1. Introduzione
A fianco allo studio dei fenomeni di impoverimento, marginalizzazione ed esclusione, la sociologia si è da sempre interrogata sulle rappresentazioni sociali di cui i poveri sono oggetto e sui processi attraverso cui tali rappresentazioni prendono vita (O’Connor 2001). La ricostruzione dello spazio discorsivo in cui si forma il dibattito sulla povertà riveste, infatti, un’importanza cruciale per comprendere la natura delle scelte politiche mirate a contrastarla e il loro grado di legittimazione (Bosco 2002). Sotto questo profilo il caso italiano ben si presta a una riflessione puntuale poiché negli ultimi cinque anni, dopo alcuni decenni di scarsa attenzione nei confronti della povertà, i decisori politici hanno implementato in successione tre diverse misure nazionali di sostegno al reddito: la Carta Acquisti Sperimentale (CAS), il Sostegno all’Inclusione Attiva (SIA) e il Reddito di Inclusione (ReI) a oggi in vigore. La visibilità mediatica e la rilevanza del tema hanno però raggiunto livelli senza precedenti negli ultimi mesi del 2018, quando ha preso quota il dibattito sulla proposta di istituzione del cosiddetto ‘Reddito di Cittadinanza’, previsto dalla legge di bilancio 2019.
Tutte le proposte sono accompagnate da dichiarazioni che rassicurano sul fatto che non saranno i furbi o i fannulloni a beneficiarne, svelando così più o meno direttamente la presenza di stereotipi negativi. Il modo stesso in cui sono costruite (non solo queste) sembra rispondere all’esigenza di differenziare i potenziali destinatari e garantire l’accesso alle misure ai soli poveri ‘meritevoli’, cioè secondo il significato originario ottocentesco del termine ai soli poveri non abili al lavoro. Se nella definizione di incapacità di lavoro, oltre a ragioni anagrafiche o di invalidità permanente, siano contemplati anche i carichi familiari – un tempo attribuiti alle ‘vedove con figli minori’ – è questione lasciata volutamente non affrontata dal legislatore.
In tale scenario, l’obiettivo di questo articolo è ricostruire alcune delle rappresentazioni più diffuse dei poveri e della povertà, esplorando il nesso che si stabilisce tra queste e gli orientamenti di policy. Verranno dunque presentate tre rappresentazioni ideali che, richiamando il celebre titolo del film di Sergio Leone, abbiamo etichettato come ‘il buono, il brutto e il cattivo’, per poi analizzare come a ciascuna di esse corrispondano strategie di intervento differenti e come queste vengano vissute dai beneficiari delle politiche. Tali strategie impattano infatti profondamente sulle vite dei poveri, tanto da costituire, riprendendo la celebre espressione di Piven e Cloward (1971), forme di ‘regolazione dei poveri’ in quanto individui, piuttosto che della povertà come fenomeno. Per dare corpo al lavoro di analisi il contributo si avvarrà di una documentazione empirica eterogenea, raccolta nel corso di diverse ricerche sulle politiche di sostegno al reddito, realizzate nel contesto torinese a partire dal 2013 e attualmente in corso di svolgimento[1].
2. Le rappresentazioni dei poveri: tre modelli a confronto
Le rappresentazioni della povertà prendono forma nella sfera politica e in quella dei servizi per effetto di almeno due dinamiche, legate rispettivamente a fattori macro, quali le trasformazioni in atto in ambito socio-economico o il progresso della conoscenza sui processi di impoverimento, e a fattori micro, quali l’interazione diretta con i poveri beneficiari degli interventi. Tali rappresentazioni sono costruite a partire da due differenti dimensioni, che concorrono in egual misura alla costruzione di immagini spesso stereotipate: le cause della povertà e il comportamento dei poveri (Cozzarelli et al. 2001).
Il buono
La rappresentazione del povero ‘buono’, unico stereotipo positivo tra quelli analizzati, si regge su due tratti distintivi fondamentali, ovvero l’assenza di colpe per la propria condizione e l’atteggiamento positivo, riconoscente e ‘docile’ nei confronti dei servizi.
Rispetto al primo elemento, la costruzione di un’immagine dei poveri come soggetti incolpevoli della propria condizione ha comportato storicamente il superamento dell’idea della trasmissione intergenerazionale della ‘cultura della povertà’ (Lewis 1970, trad. it. 1973) e del carattere volontario della disoccupazione (Garraty 1979). A lungo infatti i poveri sono stati considerati responsabili della loro condizione in forza di atteggiamenti deresponsabilizzanti, negativi e fatalistici, e di una scarsa etica del lavoro, che li portano a processi che potremmo definire di auto-esclusione. Una variante di questa narrativa è il ‘familismo amorale’ di Banfield (1976), tematizzato oltre mezzo secolo fa, che attribuiva alle popolazioni delle aree più arretrate del Mezzogiorno l’incapacità di trascendere gli interessi ristretti del gruppo familiare di appartenenza e di promuovere processi di emancipazione politica e economica. Tutte queste interpretazioni, che abbiamo potuto richiamare solo in modo sintetico, sono accomunate dall’idea che i poveri, inseguendo obiettivi salariali e condizioni di lavoro irrealistici, adottando comportamenti poco parsimoniosi e disperdendo energie in attività senza sbocco, non siano in grado di cogliere le opportunità che si presentano loro. In tal modo essi restano intrappolati nella condizione di povertà e marginalità culturale trasmettendola alla generazione successiva imbevuta di queste diverse forme di ethos negative.
Questo approccio, nelle sue diverse declinazioni, ha dato vita a un immaginario che è stato spesso utilizzato nel discorso pubblico come esempio di ricorso ingiustificato ai programmi di aiuto ai poveri. Nel tempo, tuttavia, studi empirici hanno dimostrato l’inconsistenza di una simile posizione. Ne è un esempio lo studio su storie familiari condotto a Glasgow, colpita dalla deindustrializzazione già negli anni ’60, e a Middlesbrough, una delle cittadine più povere dell’Inghilterra a seguito del collasso dell’industria dell’area avvenuto negli anni ’80 (MacDonald et al. 2014; Shildrick et al. 2012). Tra gli aspetti messi in evidenza dalla ricerca vi è l’assenza di una trasmissione intergenerazionale della povertà mediante un sistema di valori: tutti i soggetti intervistati dai ricercatori esprimevano, invece, disagio per il fatto di dipendere dal sistema pubblico di welfare e si dichiaravano preoccupati che i figli potessero in futuro essere obbligati a fare altrettanto (MacDonald et al. 2014, 214). Scrivono a proposito gli autori: “Per essere chiari…la nostra è una ‘narrativa di deprivazione’, non una ‘narrativa di dipendenza dal welfare’” (ivi, p. 216). E aggiungono che “quando i politici e altri sostengono ad nauseam che vi sono ‘tre (o quattro) generazioni familiari nelle quali nessuno ha mai lavorato’ la sensazione è quella di avere a che fare con un’argomentazione zombie” (ivi, p. 217), cioè del tutto inesistente.
La presenza di ricerche simili ha senza dubbio contribuito a rafforzare l’idea che almeno una parte dei poveri non debba la propria condizione all’assenza di volontà, aprendo lo spazio alla creazione di immagini di poveri ‘buoni’. A rafforzare tali atteggiamenti positivi può avere avuto un ruolo anche la recente crisi economica. Seguendo Paugam (2013), infatti, è possibile affermare che la valutazione della condizione di povertà diventa più severa in situazioni di crescita, in cui la presenza di opportunità di lavoro induce le persone a pensare che chi non lavora lo faccia per pigrizia, mentre sia più comprensiva e tollerante in momenti di recessione, in cui è più facile pensare che la condizione di bisogno dipenda dall’assenza di lavoro.
Quest’ultima dinamica sembra trovare riscontro sul piano empirico in dichiarazioni come quella che segue di un’operatrice:
Adesso ai servizi arriva la classe media, che non esiste più, cioè arriva il povero lavoratore, cioè quello che lavora, lavora da solo con un nucleo familiare numeroso e con quel reddito non arriva non alla quarta, ma neanche alla terza settimana del mese, arriva un po’ questa fascia qui. Arriva anche il lavoratore, il disoccupato sì ma è un po’ più da cliché, in realtà oggi la povertà è talmente diffusa ed estesa che arrivano ai servizi sociali persone che una volta erano la classe media che riusciva a cavarsela (Operatrice sociale n. 3 – Servizi pubblici, 2014).
La dinamica rimanda a quella che Van Oorschot (2000) definisce la dimensione ‘identitaria’ nella costruzione dell’idea di meritevolezza dell’utenza delle politiche sociali, secondo cui tanto più i poveri assomigliano ai ricchi, o più semplicemente ‘a noi’, e tanto più saranno considerati meritevoli di aiuto. L’analisi empirica rivela però altri elementi alla base della costruzione della rappresentazione del povero buono, che appaiono se possibile ancora più rilevanti. Rimanendo nel solco dell’analisi di Van Oorschot, tali elementi rimandano alla dimensione dell’atteggiamento “delle persone nei confronti del sostegno ricevuto, la loro docilità o la gratitudine: più sono compiacenti, più sono meritevoli” (ivi, p. 36).
La rilevanza di questa dimensione appare evidente in molte delle interviste condotte con i responsabili dei servizi o delle associazioni del Terzo settore coinvolti nelle politiche, che identificano come buoni quegli utenti che mostravano di “avere gli occhi che sorridevano” oppure quelli che “sono disposti a fare di tutto per riacquistare la dignità”.
Una versione particolare del povero ‘buono’ è l’eroe, il povero, specie se immigrato, che contrariamente a ogni aspettativa, mette a repentaglio la sua vita per sventare una rapina o salvare un ragazzino in pericolo.
Il brutto
Se nella costruzione della rappresentazione del ‘buono’ sono centrali i comportamenti, l’immagine del ‘brutto’ affonda piuttosto le sue radici nei tratti estetici e identitari delle persone in condizione di deprivazione. In tal senso questa rappresentazione condivide con quella precedente la rilevanza assegnata alla dimensione identitaria, per riprendere nuovamente van Oorschot, che però agisce qui in senso inverso e assume un’importanza estrema. I poveri brutti sono, infatti, quelli che meno ci assomigliano e che con maggiore facilità tendono a rientrare nella categoria dell’‘altro’. Un’alterità da cui, storicamente, le società si sono difese non tanto attraverso l’integrazione, quanto piuttosto erigendo muri (de Leonardis 2013).
Nella costruzione di questa rappresentazione è cruciale l’immaginario dello squallore e del degrado connesso alla situazione di povertà, immaginario in cui riecheggiano le descrizioni di molti secoli orsono (Geremek 1988) o le narrazioni crude e realistiche di Orwell dei primi decenni del secolo scorso nel suo Down and Out in Paris and London (2001). Tali rappresentazioni hanno una natura profondamente ‘sensoriale’. A farla da padrone sono le immagini, gli odori e persino i rumori che suscitano disgusto in chi li guarda, un senso di repulsione che prescinde dall’attribuzione di colpe.
La volontà di nascondere i poveri agli occhi della società trova oggi un corrispettivo nel principio del ‘decoro urbano’. Se la povertà e la miseria sono profondamente cambiate nel tempo, sembra invariato l’effetto che queste suscitano nelle persone, che continuano a trovare la loro vista sgradita e non rassicurante. Esemplare a questo proposito è la riflessione di Bauman sui poveri, secondo cui:
…un tratto che li accomuna è la discriminazione di cui sono oggetto, in quanto gli altri li ritengono inutili e sono convinti che starebbero molto meglio se gente come loro non esistesse. Proprio per tale motivo finiscono rigettati. Sono in effetti un pugno nell’occhio in un paesaggio per altri versi gradevole, un’erba gramigna proliferante, che guasta l’armoniosa bellezza del giardino e sottrae linfa a tante altre piante. Se scomparissero, sarebbe un bene per tutti (2018, 105).
Nella pratica, l’etichetta del ‘brutto’ tende oggi a essere applicata al povero straniero e al senza dimora, categorie, appunto, per cui è massima la percezione di alterità e distanza. I secondi in particolare sono stati di recente oggetto di numerosi fatti di cronaca relativi a ‘sgomberi’ e rimozioni dei giacigli, giustificati con la minaccia al decoro ma talvolta anche alla salute pubblica. Vediamone alcuni esempi.
Un recente comunicato del Corpo di Polizia locale di Roma Capitale che dà conto del fatto che:
Un intervento mirato contro il degrado è stato effettuato dai nostri agenti […] con il supporto di due autocarri, un’idropulitrice mobile, una spazzatrice meccanizzata e sei operatori Ama. Si è proceduto all’identificazione dei senza fissa dimora presenti sotto i portici dell’uscita centrale della metro in piazza dei Cinquecento e sotto i portici di piazza della Repubblica, in via E. Orlando e nei Giardini di Dogali in via L. Einaudi. A tutti è stata offerta assistenza, ma hanno rifiutato e si sono allontanati. Tutti i siti, dopo la rimozione di rifiuti e masserizie, sono stati sanificati con il lavaggio e lo spargimento di enzimi[2].
Nell’ottobre 2018 diversi organi di stampa riportano che:
Il presidente del Municipio 2 di Milano, Samuele Piscina, ha fatto rimuovere una storica fontanella in un’area verde di Viale Monza, vicino alla sede di Pane Quotidiano, una istituzione che si occupa di offrire un pasto a chi ne ha bisogno, perché ormai utilizzata solo per abluzioni, docce e bidet, principalmente da parte di extracomunitari e senza fissa dimora. Il servizio era diventato inutile per i cittadini e uno spreco di risorse che portava ulteriore degrado nell’area[3].
Infine si può rimandare a una recente sentenza della Cassazione[4] che ha annullato la condanna al pagamento di 1.000 euro imposta dal Tribunale di Palermo a un senza dimora accusato di intralciare il passaggio e offendere il decoro pubblico.
Il cattivo
Lo stereotipo del cattivo rovescia, come prevedibile, l’immagine del povero buono tratteggiata poco sopra. Anche in questo caso si tratta di una rappresentazione costituita da più dimensioni, il cui tratto principale è la tendenza ad attribuire al povero lo status di deviante, con il carcere come probabile orizzonte, sulla base di una condizione (ad esempio la mancanza di lavoro) o di una identità (rom, immigrato). L’etichettamento come deviante ha dunque luogo a seguito ‘di ciò che si è’ piuttosto che dell’accertamento di un reato. L’identità di povero, o più in generale quella di ‘altro da noi’, diventa così un predittore di comportamenti antisociali, sulla scorta di una generalizzazione impropria e di una supposta cultura condivisa dell’illegalità. Come avremo modo di specificare meglio nel paragrafo che segue, il ‘cattivo’ inteso come deviante tende a uscire dall’orizzonte delle politiche sociali per diventare un ‘problema di sicurezza’. Se il povero ‘brutto’ è il povero che non si lava, che emana un cattivo odore, il povero ‘cattivo’ è quello che ha una propensione naturale alla devianza, connessa alla sua condizione.
Nella sfera delle politiche sociali, e più in generale dei servizi, tale rappresentazione ‘estrema’ appare meno frequente, e tende a lasciare il posto a immagini del ‘cattivo’ dai tratti meno marcati. I comportamenti immorali o illegali su cui si fonda sono piuttosto riconducibili alla pigrizia o alla disonestà, in particolare quella dimostrata dai poveri nella loro condizione di utenti.
Questo stereotipo del povero che vive alle spalle dell’assistenza pubblica, che spreca l’aiuto che gli viene dato, è oggi alla base di molte rappresentazioni mediatiche moralizzanti (Romano 2017). Il recente dibattito cresciuto attorno a quella categoria di programmi televisivi efficacemente etichettati come poverty porn ha poi fatto emergere come la pigrizia si accompagni sempre più spesso, nelle rappresentazioni, a comportamenti licenziosi e all’assenza di vergogna per la propria condizione di esclusione (Jensen 2014). La rappresentazione, tuttavia, non investe solo le persone in situazione di marginalità estrema: paradossalmente essa si estende anche a figure come quelle dei working poor, che pure dimostrano di essere inserite nel mondo del lavoro (Kim 1998).
Immagini simili sono molto diffuse anche nelle rappresentazioni dei servizi e della sfera delle politiche, come risulta dalla frequenza con cui ricorrono affermazioni come “parliamoci chiaro, in quella circoscrizione è pieno di gente pigra che non ha voglia di lavorare…” o ancora “…poi, se non hai voglia di lavorare, è inutile che tu venga qui a chiedere aiuto”. Al di là delle immagini generali, lo status di pigro sembra poi riverberarsi su una rappresentazione più ampia dell’autonomia, non esente da un riferimento, seppure velato, agli stereotipi di genere:
…abbiamo un caso dove uno non ha voglia di lavorare, sempre accompagnato dalla moglie… è strano perché di solito capita il contrario, anche culturalmente; se ti presenti al posto di lavoro accompagnato da tua moglie non troverai mai lavoro, l’autonomia la dimostri anche così, poi lui è sano… e sono pure giovani (Operatrice sociale n. 5 – Associazione del Terzo settore, 2014).
Oltre che alla pigrizia, un’altra immagine presente e persistente è quella che allude al comportamento disonesto o fraudolento, che consiste nel richiedere prestazioni cui non si ha diritto. Anche in questo caso non si tratta di una novità, dal momento che una simile rappresentazione ha storicamente accompagnato lo sviluppo delle politiche sociali ed è stata un cardine dell’attacco neoliberista al welfare, impersonata dall’immagine assai nota della welfare queen (Hancock 2004). Al di là delle grandi frodi, nella quotidianità dei servizi l’esempio più frequente di comportamento fraudolento è la presenza di lavoro nero, stigmatizzata non tanto come principio in sé quanto perché determina un’ingiustizia nei confronti dei ‘veri poveri’ o poveri meritevoli:
…nel marasma di persone che vengono c’è sempre anche il furbetto… e un po’ anche il menefreghista, o l’irresponsabile (Operatore sociale n. 6 – Servizi pubblici, 2014).
...parliamo in generale di livelli bassi, ma qualcuno ha meno bisogno di quello che sembra, perché ad esempio il marito lavora in nero, insomma, sei meno povero di uno che non ha niente (Assistente sociale n. 12 – Servizi pubblici, 2015).
Infine, è interessante notare come gli utenti ‘cattivi’ siano tali anche nella relazione con i servizi e siano spesso rappresentati arrabbiati in conseguenza della loro situazione cui non sono ancora abituati:
I nuovi poveri ci sono, e sono molto più incazzati dei poveri cronici (Policy maker n. 3, 2015).
C’è più malessere, c’è più aggressività, non solo arrivano più persone, arrivano più persone arrabbiate, arrivano persone che hanno superato una sorta di livello di guardia, perché poi questi meccanismi qui impoveriscono, deprivano, incattiviscono e quindi di fatto rendono questi nuclei molto aggressivi, aumentano le segnalazioni di donne maltrattate, di bambini maltrattati (Funzionaria Servizi pubblici n. 1, 2014).
3. Le politiche e gli interventi: approcci e orientamenti
Alle rappresentazioni dei poveri descritte nel paragrafo precedente corrispondono, sebbene non sempre in maniera univoca, orientamenti diversi da parte delle politiche e dei servizi che possono essere ricondotti a quattro grandi categorie (Morlicchio 2016). Tre di questi, vale a dire l’orientamento repressivo, quello paternalistico e compassionevole e quello infantilizzante e pedagogico, sono accomunati, pur nelle differenze, dalla presenza di una sorta di riconoscimento e di legame tra politiche e poveri. Il quarto orientamento, centrato sulla dislocazione e immunizzazione, appare invece costruito proprio sulla negazione di tale legame (ibidem).
I buoni: tra compassione e paternalismo
La categoria dei buoni, che non costituisce una minaccia, è spesso oggetto di un orientamento compassionevole, incarnato da approcci neofilantropici e neopaternalistici come l’‘economia del dono’, che inducono una sorta di infantilizzazione del povero, visto come una persona fragile da proteggere, del tutto priva di risorse personali e incapace di promuovere un’azione collettiva. Essi nel complesso presentano tre caratteristiche:
a) le scelte di giustizia vengono giustificate con il vocabolario dell’impegno morale e della coscienza personale, non con quello della giustizia sociale; b) le relazioni di servizio si configurano come relazioni tra persone, da cui sono espunti l’asimmetria di potere e l’onore della sua giustificazione pubblica; c) le prestazioni erogate vengono trattate […] come doni, non come diritti (de Leonardis e Bifulco 2005, 209).
Alla base di una relazione di tipo paternalistico, per definizione asimmetrica, vi è il presupposto che una delle due parti manchi della capacità di sapere cosa è meglio per sé e della disciplina necessaria per agire secondo tali principi (Mead 1997). In questo senso la ‘parte forte’ della relazione è autorizzata a modellare il comportamento altrui per evitare conseguenze negative sulla vita del soggetto incapace di riconoscere il proprio bene.
Ciò che è interessante notare, tuttavia, è che il neopaternalismo non intende negare, in linea di principio, la libertà individuale. Al contrario, si regge sull’idea che la libertà sia “una pratica che richiede disciplina interiore” e che “quanti falliscono nell’ottenerla vadano educati ad essa” (Segal 2006, 327). La coercizione dunque, laddove necessaria, è giustificata dal presupposto secondo cui i doveri costituiscono una precondizione per un corretto esercizio della libertà[5].
In questa chiave è possibile leggere anche l’introduzione di un obbligo ad ‘attivarsi’ sul mercato del lavoro a seconda delle formulazioni che vanno da quella più restrittiva del workfare, che subordina la prestazione monetaria all’accettazione del lavoro offerto, a quella più attenuata del welfare to work che prevede maggiori margini di autonomia nella scelta dei percorsi di inserimento professionale e sociale da intraprendere.
Ciò che è escluso dall’orizzonte di entrambi gli approcci, quello neofilantropico e quello dell’attivazione, in tal senso speculari, è la voglia di riscatto di chi si trova per qualche ragione a toccare il fondo.
Nella definizione delle politiche, e nella pratica dei servizi, questo orientamento risulta essere estremamente diffuso, e si manifesta principalmente attraverso riferimenti alla dimensione educativa e dell’apprendimento di competenze di base:
Stando qui qualcuno ha imparato a lavorare; ad esempio rispettano gli orari, usano il pc, imparano come si risponde al telefono… e noi ne abbiamo parecchi di questi (Operatrice sociale n. 9 – Associazione di volontariato, 2015).
Un ulteriore esempio di un simile approccio sono senza dubbio i corsi di educazione finanziaria, sempre più diffusi tra le politiche di attivazione intese in senso esteso e non solo come attivazione lavorativa. In questi corsi si insegna ai beneficiari l’uso del denaro attraverso strumenti come il bilancio familiare, incentivando un atteggiamento ‘responsabile’ e accorto, che consiste principalmente nell’attuare pratiche di risparmio in vista di possibili emergenze e nell’adesione al modello del ‘buon pagatore’. Tali pratiche non appaiono tanto finalizzate all’uscita dalla povertà, ma piuttosto a una sua gestione considerata ‘migliore’ secondo principi diffusi ma non per forza condivisi dai poveri. L’atteggiamento infantilizzante sembra spesso ignorare un bisogno che invece emerge con chiarezza dall’osservazione, ovvero che i poveri necessitano di maggiori risorse e non di maggiori capacità di gestire le poche a loro disposizione. Il modello paternalista e pedagogico emerge qui con chiarezza: i ‘buoni’ non usano male le loro risorse per una mancanza di principi o moralità, ma per l’assenza di competenze e per difficoltà legate al contesto.
In maniera analoga può essere letta anche l’introduzione dei trasferimenti a mezzo di una carta prepagata, che limitano la spesa al solo acquisto di generi di prima necessità, o l’introduzione del principio di condizionalità nei percorsi di attivazione, l’adesione ai quali è condizione necessaria per ricevere il sussidio economico. Entrambi gli orientamenti di policy possono, infatti, rientrare nella concezione di quelle costrizioni necessarie che sono alla base del paternalismo.
I brutti: tra dislocazione e immunizzazione
Negli approcci che abbiamo appena richiamato (e che ritroveremo a breve a proposito dei ‘cattivi’) echeggiano sentimenti collettivi molto diversi che vanno dal senso di colpa verso chi è stato più sfortunato alla preoccupazione per un indebolimento dell’etica del lavoro. Ma essi si inseriscono nel quadro di un sistema di obblighi e dipendenze reciproche che suscitano a loro volta nei poveri sentimenti diversi, talvolta contrastanti, di vergogna, riconoscenza o ribellione, ma non di estraneità nei confronti di una collettività della quale si sentono a vario titolo parte, anche se occupano una posizione marginale.
La rappresentazione del ‘brutto’ rimanda invece a un orientamento che mostra tratti di maggiore novità: la tendenza alla immunizzazione sotto la spinta di processi che Saskia Sassen (2015) definisce senza mezzi termini di ‘espulsione’ dallo spazio vitale e dall’accesso ai mezzi di sussistenza. Gli esempi sono molteplici: sistemi di cancelli e fili spinati a difesa dei confini tra gli Stati; ‘quartieri privati’ (gated community), cioè complessi residenziali a ingresso limitato recintati e protetti da sistemi di sorveglianza; relegazione nei campi profughi e nei centri di raccolta dei richiedenti asilo nelle loro diverse configurazioni. Come scrive Ota de Leonardis:
…tra i fortini del privilegio e gli altrove abitati da popolazioni deprivate la distanza sociale non è soltanto incolmabile (vedi la polarizzazione delle disuguaglianze) ma è soprattutto incommensurabile... la distanza diventa un vuoto nel quale scompaiono i legami sociali, i legami di determinazione reciproca tra ‘noi e loro’, la possibilità stessa di riconoscersi e nominarsi, e di qualificare la contrapposizione tra noi e loro. L‘alterità così costruita è fatta piuttosto di assenza, assenza di nomi; designa una situazione di «non identificazione» di «riconoscimento negato» (2013, 366).
Premettendo che ciò che viene messo in scena è ‘l’ordine della repulsione, più che dell’esclusione’ (ivi, p. 363), un esito possibile di questi processi è la scissione unilaterale del contratto sociale sul quale si fonda la posizione sociale del povero. Questi infatti, secondo la lezione di Georg Simmel, è riconosciuto come tale nel momento in cui la società si fa carico del suo mantenimento mediante i sistemi di assistenza sociale (Simmel 2001; si veda anche Paugam 2013).
Esempi attuali di tale orientamento si ritrovano più spesso nella cronaca che nella pratica delle politiche sociali, dal momento che, come detto sopra, proprio l’esclusione dal sistema dei servizi è il tratto che li caratterizza. Emblematiche a questo proposito sono le politiche improntate al tema del ‘decoro’, concetto spesso utilizzato in modo strumentale (Pitch 2013) attraverso cui meccanismi di dislocazione o espulsione di soggetti sgraditi vengono attuati e legittimati (Gargiulo 2017; 2018).
Caso emblematico sono gli ‘sgomberi’ dei giacigli dei senza dimora, tristemente riportati dalla cronaca in città come Torino, Roma e recentemente Trieste, in cui nel nome della decenza degli spazi pubblici le persone vengono allontanate e private dei loro averi.
Ma l’esclusione dallo spazio urbano si manifesta con forza anche nel caso dei migranti, e si gioca non solo a livello nazionale con le politiche di controllo dei flussi migratori, ma anche e molto spesso a livello locale attraverso strumenti di controllo dell’accesso alla residenza, spesso gestiti a mezzo di ordinanze (Gargiulo 2012).
Il confronto con i servizi suggerisce poi che i meccanismi di controllo e allontanamento vengono attuati anche a fronte del rifiuto di entrare nel circuito dei servizi stessi, mostrando scarsa docilità e assenza di volontà di cambiare la propria condizione. Lo stralcio che segue, tratto da un’intervista a un’assistente sociale, mette in evidenza l’atteggiamento dell’autorità pubblica nei confronti dei senza dimora che rifiutano di volere cambiare il proprio stile di vita:
...o entri nel circuito, o mi dichiari dove dormi oppure si apre uno scenario incredibile… e qui sto zitta che è meglio… ma vi dico solo che a me hanno chiesto di mandare il vigile a controllare su quale panchina dormivano (Assistente sociale n. 13 – Servizi pubblici, 2015).
I cattivi: tra punizione e disciplina
Lo stereotipo del cattivo si accompagna spesso a orientamenti punitivi e colpevolizzanti che si manifestano nella tendenza a reprimere con forza la criminalità di sussistenza (piccoli furti nei supermercati o nei frutteti, occupazione abusiva di edifici abbandonati) o a compiere forme di vessazione dei poveri negli spazi pubblici.
Nel concepire interventi repressivi sulla base dell’identità piuttosto che del comportamento, scrive il giurista Luigi Ferrajoli, ha luogo una violazione del “principio di legalità in forza del quale si può essere puniti solo per ‘ciò che si è fatto’ e non per ‘ciò che si è’”, per aver commesso un reato e non per la propria identità personale (2009, 14). Questa forma di soggettivazione del diritto penale ha prodotto il fenomeno della ‘ipercarcerazione dei poveri’, particolarmente evidente negli Stati Uniti dove si registra una presenza di giovani maschi, per lo più afroamericani, nelle carceri di molto superiore alla loro incidenza nella popolazione (Wacquant 2009).
In questo scenario i poveri cessano di essere oggetto di politiche sociali per entrare nella sfera delle politiche per la sicurezza. Accanto a questo modello, tuttavia, esistono forme di disciplinamento che possono in qualche modo essere considerate sostitutive di quelle ‘punitive’, cui fa riferimento Wacquant, e che si dimostrano in molti casi anche più efficaci nel garantire il controllo sociale (Soss Fording e Schram 2011). Una di queste è lo sfratto, una pratica di messa al bando dei poveri che negli Stati Uniti riguarda numeri ragguardevoli di famiglie, come mostra una ricerca etnografica condotta a Milwaukee da Desmond (2017). Gli sfratti sono l’altra faccia dell’incarcerazione di massa: se gli uomini neri poveri sono “rinchiusi”, dice non a caso una donna intervistata, le donne sono più spesso “chiuse fuori”[6]. Essi rendono i poveri ancora più poveri, poiché durante i trasferimenti vengono smarriti o danneggiati oggetti. I figli cambiano scuola, amici, non possono portare con sé animali domestici o oggetti ingombranti ai quali sono affezionati, devono fare i conti con la stanchezza e lo sconforto dei genitori sviluppando comportamenti violenti o autodistruttivi. Gli avvisi del sistema di welfare vengono recapitati all’indirizzo sbagliato, si rompono legami comunitari e di vicinato, una parte così importante nelle strategie di sopravvivenza dei poveri.
Talvolta sono le stesse pratiche che abbiamo passato in rassegna a proposito degli approcci paternalistici e infantilizzanti, come le limitazioni alla spesa o l’obbligo di adesione ai percorsi di attivazione, che si trasformano all’occorrenza in strumenti di controllo, punizione e disciplinamento.
Rispetto all’uso della carta prepagata, ad esempio, diversi tra operatori e policy maker richiedono maggiori controlli per chi si sottrae all’utilizzo previsto, cercando attraverso pratiche come il baratto di avere denaro contante: “tanto i disonesti riescono a tramutarla in soldi, per quelli onesti invece va bene”.
Quando si guarda ai cattivi, la carta e i consumi ‘da povero’ divengono poi strumento attraverso cui vengono messe in atto dinamiche squalificanti e di shaming (Walker 2014), che servono a riaffermare gerarchie di potere e differenze nei comportamenti ammessi tra ‘chi ha’ e ‘chi non ha’.
Il controllo e la disciplina prendono poi forma spesso nella pratica quotidiana dei servizi, agevolate dall’asimmetria di potere che la relazione ‘burocratica’, oltre a quella di ‘presa in carico’, porta con sé (Dubois 2018). Nel caso dei cattivi, tale relazione serve a prevenire eventuali frodi, ma dà spesso origine a corto circuiti che non sfuggono anche agli operatori stessi, rasentando talvolta il paradosso:
…c’era un nucleo con dei ragazzi giovani che ovviamente si sono iscritti a tutte le agenzie interinali ecc. ecc., lasciando il loro cellulare, poi sono arrivati a chiedere l’assistenza e noi gli abbiamo fatto tagliare la tessera SIM perché comunque devono averne solo uno, che era l’unico motivo ostativo che c’era… allora così è anacronistico! È arrivata la mia collega dicendo: dimmi te come facciamo, questi hanno lasciato tutti il loro cellulare alle agenzie e noi gli diciamo però ‘rinuncia al cellulare’ con tanto di autodichiarazione che han tagliato le tessere e che dei tre cellulari ne hanno solo uno (Assistente sociale n. 6 – Servizi pubblici, 2014).
Ma il terreno in cui meglio si coglie la dimensione punitiva è senza dubbio quello della condizionalità nelle politiche di attivazione, strumento attraverso cui regolare l’accesso ai servizi sulla base del merito, punendo i furbi e gli svogliati:
La gente deve accedere al reddito e seguire meritoriamente i corsi. E se non li segui… via. Fuori… per sempre, per sempre, e non vent’anni di sussidio. Social card via, sussidio via, tutto via… seriamente controllati e… lavorare! (Assistente sociale n. 7 – Servizi pubblici, 2015).
4. I vissuti dei poveri tra resistenza e stigma
In ultimo le riflessioni proposte in queste pagine prendono in considerazione i vissuti dei destinatari degli orientamenti di policy analizzati, dunque dei beneficiari delle misure di sostegno al reddito di cui si è detto. Riprendendo la prospettiva analitica di Paugam (2013), sulla scia di Simmel (2001), attenta alla costruzione sociale della povertà in base ai meccanismi della sua gestione istituzionale e alle specifiche relazioni di interdipendenza tra la società e i suoi poveri, è importante prendere in esame le esperienze soggettive dei poveri stessi, ai fini della comprensione della portata delle rappresentazioni e degli orientamenti sottesi alle forme di trattamento adottate nei loro confronti.
In base alla documentazione empirica acquisita nel corso delle ricerche svolte nel contesto torinese sull’implementazione prima della Carta Acquisti Sperimentale e successivamente del Reddito di Inclusione, ci soffermiamo su alcuni aspetti particolarmente significativi. Il primo riguarda le modalità di erogazione del sostegno economico, ovvero l’assegnazione di una carta di pagamento elettronico in luogo del trasferimento di denaro contante[7].
La scelta di questo dispositivo assume per i beneficiari connotazioni che meritano di essere oggetto di attenzione: dalle parole della gran parte degli intervistati si evincono sentimenti di vergogna, percezioni di inadeguatezza, vissuti di stigmatizzazione. Nel caso della misura sperimentale, la mancata definizione puntuale delle categorie merceologiche consentite si è spesso tradotta nella discrezionalità della cassiera del supermercato, che talvolta non ha accettato alcuni acquisti ritenendoli non consoni a uno stile di vita da povero, basato sul soddisfacimento di bisogni primari.
L’altro giorno al Carrefour ho avuto una discussione ma perché questa qua (la commessa) veramente... allora c’è scritto, poi io mi sono anche informata su Internet e ho chiesto all‘assistente sociale “dove posso usarla?”. Perché io mi vergogno a tirarla fuori, infatti la do sempre al mio fidanzato e gli dico metti il codice. Vado allo stesso supermercato dove andavo sempre e questa qua mi dice: “la social serve solo per le cose primarie”, ... c’era latte, pane, proprio cose primarie e poi c’erano le crocchette del cane [lo sottolinea con la voce]. E questa mi fa: “le crocchette del cane non passano”. Ed è proprio per come l’ha detto, perché poi ti guardano dalla testa ai piedi... Le dico: “scusa ma tu chi sei per dire che le crocchette non passano?” E lei mi dice: “intanto lei chi è?”, “Io sono l’intestataria e ti dico che queste passano, poi se vogliamo fare una discussione per 4 euro la facciamo, però ti dico che dovrebbe passare tutta la spesa, non è che io ho comprato un cellulare, un televisore, quella me l’hanno data e tu non sei né della Finanza, né del servizio sociale...”. Comunque abbiamo chiamato la responsabile che ha detto che lei sapeva che la social card la danno ai bambini e ai vecchietti... Stiamo dando di matto, le ho detto: “vada su Google e vedrà che non è la stessa cosa di cui stiamo parlando... ma poi a te cosa te ne frega?” Se l’è presa sul personale e alla fine le crocchette non me le ha passate e il mio fidanzato le ha detto che non saremmo più venuti (Beneficiaria di sostegno al reddito n. 4, 2015).
L’esempio citato relativo all’acquisto di crocchette per il cane, considerato dagli operatori sociali e dalla commessa una forma di spreco, fa venire in mente un episodio riportato nella già citata ricerca di Desmond (2017) e cioè l’acquisto occasionale da parte di una donna di una aragosta e di una torta meringata al limone con il quale esaurisce in una volta sola la dotazione di buoni pasto mensile. Desmond mostra come un comportamento che farebbe della donna una perfetta welfare queen, una delle figure più stigmatizzate dai censori degli spreconi del welfare, ha una sua intrinseca razionalità se riportata a una esperienza quotidiana di precarietà abitativa e di privazioni economiche in quanto contribuisce a mantenere l’integrità dell’io in una personalità borderline. Prescindendo da questo caso limite, è indubbio che il possesso di un cellulare o di un animale domestico possono svolgere una importante funzione di rassicurazione in condizioni difficili.
Vincoli all’uso della carta, soltanto nella grande distribuzione abilitata al circuito Mastercard e per la spesa alimentare, sono vissuti da molti come una pesante riduzione della propria agency. Chi tra i beneficiari percepiva già una prestazione di assistenza economica paragona la carta al sussidio comunale, evidenziando che avrebbe preferito i soldi in contanti “perché con la carta hai delle limitazioni e ti senti anche un po’ inferiore” (Beneficiario di sostegno al reddito n. 7, 2014).
Restrizioni nelle modalità di impiego hanno insinuato nei titolari della carta il sospetto di essere considerati, in quanto poveri, non responsabili nell’uso del denaro e dunque individui da sottoporre a qualche forma di controllo. Senso di inferiorità e percezione di inadeguatezza sono alcuni dei tratti che, facendo nostra la prospettiva di Simmel e di Paugam, risultano connotare lo stato squalificato del povero assistito.
L’incredulità alla scoperta dell’impossibilità di utilizzare la carta, per esempio, per acquistare i libri di scuola per i figli, pagare la retta della mensa scolastica o l’abbonamento mensile ai trasporti pubblici, è manifestata da diversi intervistati.
Ci sono spese importanti per la vita sociale della bambina, non hai liquidi e devi pagare la gita della scuola, non posso e cosa dico? Ti pago con la social card? Non si può… non posso fargliela mancare perché si sente in differenza, dice “mia mamma non mi fa andare mentre tutti gli altri vanno” (Beneficiaria di sostegno al reddito n. 11, 2015).
Avevo preso delle costruzioni che secondo me sono importanti, una neonata di un anno è giusto che abbia le costruzioni per imparare … e su quelle alla cassa mi hanno fatto il muso… Sai il Lego? Io penso che non è un vizio, penso che è un gioco educativo (Beneficiaria di sostegno al reddito n. 3, 2014).
L’abilitazione da parte dei policy maker di alcune spese e non di altre implica la definizione di scelte di consumo considerate legittime e socialmente attese, stabilisce gerarchie di importanza tra gli stili di vita e confina i poveri all’ambito della mera sopravvivenza. “Il problema più grosso di questa carta è che devi spendere, fare sempre la spesa, anche senza motivo”. Diversi intervistati avvertono che è messo a repentaglio il riconoscimento della loro capacità di stabilire le proprie esigenze e anche di ‘negoziare la necessità’, se per necessità si intende la sopravvivenza materiale (Bergamaschi e Musarò 2011). I nuclei familiari avvicinati nella ricerca si differenziano tra loro anche in base alla loro distanza dalla necessità. I loro comportamenti di consumo sono pratiche dotate di senso e i bisogni che molti hanno dichiarato di voler soddisfare sono di natura espressiva.
Tuttavia, se alcuni lamentano di essere costretti a dedicare all’acquisto di cibo più di quanto vorrebbero, a conferma del fatto che i poveri non costituiscono affatto una categoria omogenea di persone, altri intervistati si sono espressi, invece, a favore della carta prepagata.
Secondo me è meglio così, perché se uno può prelevare i soldi in mano li spende diversamente, almeno sai che quelli sono per la spesa e li spendi per la spesa, perché i soldi fanno venire la vista ai ciechi, specialmente in questo momento… (Beneficiario di sostegno al reddito n. 12, 2015).
I liquidi si possono gestire anche in modo sbagliato, perché se hai delle necessità primarie l’aiuto che ricevi è per quelle, per i bisogni primari, e non per andarti a comperare un televisore o un cellulare (Beneficiario di sostegno al reddito n. 8, 2014).
Comunque adesso con la carta compro cose che prima non compravo, diciamo che non facevo la spesa tanto spesso! Prima comperavo solo pane, pasta e sugo (per dare priorità al pagamento delle utenze, percepite come spese fisse) (Beneficiaria di sostegno al reddito n. 2, 2014).
Quanto le parole di questi ultimi risentano dei discorsi praticati da operatori sociali e volontari e siano motivate dall’intento di mostrarsi riconoscenti e buoni utenti, non è dato sapere. Di certo, i nuclei familiari intercettati si rivelano attori capaci di mettere in atto strategie adattive per soddisfare bisogni anche simbolici e affermare la loro identità sociale, per esempio aggirando i vincoli imposti dalla carta con il ricorso al baratto (“io ti pago la bolletta e tu mi dai contanti”, “andiamo insieme al supermercato, io pago la spesa con la carta e tu mi dai i soldi (…) per esempio posso comprare un gelato all’uscita da scuola a mio figlio e al suo amico”).
La seconda questione emersa dalle interviste come particolarmente rilevante concerne i cosiddetti progetti di inclusione attiva previsti a integrazione del sostegno economico. È nella condizionalità che emerge con particolare evidenza il lato pedagogico e moralizzante dell’attivazione. Tra i beneficiari, chi possedeva capacità di agency e capitale umano non ha visto di buon grado il fatto di essere inserito in progetti obbligatori, percepiti come un vincolo e un impedimento alla realizzazione delle proprie strategie di uscita dalla povertà, mantenendo la famiglia con un lavoro in nero. Al contrario, altri soggetti intervistati hanno mostrato di concepire i progetti come viatico per trovare un’occupazione e hanno sperimentato vissuti di frustrazione per non essere stati assegnati a progetti che potessero trasformarsi in un impiego stabile: in questi casi è sfuggito loro il potenziale di risorse di riconoscimento e di socialità messe in campo con i progetti erogati, per fare un esempio quelli di lavoro accessorio.
E poi mi dicono “tu non hai portato a termine il progetto, il lavoro e quello che dovevi imparare”. Che dovevo imparare? Io ho scaricato le mele, mi hanno insegnato a mettere due punti su una tovaglietta che oltretutto non è nemmeno piaciuta e l’hanno pure buttata… ho fatto quello che c’era da fare. Mica mi hanno insegnato a usare un computer o a fare la segretaria, mi hanno fatto fare quello che c’era da fare, ho scaricato un camion di frutta e fatto le scatole delle persone che vengono all’ente a portare la roba che non mettono più, ho selezionato la roba, messa negli scatoloni per le eventuali famiglie che ne hanno bisogno (Beneficiaria di sostegno al reddito n. 13, 2015).
È infine emerso il nodo dei cosiddetti ‘non attivabili’, ovvero di chi, per problemi di varia natura, non è possibile coinvolgere in azioni di inserimento lavorativo e rischia una crescente marginalizzazione nel sistema attuale delle politiche, alla luce dell’evoluzione recente dei modelli di intervento.
Sono invalida al 50% per ernia del disco, che quando si schiaccia mi dà dolore alla gamba destra, e loro hanno pensato bene di mandarmi a fare le pulizie! Poi abbiamo preparato cento e passa buste con trenta mele l’una per le borse di alimenti per le persone che le vanno a prendere, ho sopportato, sono abituata a sopportare il peggio, ma una volta ho detto “non riesco con le mele per ’sta schiena, io ho problemi di salute”, ma se lo dici non lavori più… (Beneficiaria di sostegno al reddito n. 5, 2014).
Nell’ambito dei progetti di attivazione, i corsi di alfabetizzazione finanziaria rappresentano un esempio particolarmente emblematico di un approccio che i destinatari hanno percepito come fortemente svalutante. Gestiti da associazioni del Terzo settore e presentati come opportunità di apprendimento di una maggiore consapevolezza nelle scelte di gestione del budget familiare, di risparmio e utilizzo del denaro, hanno richiesto ai titolari della Carta acquisti sperimentale la partecipazione a una serie di incontri periodici, condotti con l’aiuto di esperti esterni provenienti dal mondo bancario.
Strumenti come i bilanci familiari e retoriche proprie del frame dell’asset building sono stati mal recepiti dai partecipanti, molti dei quali hanno vissuto gli incontri all’insegna della disapprovazione morale e del controllo sociale. La contrapposizione tra un sapere esperto normativo e performante e le pratiche quotidiane di consumo e di gestione delle risorse familiari da parte di nuclei in condizioni di gravi ristrettezze economiche è risultata motivo di sentimenti diversi, talvolta contrastanti o altalenanti. Alcuni partecipanti hanno manifestato sentimenti di insofferenza, talvolta di ribellione, a fronte della percezione dell’assunzione implicita da parte dei formatori che, in quanto poveri, essi fossero incompetenti dal punto di vista finanziario e, al tempo stesso, che dovessero essere educati a fare propria l’obbligazione morale a essere dei ‘buoni’ pagatori, come si confà ai ‘bravi cittadini’. Se chi ha condotto il corso ha rimandato l’idea che sia in ogni caso un dovere pagare e assolvere a tutti i propri impegni finanziari, diversi destinatari degli incontri si sono, invece, rivelati abituati a pagare quel che possono in funzione di una propria valutazione di priorità, contemplando anche l’opzione di non pagare in caso di mancata disponibilità. I metodi di tenuta dei conti e gestione del rischio messi in atto dai poveri sono risultati rispondere a logiche differenti da quelle proposte e presupposte dai formatori.
Alla presentazione del corso e all’annuncio che alcuni incontri sarebbero stati dedicati ai ‘bilanci familiari’, Giuseppe risponde con toni accesi: “impariamo a gestire i soldi che non abbiamo!”. Irina ribatte: “a gestire anche quelli che non ci sono? (ridendo)… (ndr. continua Irina) Io ho fatto finanza e contabilità, le so gestire le cose, sono stata manager le so gestire le cose! eh (ride), io non ho la pazienza di scrivere, rimane tutto qua (ndr. in testa), se poi le scrivo le dimentico da qualche parte (…) è tutto in testa, sì è tutto organizzato per forza, è quello che hai, cerchi di gestire tutto, specialmente di mangiare cerchi di fare più piatti… che so, di un pollo fai più piatti, e così fai con tutto” (Beneficiaria di sostegno al reddito n. 4, 2014).
Io la prima cosa che faccio è togliere i soldi dell’affitto, della luce e del gas, con quello che mi rimane vado a fare la spesa e conto i biscotti che ci sono in una scatola. Sì, se compro una confezione di biscotti conto quanti biscotti ci sono e li divido per tutto il mese, a volte ai figli ne spetta uno, a volta due, se siamo rimasti alla fine faccio metà… Siamo ridotti così purtroppo, quindi vado al minimo, per me anche il centesimo è tantissimo. … Io quello che non pago è la spazzatura perché tanto non ho la macchina… perché se ce l’hai ti fanno il fermo amministrativo… (Beneficiaria di sostegno al reddito n. 9, 2014).
Gli atteggiamenti dei formatori, talora paternalistici e talora colpevolizzanti, hanno suscitato in altri partecipanti sentimenti di vergogna, oltre che di inadeguatezza (“ah sì, io sono un mal-pagatore? ho avuto problemi che non ho potuto pagare!”, “non sono una spendacciona, lo so quando devo pagare una bolletta, io sono una che si accontenta”, “non è che perché ho la Carta ora che compro cose di marca, no, compro sempre le cose più economiche”). In particolare, la premura di illustrare in dettaglio le varie modalità di risparmio e strategie di ottimizzazione delle scelte di acquisto è stata per i beneficiari della Carta motivo di frustrazione. I poveri hanno reagito rivendicando in più occasioni il fatto di mettere già in atto quotidianamente strategie di gestione delle poche entrate a disposizione e di non avere margini di risparmio. Piuttosto, hanno rivendicato l’esigenza di aumentare le loro risorse economiche familiari con il reperimento di un lavoro.
Emerge ancora una volta l’infantilizzazione dei poveri di cui si è detto e, al tempo stesso, la natura disciplinante dell’intervento erogato, basata sull’assunzione che si tratti di individui privi di risorse personali e di competenze, e dunque vadano ‘educati’. Carenze informative e assenza di linee guida all’uso della carta prepagata spiegano, invece, perché lo scambio di informazioni tra i beneficiari abbia talvolta rappresentato il loro principale motivo di apprezzamento degli incontri.
5. Conclusioni
La nostra riflessione ha cercato di illustrare le costruzioni più frequenti nel discorso pubblico sui poveri e il modo in cui esse orientano le politiche e le forme di intervento fornendo le basi per la loro legittimazione sociale, individuando tre forme di categorizzazione: il povero ‘buono’, quello ‘brutto’ e quello ‘cattivo’. A ciascuna di queste rappresentazioni abbiamo associato orientamenti diversi rinvenibili nelle politiche sociali, talvolta non escludentesi.
Il problema principale in tema di povertà resta senza dubbio quello di una più equa redistribuzione delle risorse economiche e della garanzia di un’esistenza minimanente dignitosa. Nella fase attuale, tuttavia, e in particolar modo in Italia, dove la questione della povertà, a lungo negletta, è divenuta terreno di scontro politico, è necessario prendere atto dell’importanza anche del ‘riconoscimento’ e del lavoro di aggregazione e di rappresentazione. È indubbio infatti che sia in gioco anche il diritto di ‘voce’ nel senso che Hirschman (1982) dà alla possibilità di mobilitarsi, protestare, farsi sentire. E anche se come osserva ironicamente Ruth Lister “Proud to be poor non è esattamente lo striscione dietro al quale molti probabilmente marcerebbero” (2004, 152), è necessario trovare nuove e più efficaci forme di rappresentanza per dare voce ai ‘non rappresentati e non rappresentabili’ (Beccalli et al. 2015). Ciò implica un’attenzione anche a un ambito in genere meno frequentato dai sociologi della povertà, e cioè lo spazio dei mass media, che costituisce ormai sempre più frequentemente il contesto nel quale si costruiscono e rafforzano rappresentazioni stereotipate dei poveri che alimentano forme di ‘aporofobia’ (Cortina 2017), di paura, ripugnanza e ostilità verso i poveri o alimentano aspettative irrealistiche nei confronti delle famiglie povere alle quali si chiede, più che ad altre, di aderire a modelli di comportamenti ritenuti virtuosi.
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