SINAPPSI

2018/3

Le politiche di reddito minimo in Europa: un cambio paradigmatico verso una nuova convergenza?


Negli ultimi anni il dibattito sul modello sociale europeo e sulle politiche di welfare nei Paesi dell’UE è stato influenzato da molti fattori, come l’avvento della crisi economica, la crisi di rappresentanza attraversata dalle istituzioni europee e infine l’affermarsi di politiche dell’attivazione e orientate al paradigma dell’investimento sociale. Per far fronte a tale mutato contesto, da un lato sono emerse nuove politiche sociali e dall’altro alcune politiche tradizionali hanno cambiato impostazione e caratteristiche. Nel presente articolo si illustra cosa è accaduto da questo punto di vista alle politiche di reddito minimo (RM) europee, se siano state influenzate in modo significativo da questa variazione di scenario ed eventualmente se tale modifica sia avvenuta in modo omogeneo, o piuttosto in modo differenziato tra singoli Paesi. Siamo di fronte a piccoli aggiustamenti, o a un cambio paradigmatico di tali politiche?

In recent years the debate on European social model and welfare policies in the EU has been influenced by several factors, such as the economic crisis, the political crisis of EU institutions, the advent of activation policies and the social investment paradigm. To meet these changes new social policies have emerged and existing social policies have been revised. What has been the effect of such changes on minimum income policies? Have they changed paradigmatically, or only to a small extent? And have the changes been homogeneous across EU member States?

Introduzione

Negli ultimi anni il dibattito intorno al modello sociale europeo e alle politiche di welfare nei Paesi dell’UE è stato influenzato da vari fattori concorrenti: innanzitutto nell’ultimo decennio l’avvento della crisi economica ha peggiorato i livelli di povertà e disoccupazione nell’Unione europea, modificando le priorità dell’agenda in termini di politiche sociali (Hemerijck 2012). In secondo luogo, la crisi di rappresentanza politica che le istituzioni europee stanno attraversando ha senza dubbio condizionato l’attenzione attorno alla cosiddetta ‘Europa politica’ in generale e al Social Pillar in particolare (Vesan e Corti 2018). Infine il cosiddetto paradigma dell’attivazione[1] ha inciso sulla trasformazione delle politiche di welfare europee ormai da alcuni decenni, a partire dal Consiglio europeo di Lisbona in cui venne lanciato (Esping-Andersen 2002). Più recentemente si è assistito a un’ulteriore declinazione di tale visione di politica pubblica, in particolare con la teorizzazione del Social Investment Paradigm (Hemerijck 2017; 2018), che ha ulteriormente spinto in avanti questa impostazione: in estrema sintesi, secondo tale paradigma, infatti, la spesa in welfare andrebbe principalmente vista come un investimento a lungo termine per accrescere lo sviluppo economico e sociale.

In tale processo di trasformazione del modello di welfare europeo, da un lato sono emerse nuove politiche sociali e dall’altro alcune politiche tradizionali hanno mutato impostazione e caratteristiche, per far fronte al nuovo contesto.

Che cosa è accaduto da questo punto di vista alle politiche di reddito minimo (RM) europee? Sono state influenzate in modo significativo da questa variazione di scenario ed eventualmente tale modifica è avvenuta in modo omogeneo, o piuttosto in modo differenziato tra singoli Paesi? E infine, siamo di fronte a piccoli aggiustamenti, o a un cambio paradigmatico di tali politiche?

Le politiche di reddito minimo hanno storicamente avuto alcuni tratti comuni tra loro, superiori alle differenze. Certamente è possibile effettuare una classificazione tra i Paesi europei, a seconda di come le singole politiche di RM con le loro precipue caratteristiche si sono collocate all’interno degli schemi nazionali di social assistance (Gough 2001), ma se compariamo tali politiche ad altri aspetti che hanno inciso nella modellizzazione dei sistemi di welfare, certamente non possiamo considerare la presenza di un sistema di RM forte o debole come un elemento caratterizzante di un modello di welfare.

In sostanza si può affermare che le omogeneità hanno avuto un peso maggiore delle differenze nell’incidenza delle politiche di RM all’interno del welfare state.

La tesi che intendiamo qui testare è che oggi, a fronte delle trasformazioni del modello sociale europeo sopra descritte e in particolare della tendenza verso politiche sempre più orientate a un approccio di attivazione occupazionale nel settore dell’assistenza, tali differenze sono ulteriormente attenuate, segnando un’evoluzione verso una maggiore convergenza delle politiche di RM all’interno dei sistemi di contrasto alla povertà. In effetti, tale convergenza non riguarda soltanto le politiche di RM in sé, ma più in generale la modalità di interpretare il sistema integrato di sostegno al reddito dei poveri nei moderni sistemi di welfare europei.

In questo lavoro però non ci concentreremo sull’insieme di misure che a vario titolo garantiscono una protezione del reddito minimo, come fatto da altri autorevoli studi (Cantillon et al. 2008; Marx e Nelson 2013), né su una analisi comparata dei sistemi di social assistance (Gough 2001; Behrendt 2002) o dell’impatto sulla povertà delle politiche sociali. Lo scopo di questo lavoro è invece concentrarsi sull’analisi delle politiche di RM e sulla loro evoluzione strutturale.

C’è una ragione intrinseca che giustifica tale specifica attenzione: comprendere infatti l’importanza che un welfare state conferisce a misure di universalismo selettivo contro la povertà significa poter dedurre la visione di povertà e di poveri che quel modello di welfare state rappresenta. Se cioè viene considerato importante avere una politica per tutti i poveri, o se invece risulta preferibile frammentare i poveri in sotto-categorie, ognuna con una sua specifica politica dedicata.

Nella prima parte del lavoro si ripercorrerà l’evoluzione delle politiche di reddito minimo, per poi passare ad analizzare il livello di divergenza delle attuali politiche e se i recenti sviluppi cui è sottoposto il welfare state europeo possano rappresentare un fattore di convergenza per le politiche di RM.

2. La traiettoria comune delle politiche di reddito minimo come diritto sociale

L’evoluzione delle politiche di reddito minimo in Europa, introdotte a partire dall’immediato dopoguerra, può essere analizzata come simbolo della trasformazione del concetto di cittadinanza sociale all’interno del modello sociale europeo.

Questa possibile lettura rappresenta una prospettiva analitica che trova del resto riferimenti metodologici nella letteratura internazionale: l’approccio istituzionale alle politiche sociali è infatti legato alle teorie della cittadinanza sociale, intesa in accezione marshalliana, laddove la regolazione dei programmi di policies definisce diritti e doveri sociali (Marx e Nelson 2013).

In questo senso può essere quindi interessante cercare di comprendere come la regolazione di politiche di protezione del reddito, come le politiche di RM, possa aver determinato un rapporto nell’equilibrio tra doveri richiesti ai beneficiari e diritti sociali, più o meno estesi a seconda che siano diritti universalistici o limitati ad alcune categorie di poveri.

In tutti i Paesi europei, infatti, l’introduzione di politiche di universalismo selettivo quali le politiche di RM avviene a fianco di politiche categoriali di mantenimento del reddito, come ad esempio le pensioni sociali. Questa caratteristica rappresenta già una forte comunalità ‘originaria’ nella strutturazione delle politiche di RM europee, che si accompagna a un altro tratto molto significativo che le contraddistingue senza eccezioni fin dal principio.

Infatti, in questa prima fase, inaugurata da Beveridge con il National Assistance inglese del 1948, le politiche di reddito minimo costituiscono politiche che determinano un diritto sociale di tipo ‘passivo’, in cui al beneficiario vengono chiesti esclusivamente requisiti in termini di means-testing, ma nessun adempimento ‘attivo’.

Una seconda fase nella traiettoria delle politiche di RM europee può essere individuata a partire dagli anni ’80: la prima disoccupazione di massa del dopoguerra, che investe tutto il continente a partire dalla metà del decennio precedente, spinge infatti i Governi a politiche più attente alla specifica categoria dei disoccupati con reddito basso. In questo caso le politiche di RM iniziano per la prima volta ad accompagnare il trasferimento monetario con servizi di inserimento sociale o lavorativo, a seconda del bisogno. Tale tendenza, che ha investito tutti i Paesi europei nel processo di riforma dei RM nazionali dalla fine degli anni ’80 per circa un ventennio, ha però determinato anche alcune significative differenze tra singole misure e una sostanziale divergenza tra due modelli. Da un lato alcuni Paesi hanno privilegiato la dimensione inclusiva dell’attivazione dei beneficiari, interpretando i servizi di inserimento sociale come un ampliamento dello spettro del diritto sociale di cittadinanza: possiamo considerare il caso francese del Revenu minimum d’insertion come capostipite di questo approccio. Dall’altro, alcuni Paesi hanno impostato le misure di inserimento, prevalentemente occupazionale, come la controprestazione da richiedere ai beneficiari ‘in cambio’ del diritto sociale costituito dal trasferimento monetario. Questa accezione, più tradizionalmente tipica del workfare anglosassone, trova un chiaro riferimento nella riforma del reddito minimo inglese avvenuta tra fine anni ’80 e prima metà del decennio successivo, quando la misura universalistica di contrasto alla povertà venne ‘sdoppiata’ in una misura fortemente volta all’inserimento professionale dei poveri disoccupati, il Jobseeker Allowance (JSA), e una misura di sostegno del reddito delle persone incapaci di lavorare (Income support). Tale divergenza, pur all’interno della medesima macro-trasformazione, che rendeva maggiormente ‘attivo’ il diritto sociale collegato al reddito, di fatto segnava una profonda dicotomia nella interpretazione del concetto di cittadinanza nel senso marshalliano del termine, oltre a determinare la strutturazione di diversi modelli di social assistance e contrasto alla povertà in cui il rapporto tra misura di RM e altre politiche assumeva contorni diversi e variegata capacità del welfare state (Gough 2001).

Negli ultimi quindici anni si è assistito a un’ulteriore trasformazione delle politiche di RM e della modalità con cui possano rappresentare un diritto sociale fondamentale del modello sociale europeo: è in questa terza fase che possiamo parlare di cambio paradigmatico nel ruolo del RM all’interno del sistema di protezione sociale perché di fatto cessa di rappresentare un diritto sociale in senso stretto.

Le riforme portate avanti in questo periodo infatti, sull’onda di una impostazione di riforme del welfare legate alla visione della attivazione e dell’investimento sociale (Hemerijck 2013; 2017), hanno nei fatti avvicinato le misure di RM a misure di sostegno attivo ai disoccupati poveri, accompagnando la prestazione monetaria a una forte logica pro-work e volta all’inserimento occupazionale.

Più in generale però possiamo dire che tutti i sistemi di social assistance dei principali Paesi europei si sono negli ultimi quindici anni riconfigurati, tramite una crescente integrazione di misure di diversa natura (politiche di RM di universalismo selettivo e altre misure categoriali) prima maggiormente scollegate tra loro, segnando così il passaggio da politiche di reddito minimo a sistemi integrati di protezione minima del reddito (Baldini et al. 2018): una tendenza che, se da un lato ha probabilmente rafforzato la coerenza interna e l’efficienza dei sistemi di contrasto alla povertà, dall’altro ha ulteriormente contribuito a segnare la fine delle politiche di RM intese come diritto sociale di cittadinanza.

 

Tabella 1 Ruolo delle politiche di reddito minimo nei meccanismi di protezione sociale

 Tabella 1 - Ruolo delle politiche

Ciò che infatti sembra essere sullo sfondo di tali riforme è l’idea che il diritto a un reddito minimo non sia separabile dalla sfera del diritto al lavoro, né che il primo possa essere considerato gerarchicamente allo stesso livello del secondo, ma ne sia in qualche modo subordinato e, dunque, dipendente[2].

Tale visione sembrerebbe configurare un quadro in cui il diritto sociale connesso al RM assume un ruolo ancillare e subordinato al diritto al lavoro, di cui diverrebbe automatica conseguenza – grazie alla realizzazione del diritto al lavoro si otterrebbe infatti un reddito – ma anche al dovere di lavoro, da cui diventerebbe in un certo senso dipendente nel garantire agli individui un reddito minimo. Da questo punto di vista si può quindi affermare che il diritto sociale connesso alle politiche di RM così interpretate perde non solo autonomia, ma persino identità e piena esigibilità; in sostanza, infatti, il diritto al reddito minimo verrebbe funzionalmente collegato al dovere all’inserimento lavorativo da parte dei beneficiari quale requisito fondamentale per garantire la prestazione economica, che quindi non costituirebbe più la realizzazione di un diritto di universalismo selettivo, ma un diritto limitato a coloro che soddisfano determinati doveri sociali.

Oltre ai problemi di natura teorica che ciò comporta, ci sono però alcune conseguenze direttamente connesse alla sfera di policy.

In primo luogo si verifica infatti una confusione negli obiettivi delle politiche sociali, poiché le politiche di RM, così interpretate, non vengono più lette come politiche di contrasto alla povertà, ma alla disoccupazione, con il rischio che l’obiettivo di contrasto al fenomeno ‘in sé’ venga cancellato dalle priorità di agenda pubblica e sostituito dal contrasto alla disoccupazione, con l’idea che ciò comporterà automaticamente anche il superamento della povertà stessa.

Questa assunzione non è solo errata teoricamente ma, generando confusione tra gli obiettivi di policy, è anche empiricamente sbagliata: basti pensare che durante il periodo di maggiore decrescita della disoccupazione, verificatosi negli anni 1995-2008, in cui i tassi di occupazione sono saliti dall’8% al 15 in Europa, si è assistito anche alla stagnazione e in alcuni casi all’aumento della povertà per la fascia di popolazione in età da lavoro (Cantillon 2011). In sostanza, far dipendere il diritto a un reddito minimo unicamente dal raggiungimento del diritto al lavoro rischia di mettere fortemente in pericolo la garanzia di un fondamentale diritto sociale di cittadinanza.

3. Elementi di differenziazione nell’evoluzione delle politiche di RM europee

Come abbiamo visto finora esiste dunque una traiettoria comune nell’evoluzione delle politiche di RM in Europa, dalla loro nascita ai giorni nostri. Anche e soprattutto per tale ragione le attuali misure di RM europee hanno forti tratti di comunalità: in tutti i casi si tratta di politiche a prestazione differenziale – vale a dire che il trasferimento monetario è pari alla differenza tra una soglia di povertà stabilita e la condizione economica del beneficiario – rivolte a tutti i poveri solitamente compresi tra i 18 e 65 anni, dopodiché le misure si trasformano in pensioni sociali[3], e hanno durata sostanzialmente illimitata, poiché l’erogazione viene garantita fintanto che la condizione di bisogno persiste (in alcuni casi con la previsione di brevi periodi di interruzione). Quasi ovunque le misure di RM sono rivolte a tutta la famiglia, ma l’accesso è individuale. Come ricordato, in tutti i casi le misure di RM sono inserite in un quadro più o meno articolato costituito da altre politiche di sostegno del reddito a carattere categoriale, destinate a specifici gruppi di poveri, e possono essere più o meno integrate e armonizzate.

In conclusione possiamo affermare che il cuore delle politiche europee di RM, la loro natura e caratteristiche intrinseche, presentano un quadro di forte omogeneità.

Esistono però naturalmente anche delle differenze tra le singole misure nazionali, che, come possiamo facilmente ipotizzare dal quadro presentato nel paragrafo precedente, sono aumentate soprattutto nel ventennio tra gli anni ’80 e i primi anni del 2000, quando si è determinata una sostanziale divaricazione tra due diversi modelli di attivazione dei beneficiari delle politiche.

È possibile classificare le differenze tra le singole politiche di RM in due grandi categorie: il grado di rigidità o condizionalità richiesta per l’accesso e la generosità della misura (Busilacchi 2013). È anche possibile inserire una terza categoria analitica riguardante la governance delle misure, vale a dire il loro livello di centralizzazione (Cantillon et al. 2008).

Per quanto attiene alla condizionalità nell’accesso alla misura di RM, possiamo individuare tre categorie di requisiti: quelli di natura socio-anagrafica, quelli legati agli impegni del beneficiario sul fronte dell’attivazione sociale e occupazionale e quelli legati alle condizioni economiche e lavorative.

Partendo dal primo gruppo, il RM – come ricordato – è rivolto a tutta la famiglia, ma l’accesso è individuale, quindi le condizioni richieste riguardano le caratteristiche del beneficiario che presenta la domanda e che firmerà il progetto di inserimento, tranne le condizioni economiche, che si valutano facendo riferimento all’intero nucleo familiare. L’accesso è solitamente per gli individui di età compresa tra i 18 e 65 anni e residenti nel Paese in questione.

Casi di maggiore o minore rigidità prevedono alcune piccole variazioni nell’età di accesso (15 per la Germania, 25 per la Spagna), ma soprattutto – tema molto più delicato sul versante politico, specie in quest’ultimo periodo – rispetto alle condizioni di residenza o nazionalità richieste. In alcuni Paesi infatti, oltre alla residenza, viene chiesta anche la nazionalità come criterio di accesso al RM[4]; in altri casi la rigidità di accesso viene aumentata tramite la richiesta di periodi di residenza non inferiori a un determinato numero di mesi (solitamente 12 o 24, come nel caso del ReI italiano; un criterio di alta rigidità da questo punto di vista sembrerebbe riguardare anche il nascente Reddito di cittadinanza italiano). I Paesi meno rigidi da questo punto di vista sono il Regno Unito in cui è sufficiente vivere nel Paese, e la Svezia in cui è sufficiente il diritto di soggiorno. Una maggiore rigidità si verifica nel caso olandese, in cui i beneficiari sono tenuti anche a parlare la lingua e, se non la conoscono, devono acquisire in breve tempo tale competenza: la ragione sta nel fatto che si ritiene impossibile favorire un inserimento occupazionale per chi non ha tale capacità. In Germania, invece, sebbene la misura di RM (rivolta ai disoccupati abili al lavoro) preveda la sola residenza come condizione, gli altri minimi categoriali richiedono invece il requisito della nazionalità.

A proposito delle condizioni legate all’impegno per il progetto di attivazione sociale e occupazionale, in realtà non si può parlare di vera condizionalità ex ante: tutte le misure prevedono, con termini e norme diversi, che sia dovere del beneficiario impegnarsi a rispettare il progetto personalizzato (in molti casi esteso alla famiglia) per uscire dalla condizione di bisogno. Nella maggior parte dei casi si prevede la registrazione al collocamento, l’impossibilità di rifiutare i lavori offerti (anche per il partner, nel caso olandese) e il prendere parte alle attività formative e di attivazione previste per sé e per i familiari; in qualche caso sono previste sanzioni per chi non rispetta questi doveri, fino alla sospensione della misura. È interessante notare come nel caso svedese si faccia particolare attenzione alla valutazione della ‘capacità della persona di supportare se stessa’: in questi casi le singole parole indicate nelle norme sono già indicative dell’approccio e della visione politica alla base di misure solo in apparenza molto simili tra loro. In generale però, al di là di queste differenze, si può affermare che in quasi tutti i Paesi europei l’irrigidimento nel corso degli anni della condizionalità all’inserimento lavorativo ha portato i redditi minimi europei ad assumere sempre più nei fatti la natura di politiche di ‘quasi workfare’ destinate ai poveri senza lavoro, in cui, più che sulla garanzia del diritto al reddito minimo, l’accento è posto sulla controprestazione diritto-dovere. Da questo punto di vista va detto che, oltre all’impostazione di policy nazionale, un ruolo decisivo è spesso giocato dal tipo di implementazione a livello locale, che può risultare più rigido nell’erogazione del diritto al reddito solo a fronte di una controprestazione, oppure più orientato a una logica di ‘sviluppo umano’.

Questo aspetto risulta davvero decisivo rispetto alla trasformazione della natura delle politiche di reddito minimo, aprendo lo spazio a crescenti integrazioni ‘armonizzate’ con altre misure (assistenziali, categoriali o di sostegno al reddito dei lavoratori poveri) verso veri e propri sistemi integrati di reddito minimo (Baldini et al. 2018).

Il terzo livello di condizioni richieste, quello di natura economica, è in realtà strettamente legato alla generosità delle politiche di RM.

Poiché infatti tali misure sono a importo differenziale, determinato dalla distanza tra la condizione economica del beneficiario e del suo nucleo familiare e la somma stabilita, è chiaro che la valutazione sulla generosità della misura riguarda in realtà il valore della soglia di accesso e le modalità con cui essa è calcolata.

Da questo punto di vista è molto importante sottolineare che la modalità di calcolo è anzi altrettanto importante rispetto al valore della soglia stabilita: la previsione di eventuali franchigie ad esempio incide nettamente sul valore della prestazione e, ancor prima, sulla possibilità di accesso.

In alcuni Paesi, come Gran Bretagna, Spagna, Germania e Italia, la casa di proprietà, al di sotto di una certa soglia catastale, non viene considerata nella valutazione della condizione economica, mentre nei Paesi Bassi è prevista una franchigia parziale. Per le persone in condizioni di povertà tale da avere accesso al RM, qualora non si abbia un’abitazione di proprietà, la spesa per la casa costituisce di gran lunga la spesa più importante e il bisogno più impellente: in questi casi dunque, il fatto che il costo dell’affitto venga o meno calcolato all’interno della prova dei mezzi per avere accesso alla misura diventa un fattore fondamentale, spesso addirittura più importante rispetto all’ammontare del trasferimento monetario in sé. La stessa cosa avviene per quanto attiene ad altre spese che coprono bisogni fondamentali, come i costi di riscaldamento o di acquisto di medicine o di prestazioni sanitarie.

Analogamente in molti casi esiste una franchigia rispetto ai redditi da lavoro per disincentivare eventuali trappole della povertà: così, piccoli redditi da lavoro (solitamente indicati in valore assoluto o in percentuale rispetto al reddito complessivo) non vengono tenuti in considerazione in Gran Bretagna, Svezia, Paesi Bassi, Portogallo e Italia.

Allo stesso modo in alcuni casi non vengono computati modesti trasferimenti sociali (spesso legati proprio al sostegno a spese fondamentali per la vita quotidiana), che risultano dunque cumulabili con le prestazioni di RM.

E ancora: in alcuni Paesi i beneficiari delle politiche di RM hanno accesso automatico ad altre misure di natura ben diversa dal reddito minimo, come le politiche di housing (sia per sostegni all’affitto che per spese legate al riscaldamento, piuttosto rilevanti nel budget dei meno abbienti in alcuni Paesi nordeuropei) o per trasferimenti connessi all’acquisto di beni fondamentali, spesso legati alle politiche sanitarie (ad esempio per le spese farmaceutiche). In sintesi queste spese fondamentali per il benessere ‘minimo’ della persona possono essere coperte o tramite franchigie, parziali o totali, nella prova dei mezzi per l’accesso alla misura di RM, oppure garantendo l’accesso automatico a prestazioni sociali ad hoc; in generale, tali misure accessorie, che però come detto possono anche superare per consistenza l’importo del RM stesso, vanno considerate nella generosità in senso lato della misura.

In particolare gli housing benefits sono a volte molto significativi, come ad esempio nei Paesi Bassi, ma anche in Francia, Germania e Gran Bretagna c’è un’attenzione particolare alla copertura dei costi della casa (e del riscaldamento).

Venendo alla generosità delle politiche di RM in senso stretto invece, in media le politiche di RM europee hanno una scarsa efficacia, da sole, nel contrastare la povertà: nei dati di qualche anno fa la copertura media delle prestazioni europee rispetto alla soglia di povertà era di circa il 52% (Busilacchi 2013), con alcuni Paesi (in particolare Danimarca e Paesi Bassi, ma anche Irlanda e Belgio) che si contraddistinguevano per una generosità alta, ben al di sopra della media, e una buona efficacia nel contrasto delle povertà; altri Paesi, come Francia e Spagna, si attestavano per valori intorno alla media, e infine un terzo gruppo (tra cui sorprendentemente Svezia, Germania e Gran Bretagna) impiegava importi di RM ben al di sotto delle soglie di povertà dei singoli Paesi e quindi con una scarsa efficacia nell’azione di contrasto del fenomeno. Tali scelte sono indicative di quanto la politica di RM sia centrale nel sistema di welfare e di quale valore si voglia dare a strumenti di universalismo selettivo.

Va chiarito che il livello di generosità delle politiche di RM non corrisponde a ciò che potremmo attenderci dalla classificazione dei modelli di welfare, nel cui ambito il contrasto alla povertà è valutato dall’insieme del sistema di protezione sociale (Gough 2001).

Terzo e ultimo aspetto di differenziazione è quello che attiene al livello di centralizzazione delle misure di reddito minimo, che solitamente sono regolate a livello nazionale ma amministrate localmente: in media le misure di RM, come ricorda Saraceno (2002), sono una delle politiche sociali più decentralizzate del welfare state. Ciò detto, in alcuni Paesi, come Francia, Germania[5], Danimarca e Regno Unito, tramite standard rigidamente codificati a livello centrale, si evita l’eccessiva discrezionalità locale; in altri, invece (Belgio, Svezia, Finlandia, Portogallo), alcune regole di massima sono fissate centralmente e possono poi essere incrementate a livello locale da benefit supplementari a discrezione degli amministratori; infine Austria e ancor di più Spagna rappresentano i casi di maggiore decentralizzazione, con politiche di RM diverse tra realtà locali diverse (Cantillon et al. 2008).

4. Osservazioni conclusive: verso una nuova convergenza nelle politiche di RM

Come abbiamo ricordato in precedenza, negli ultimi quindici anni si è assistito a una convergenza delle politiche di RM verso una crescente incentivazione all’inserimento lavorativo dei beneficiari tramite un aumento dell’utilizzo di politiche attive come controprestazione per poter ottenere il trasferimento monetario.

In questa fase un ruolo significativo è stato svolto anche dall’Unione europea che, se da un lato ha più volte richiamato tramite varie Raccomandazioni, sia della Commissione (European Commission 2008), sia del Parlamento europeo (2009), l’importanza del RM come strumento di contrasto alla povertà e alla esclusione sociale, riprendendo la nota Raccomandazione 441/92, anche indipendentemente dalla condizione occupazionale del beneficiario[6], d’altro canto ha più volte indicato nel Social Investment Paradigm la direzione politica su cui declinare il Social Pillar e le politiche di welfare europeo, in particolare quelle di contrasto all’esclusione sociale. Ad esempio, nel 2013 l’adozione del Social Investment Package da parte della Commissione europea (European Commission 2013a) ha segnato chiaramente la modalità con cui l’Unione europea interpreta le politiche di attivazione del beneficiario di assistenza sociale: con welfare attivo l’Europa tende a significare attivazione occupazionale più che attivazione sociale, e dunque anche la declinazione delle misure di policy segue tale impostazione, politiche di RM comprese. Un documento altrettanto importante è quello della Commissione europea del 2013, che fa seguito a una Raccomandazione sull’attivazione dei disoccupati, in cui si sostiene che il ‘reddito minimo non [dovrebbe essere] superiore al 40% (del reddito mediano) per eliminare trappole di inattività’ (European Commission 2013b). Sempre secondo questo approccio, non dovrebbe essere possibile rifiutare alcun lavoro che venga proposto durante i percorsi di inserimento: in sostanza le politiche di contrasto alla povertà diventerebbero ancillari all’occupabilità dei beneficiari, piuttosto che attente più in generale all’inclusione sociale e a una ‘crescita umana’. Una prospettiva dunque completamente ri-mercificatrice, con l’obiettivo di valorizzare l’individuo esclusivamente in funzione della sua posizione nel mercato del lavoro e interpretare il welfare come un fattore produttivo, più che come un fattore di cittadinanza.

In realtà va precisato che gli strumenti in capo alla UE sono strumenti di soft law, come il metodo di coordinamento aperto delle politiche sociali e della persuasione politica, piuttosto che strumenti di hard law.

Va detto però che, oltre alle indicazioni in tale senso delle istituzioni europee e della prevalente letteratura sul nuovo modello di welfare europeo (Hemerijck 2013; 2017), anche diverse singole riforme del RM sono andate concretamente in questa direzione.

Questa tendenza generale all’attivazione trova poi una differente declinazione politica, che può essere sintetizzata in due casi esemplari: da un lato quello anglosassone, più orientato a un meccanismo di incentivi e sanzioni, dall’altro uno più universalistico, in cui l’attivazione viene interpretata come una importante opportunità, ma non come un obbligo (Barbier 2005).

Sebbene dunque esistano differenze nella impostazione politica di questo modello, esso può rappresentare un tratto comune e unificante che ha riguardato le riforme delle politiche di RM portate avanti dai Paesi europei negli ultimi anni.

Le recenti riforme[7] in alcuni di questi Paesi sono state molto significative e mostrano con chiarezza tale convergenza: ad esempio in Francia nel 2016 il Revenu de solidarité active è stato modificato secondo un approccio maggiormente legato alla attivazione lavorativa, con l’introduzione del Prime Activité, che al contempo applica una logica making work pay ai poveri disoccupati e ai working poors. L’operazione più significativa nel realizzare una fusione tra varie misure di social assistance indirizzate a categorie diverse è stata senza dubbio quella inglese, in cui dal 2013 l’Universal Credit sostituisce, seppure per ora solo in misura sperimentale, ben sei diverse politiche di contrasto alla povertà, anche in questo caso sollecitando molto la condizionalità e la logica di attivazione, soprattutto lavorativa, dei beneficiari.

Sempre la stessa logica pro-work, ma con una ricetta ancora diversa, è stata quella seguita in Germania con le riforme Hartz, che negli ultimi anni hanno trasformato un sistema integrato di politica di reddito minimo (Sozialhilfe) e dei due pilastri di ammortizzatori sociali, contributivo (Arbeitslosengeld I) e assistenziale (Arbeitslosengeld II), in uno schema binario, quello attuale, in cui indennità di disoccupazione assistenziale e reddito minimo sono di fatto integrati e rivolti ai poveri in cerca di lavoro e ai working poors. Pur con uno schema diverso da quello francese, in sostanza, la logica di fondo di allontanamento dal RM come diritto sociale sembra la medesima.

Persino nel caso spagnolo, pur con tutte le specificità di un modello ad alta decentralizzazione, l’introduzione di due misure nazionali, rivolte sostanzialmente ai disoccupati poveri, va nello stesso senso sopra descritto: da un lato le Prestaciones por desempleo de nivel asistencial, con durata semestrale, rappresentano più tipicamente un secondo pilastro di ammortizzatore sociale, dall’altro la Renta activa de insercion (RAI), rivolta ai disoccupati over 45 in condizioni di difficoltà economica, è di fatto una indennità di disoccupazione assistenziale categoriale legata a politiche attive del lavoro e una forte incentivazione ad aumentare le opportunità di occupazione per una specifica categoria di persone.

Altri casi di recente riforma hanno portato a un forte taglio dei benefit di RM in Finlandia e in Svezia e a una sostituzione della tradizionale logica di universalismo selettivo connessa alla politica di RM, in Irlanda e Malta, con un sistema di politiche categoriali di contrasto alla povertà fortemente integrate tra loro (Cantillon et al. 2008).

In conclusione sembra di assistere a un sostanziale tratto unificante nelle più recenti riforme delle politiche di RM che hanno avvicinato modelli che in precedenza avevano caratteristiche più marcatamente diverse. Oggi la tendenza prevalente è quella di introdurre misure fortemente attivanti sul mercato del lavoro, dedicate a poveri abili al lavoro e integrate all’interno di sistemi di protezione del reddito con un buon grado di armonizzazione interna. I prossimi anni ci diranno se tale tendenza alla convergenza sarà un elemento stabile nella strutturazione dei sistemi di welfare europei, o se si assisterà a ulteriori cambiamenti e differenziazioni.

 

Tabella 2 Caratteristiche delle misure di RM in alcuni Paesi europei

Tabella 2 - Caratteristiche  

Bibliografia

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1

Secondo tale prospettiva, ai beneficiari delle politiche di social assistance che godono di diritti sociali andrebbe richiesto ‘in cambio’ un corrispettivo ‘dovere’, rappresentato da una responsabilizzazione verso l’inserimento lavorativo.

2

Tale visione potrebbe essere legata al fatto che, mentre il lavoro è una diretta dimensione di realizzazione umana, il reddito viene visto come una variabile strumentale nel raggiungimento di benessere.

3

Da questo punto di vista l’integrazione armonica tra RM e redditi minimi riservati agli anziani è massima, mentre l’armonizzazione non è garantita nei Paesi che prevedono solo l’integrazione al minimo delle pensioni, che esclude chi non ha mai lavorato (Marx e Nelson 2013; Busilacchi 2013).             

4

Questa possibilità è ad esempio esclusa in Italia dal dettato costituzionale.

5

La Germania rappresentava un caso di decentralizzazione del RM, ma una riforma del 2012 ha centralizzato la gestione, evitando differenze tra Lander.

6

In realtà se guardiamo con una prospettiva di sintesi agli ultimi decenni di documenti dell’UE relativi alla ‘dimensione sociale’, partendo dalla Strategia europea sull’occupazione in avanti, emerge con chiarezza che l’obiettivo principale del modello sociale europeo è il contrasto alla disoccupazione, più che alla povertà.

7

Per una dettagliata analisi delle principali riforme delle politiche di RM nei principali Paesi europei si rimanda a Fondazione Astrid e Fondazione Rosselli (2018).