assenza di parametri definiti lascia ampia discrezionalità ai responsabili delle organizzazioni, resta fermo che l’apporto di personale retribuito deve mantenersi sempre in misura marginale rispetto a quello volontario.

Un’organizzazione di volontariato deve svolgere la propria attività prevalentemente con il personale volontario, lasciando al personale retribuito il compito di integrare alcune funzioni dell’organizzazione. La qualifica di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro e con ogni altro rapporto, di contenuto patrimoniale, che afferisca all’organizzazione di cui fa parte. Perciò, le figure di ‘volontario’ e ‘lavoratore’ non possono essere ricoperte dalla stessa persona all’interno della medesima organizzazione. Le differenze di fondo che caratterizzano le due posizioni determinano una diversa disciplina normativa mirante a regolamentarne il funzionamento e i relativi adempimenti.

Per mettere in relazione occupazione e Terzo settore, dunque, bisognerebbe considerare quest’ultimo come insieme di organizzazioni autonome che operano rapportandosi con i consumatori privati e si finanziano vendendo servizi, quindi un’occupazione effettivamente aggiuntiva; oppure come un produttore di servizi su commessa del pubblico che crea occupazione prevalentemente sostitutiva di posti di lavoro pubblici; o, infine, come un sistema caratterizzato da relazioni economiche diverse da quelle proprie del mercato, che creano occasioni di lavoro con ridotta o assente remunerazione più che veri e propri posti di lavoro.

La distinzione tra lavoro retribuito e non retribuito diviene cruciale per definire l’occupazione nel non profit e anche per valutare la qualità dei posti di lavoro creati. Il riconoscimento della rilevanza del non profit, anche in termini di quantità di lavoro impiegato, conduce all’esigenza di approfondire quali siano le forme di lavoro impiegate, i metodi di calcolo dell’occupazione e le tecniche di stima dell’apporto del lavoro volontario.

Come osservato da molti studiosi anche in ambito internazionale, la definizione di volontariato – necessaria a una sua corretta misurazione – è particolarmente complessa per una serie di ragioni. I termini volontario e volontariato non hanno lo stesso significato nei diversi Paesi perché un comportamento solidale non è sempre riconosciuto come azione di volontariato, ma soprattutto la gratuità dell’azione volontaria è talvolta ‘contaminata’ da varie forme di rimborso spese.

In relazione all’ambiente di lavoro, infine, le ricerche mostrano che il personale del non profit è motivato da una forte dose di altruismo e solidarietà sociale che rende più difficile valutare la qualità dei posti di lavoro con i parametri del profit. I lavoratori sono, o si considerano, retribuiti in forme che non sono esclusivamente monetarie, e ciò rende la natura del loro impegno lavorativo informale e difficilmente caratterizzabile in termini di obbligazioni contrattuali, rendendo sfumata la demarcazione tra lavoro retribuito e lavoro volontario. Quindi, nella misurazione della qualità del lavoro nel Terzo settore, è richiesta una maggiore attenzione nell’analisi del rapporto salario-soddisfazione (Fazzi e Zamaro 2013).

La varietà dei livelli salariali nelle organizzazioni del Terzo settore è molto accentuata soprattutto riguardo alle dimensioni economiche delle organizzazioni, più che al settore di attività. Il valore aggiunto del non profit al PIL nazionale è tutt’altro che irrilevante, soprattutto se si considerano gli ambiti in cui si creano servizi e prodotti; tuttavia la retribuzione salariale dei suoi occupati presenta una media più bassa rispetto ad altri comparti, coinvolgendo non solo lavoratori estremamente motivati e portatori di un alto capitale sociale, ma anche coprendo la fascia di quei lavoratori sottopagati che altrimenti si vedrebbero, soprattutto al Sud, costretti alla disoccupazione.

5. Le indagini Inapp

Isfol, oggi Inapp, ha creato nell’ambito del SISTAN un sistema informativo delle organizzazioni iscritte nei registri del Terzo settore e tra il 2010 e il 2014 ha realizzato diverse rilevazioni[12] utilizzando i dati archiviati su alcune delle tipologie giuridiche più diffuse: organizzazioni non governative, associazioni di promozione sociale, organizzazioni di volontariato, fondazioni, cooperative sociali.

Le indagini hanno riguardato:

 

  • i modelli organizzativi e il capitale umano che opera nelle organizzazioni non governative: l’indagine ha verificato come il capitale umano costituisca il vero patrimonio di queste formazioni e come i ‘volontari speciali’, come sono denominati gli operatori, condividano molti tratti caratteristici di coloro che operano nel volontariato in generale. Le tipologie contrattuali, oltre quelle di tipo privatistico, distinguono:
  • volontari che operano nei progetti riconosciuti dal Ministero degli Affari Esteri (MAE) con un contratto di due anni e relativa copertura assicurativa;
  • volontari senior che, sempre nei progetti approvati dallo stesso Dicastero, realizzano un’esperienza di almeno tre anni, percependo un trattamento simile a quello dei volontari, ma con una maggiore retribuzione, coordinando le attività e l’inserimento dei nuovi volontari;
  • cooperanti, professionisti con conoscenze tecnico-professionali specifiche, impegnati in missioni brevi (meno di quattro mesi) o lunghe (da quattro a ventiquattro mesi);
  • esperti, nominati dalla Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del MAE.

 

Un’altra rilevazione, Il sostegno alla ricerca e all’innovazione delle Fondazioni, ha riguardato le fondazioni, la tipologia giuridica più vocata all’innovazione sociale, per approfondire il tema della formazione rivolta sia al personale retribuito che non retribuito. Prevale il contratto a tempo indeterminato full-time, seguito dal contratto a tempo indeterminato part-time.  Anche in questo caso la tipologia contrattuale è direttamente correlata al crescere della dimensione. Interessante notare come la terza forma contrattuale in termini percentuali sia quella del contratto a progetto, che risulta trasversalmente utilizzato sia in relazione all’ambito territoriale, che alla dimensione. Le consulenze fornite dai liberi professionisti presentano un peso simile a quello dei contratti più tradizionali. Per il personale non retribuito la forma di collaborazione più tipica è quella del volontariato, effettuato sia in forma regolare (35%) che più discontinua (22%). I dati sulla scolarizzazione mostrano una prevalenza di personale provvisto di titoli di studio elevati.

La ricerca sulla Costruzione di un sistema statistico-informativo sul lavoro e occupazione nel Terzo settore ha riguardato le cooperative sociali e ha evidenziato come le caratteristiche delle risorse umane impiegate vedano la prevalenza dei soci lavoratori dipendenti (69,9%), a fronte di poco meno del 9% di volontari. Seguono i soci lavoratori svantaggiati (cooperative di tipo B), i soci utenti/fruitori (cooperative di tipo A), i soci sovventori e altri soci, che non prestano opera diretta nelle cooperative.

La maggioranza delle compagini sociali è rappresentata dai soci lavoratori, cioè da coloro che prestano l’attività sulla base di un contratto di lavoro disciplinato dalla legge e con un regolamento che le cooperative hanno l’obbligo di redigere e di depositare presso la Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente. Dal rapporto di lavoro derivano diritti e doveri legati allo specifico contratto di lavoro stipulato con la cooperativa. In mancanza dell’adozione del regolamento interno le cooperative non possono inquadrare i soci con un rapporto diverso da quello subordinato.

Per le categorie dei soci volontari e dei soci lavoratori svantaggiati, che qualificano l’attività delle cooperative, sorgono problemi riferiti al funzionamento delle cooperative cui partecipano, alla considerazione che si tratta di soci che concorrono al perseguimento dello scopo sociale mutualistico e che è necessario o possibile che sia loro corrisposto un corrispettivo o un rimborso.

La caratteristica più importante dei soci volontari sta nel fatto che tra essi e la cooperativa sociale si realizza la relazione istituzionale tipica dell’azienda non profit: la loro presenza facilita il collegamento con la comunità locale, può costituire una forma di controllo sulla qualità dei servizi erogati, amplia spesso il nucleo iniziale di molte cooperative sociali e può incidere sulle scelte della cooperativa nel caso di una loro adeguata rappresentanza negli organi di controllo.

Infine, l’indagine su Lavoro retribuito e volontario nelle organizzazioni di volontariato, finalizzata a valutare la numerosità dei volontari, ha inteso stimare la quantità di lavoro necessaria a produrre servizi. Ha perciò dovuto approfondire sia i metodi di calcolo del contributo all’occupazione riferibile al settore, sia le tecniche di stima dell’apporto del ‘lavoro’ volontario. I volontari, comunque, non possono essere considerati lavoratori in senso stretto e la stima del loro contributo non può prescindere dalla considerazione di alcuni aspetti fondamentali:

 

  • i beni e i servizi delle organizzazioni non profit sono prodotti e scambiati prevalentemente al di fuori del mercato; e anche quando siano prodotti e scambiati all’interno del mercato hanno un ‘prezzo’ che normalmente non copre i relativi costi di produzione;
  • il contributo alla produzione del personale che opera in modo gratuito nelle organizzazioni non profit è stimabile solo in modo approssimato, non essendo possibile includere nel computo gran parte degli aspetti qualitativi che per alcuni servizi tipici del settore costituiscono l’essenza del bene o servizio scambiato;
  • ci sono ancora poche forme di ‘controllo’ esterno sui risultati del lavoro e ciò determina legami ‘deboli’ tra i lavoratori, i beneficiari e i donatori;
  • gli organismi di governo del non profit adottano procedure poco formalizzate per trasformare le strategie di politica aziendale in procedure e azioni; è perciò difficile monitorare l’efficienza del lavoro che si presenta caratterizzato da grande autonomia non sempre accompagnata da una chiara definizione degli obiettivi da raggiungere o raggiunti.

6. Riflessioni conclusive

Il settore non profit, cresciuto negli ultimi anni in termini di occupati e di rilevanza economica, sta attraversando un momento di profondo cambiamento dovuto anche al percorso di revisione della normativa di riferimento in atto. Uno degli aspetti rilevanti della riforma è rappresentato dal rafforzamento della funzione produttiva del comparto, tendenza già in atto da tempo e alimentata dalla propensione delle amministrazioni locali a coinvolgere le organizzazioni non profit nella produzione di servizi locali. Per far fronte ai cambiamenti socio-economici il settore ha sviluppato le sue componenti imprenditoriali verso forme organizzative capaci di garantire la sostenibilità economica, possibilmente duratura, del proprio operato.

Le trasformazioni che interesseranno il sistema delle organizzazioni del Terzo settore fanno del non profit un oggetto di studio rilevante per comprendere i cambiamenti del lavoro e della sua qualità in tutte le dimensioni considerate finora. A grandi linee, le teorizzazioni sulla qualità del lavoro nel sistema economico complessivo sono estendibili al non profit con alcune precauzioni e altrettanti approfondimenti, che saranno necessari per individuare una gamma di indicatori specifici (de Leonardis e Vitale 2001).

Giocheranno senz’altro un ruolo centrale i principali fattori su cui si regge la competitività del settore, ossia il suo costo contenuto e la sua adattabilità e su questo aspetto il legislatore ha dato indicazioni di regolamentazione.

In breve il Terzo settore comprende:

 

  • una realtà articolata di organizzazioni, esperienze e servizi;
  • utenze differenziate;
  • quote importanti dell’occupazione nazionale;
  • una pluralità di tipologie giuridiche e organizzative;
  • forme di lavoro diverse, caratterizzate dalla tipologia del contratto;
  • forme di lavoro distinte anche in base alla presenza di risorse volontarie e risorse retribuite che consentono alle formazioni di Terzo settore di assumere modelli organizzativi specifici e flessibili[13];
  • la compresenza di elementi e aspetti diversi, che appare spesso essenziale a garantire la natura solidaristica dell’organizzazione e a caratterizzare gli ambiti e la qualità delle attività svolte. L’impegno solidaristico crea legami comunitari, di senso di appartenenza, relazioni tra le persone che conducono a una migliore qualità della vita individuale e collettiva;
  • le competenze acquisite nel settore anche come volontario, che sono spendibili sul mercato del lavoro o nella stessa associazione come lavoratore retribuito. Molti giovani utilizzano il volontariato come porta d’ingresso al mondo del lavoro, acquisendo attraverso di esso utili competenze e relazioni;
  • il passaggio dal lavoro volontario a quello retribuito, spesso evento privo di regole o continuità. Il tempo di lavoro di un volontario è molto flessibile e questa caratteristica è spesso trasferita nel lavoro retribuito: a volte il dipendente diviene volontario facendo degli straordinari a favore dell’organizzazione senza ricevere alcun compenso, oppure il volontario è pagato per un’attività straordinaria in corrispondenza di una crescita improvvisa e momentanea del carico di lavoro. La situazione è quindi ancora confusa e spesso il lavoro volontario diviene sinonimo di lavoro deregolamentato;
  • molti modelli organizzativi possibili, in ragione dell’ampiezza delle attività svolte nell’ambito del Terzo settore (ad es. assistenza sociale, cultura, ambiente). La capacità di adattarsi al contesto esterno continuamente mutevole e di essere estremamente flessibili è comunque una delle peculiarità del settore.

 

L’instabilità contrattuale del settore ha un carattere sistemico che emerge con chiarezza dai dati del censimento Istat: i contratti a tempo determinato e di collaborazione pesano nel non profit per oltre il 30% contro il 14% dell’incidenza degli stessi inquadramenti nel profit.

La convenienza per la Pubblica amministrazione di ricorrere all’outsourcing rispetto al non profit risiede proprio nella possibilità di applicare forme contrattuali meno retribuite e più flessibili di quelle consentite nel settore pubblico; purtroppo la disuguaglianza salariale è ritenuta un fenomeno fisiologico e connaturato. Anche il finanziamento di progetti di breve durata crea precarietà strutturale essendo inevitabilmente a termine.

Da diverse indagini riguardanti gli operatori del non profit e finalizzate a studiare il lavoro nel settore emerge che, oltre all’inquadramento contrattuale, esistono pratiche organizzative per ridurre i costi e scaricare l’incertezza del mercato sui lavoratori. Talvolta si tratta di pratiche che sfiorano la violazione del diritto del lavoro, giocando proprio sugli spazi di manovra che le regole consentono (Busso e Lanunziata 2016).

Un primo meccanismo è la gestione del monte ore con una sorta di flessibilità imposta attraverso il meccanismo delle ore di recupero. Si chiede ai lavoratori di lavorare ben oltre l’orario nei periodi intensi di lavoro e si utilizza il monte ore in esubero per coprire i periodi di inattività forzata: quindi, alla continuità dello stipendio si associa una quantità di lavoro ‘non regolare’.

Un’altra pratica consiste nel ritardo nell’erogazione degli stipendi, con slittamenti anche di diversi mesi, che scaricano sui lavoratori i tempi lunghi con cui i committenti pagano le commesse.

Ancora: provvedere a sostituzioni temporanee dei lavoratori con personale sotto-inquadrato o volontario; tagliare su servizi accessori (rimborsi auto, mensa ecc.) e attività importanti finalizzate a prevenire il burn out e lo stress (supervisione, formazione ecc.); responsabilizzare gli operatori per la ricerca e il reperimento di risorse finanziarie necessarie per erogare gli stipendi e, quindi, coinvolgerli nella progettazione di interventi e di attività che consentono all’organizzazione di partecipare a bandi e avvisi pubblici.

Secondo una ricerca condotta alcuni anni fa dall’Università La Sapienza di Roma sulle relazioni tra mondo del volontariato e mercato del lavoro, la maggioranza delle organizzazioni non profit intercettate afferma la necessità di formazione per i dirigenti più che per gli operatori di base: questo dimostra la diffusa necessità di organizzare meglio il lavoro, anche in questo settore, e quindi di avere qualcuno che lo sappia fare.

In ogni politica per il lavoro, e anche nel Terzo settore, la formazione ha un ruolo di primaria importanza sia come servizio offerto all’esterno, sia come possibilità di crescita interna. È da definire se l’economia sociale possa trovare forme appropriate di formazione e sviluppo delle professionalità che possano rendere i suoi lavoratori competitivi anche al di fuori di un’economia non profit.

Analizzare il lavoro nel Terzo settore è un’operazione che richiederà una riflessione sugli aspetti che lo costituiscono, in quanto è una realtà estremamente disomogenea: le organizzazioni differiscono tra loro per dimensioni, obiettivi, attività, struttura, natura giuridica, risorse economiche, tendenze politiche e culturali, con differenti bisogni e forme di organizzazione. Le persone che lavorano in questo mondo spesso condividono gli scopi e gli obiettivi sociali della loro organizzazione, esercitano un certo controllo sulle decisioni, a volte sono stati volontari nella medesima organizzazione prima di divenire lavoratori retribuiti, altre volte sono soci; e quindi la relazione tra lavoratori e datori di lavoro è differente da quella che si instaura nei settori tradizionali.

Il lungo e laborioso processo che ha portato alla definizione e approvazione definitiva del provvedimento di Riforma del Terzo settore, i suoi decreti legislativi ora in fase di sperimentazione, i circa 40 provvedimenti amministrativi attesi nei prossimi mesi hanno definito un progressivo avvicinamento degli ETS al modello dell’impresa profit e a un assottigliamento delle differenze con gli altri attori del mercato. La partecipazione del non profit e delle sue organizzazioni ai processi di programmazione e alla governance delle politiche sociali rendono ormai irrinunciabile un corretto approfondimento alla misurazione della qualità del lavoro che vi è prestato. Questo fa sì che anche le future indagini Inapp sulla qualità del lavoro potranno tener conto di queste tipologie d’impresa e di questi lavoratori per trovare caratteristiche e indicatori utili da rilevare allo scopo di cooperare a livello internazionale con gli altri Paesi europei.

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1

Varie riflessioni qui contenute sono state oggetto di discussioni condivise in Inapp nel corso del 2017 con Enrico Spataro, che ringrazio per le preziose osservazioni metodologiche.

2

Secondo le parole usate in occasione della presentazione del Rapporto Annuale Istat 2017 da Giovanni Alleva (al tempo Presidente dell’Istituto), “non bisogna più fare la domanda che lavoro fai?” ma “lavori o non lavori? cerchi o non cerchi lavoro?”.

4

Decent Work, Rapporto del Direttore generale dell’ILO alla Conferenza Internazionale del Lavoro del 17 giugno 1999 a Ginevra.

5

Per quanto invece riguarda l’analisi del mercato del lavoro, si fa ricorso a indicatori legislativi. 

8

Una sintesi del percorso metodologico è riportata nel volume della collana Isfol I libri del Fondo sociale europeo, Le dimensioni della qualità del lavoro, Isfol, 2013.

9

Si tratta dell’European Job Quality Index (JQI) e del Good Jobs Index (GJI).

10

Questo aspetto è stato così trascurato finora che il legislatore lo ha inserito e esplicitato nel testo di Riforma. I lavoratori degli ETS hanno diritto a un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali. Di questi parametri gli ETS dovranno dar conto nel proprio bilancio sociale o di esercizio. Sono stati esplicitati i rapporti di calcolo circa la differenza retributiva tra lavoratori dipendenti all’interno della stessa impresa.

11

Si veda l’intervento di C. Figini (Cooperativa Sociale COMIN) del giugno 2013 su Il lavoro sociale: tra invisibilità e precariato, nell’inserto Lavoro & Precari de Il Fatto Quotidiano.

12

Tra il 2010 e il 2014 l’Istituto ha realizzato delle rilevazioni sulle organizzazioni non profit iscritte nei registri del Terzo settore per conto del Ministero del Lavoro: i modelli organizzativi e il capitale umano che opera nelle organizzazioni non governative; il sostegno alla ricerca e all’innovazione delle Fondazioni; il lavoro retribuito e volontario nelle organizzazioni di volontariato; domanda istituzionale e offerta dei servizi a carattere sociale; costruzione di un sistema statistico-informativo sul lavoro e occupazione nel Terzo settore (le cooperative sociali).

13

Si veda il n. 2 del 2017 della rivista Studi Zancan. Politiche e servizi alle persone.